"Giù le mani dall'articolo 18!" si gridava, nelle piazze e non solo. Poi, quando si è capito che quella norma poteva essere davvero mandata in soffitta, la tensione è arrivata al calor bianco. Eppure tutti sanno che il sistema di protezione di cui l'articolo 18 è la chiave di volta, quello che oggi chiamiamo job property, è nato mezzo secolo fa, nel lontano 1970: da allora tutto, o quasi, è cambiato. Cinquant'anni fa non c'erano ancora i computer, non esisteva Internet, ma neppure fax e fotocopiatrici. Esisteva, invece, il "posto fisso": si entrava in azienda a 16 anni per rimanerci fino alla pensione, fabbricando sempre gli stessi oggetti, con gli stessi strumenti. In una società dove erano ancora gli aiuti di Stato ad assicurare la continuità delle grandi strutture produttive, non era neppure pensabile che aziende come Olivetti, Fiat o Alitalia potessero ricorrere a un licenziamento collettivo o tanto meno chiudere. Mentre era pensabile che il "risarcimento" per la perdita del posto in aziende come quelle consistesse in anni e anni di Cassa integrazione, fino a un prepensionamento a 57 o 58 anni. Ma nel frattempo l'articolo 18 generava un regime di apartheid tra i garantiti e i precari, cui la grande crisi ha aggiunto gli esclusi. In questo libro scritto con il rigore dello studioso ma con la penna agile del giornalista, Pietro Ichino, giuslavorista e senatore della Repubblica, racconta perché e come nel nostro ordinamento è stato introdotto l'articolo 18...
Da sindacalista della Cgil, poi da ricercatore, professore di diritto del lavoro, avvocato, editorialista del "Corriere della Sera", e per qualche tratto anche come politico in Parlamento, Pietro Ichino ha spesso sostenuto tesi scomode per l'establishment, di sinistra e di destra, contribuendo in modo incisivo all'evoluzione del sistema italiano delle relazioni industriali e raccogliendo tanto consensi ed entusiasmo quanto critiche e contestazioni. Per via delle sue proposte è stato accusato di eresia e addirittura di "intelligenza con il nemico", di essere cioè un portatore di idee liberiste infiltrato nel centrosinistra. Attraverso un'avvincente inchiesta, un vero e proprio interrogatorio senza esclusione di colpi, Ichino risponde a tutte le obiezioni e le accuse ricevute in questi ultimi anni, messe in bocca a un immaginario interlocutore-inquisitore, affrontando i temi fondamentali del lavoro in Italia. E grazie ad analisi precise ed esempi concreti mette a nudo i meccanismi segreti di un sistema drammaticamente ingessato, prigioniero dei propri tabù e delle proprie caste. Un paese in cui vige un regime di vero apartheid tra lavoratori protetti e non protetti, dove agli stabili regolari è riconosciuta una sorta di job property, mentre agli outsiders e ai new entrants, ben che vada, si offrono soltanto i posti di serie B, C e D, con un futuro pensionistico misero, destinato a maturare soltanto dopo i settant'anni. Un sistema chiuso da un tacito accordo protezionistico...