Non sono pochi gli interrogativi intorno a questo libro biblico che si presenta più come un trattato che non come una lettera, secondo i canoni classici delle lettere apostoliche; gli studiosi si sono interrogati sull'autore di questo testo, certamente un ebreo-cristiano di profonda cultura, sensibilità letteraria e grande impegno pastorale, tanto da essere stato attribuito a Paolo. Anche l'individuazione dei destinatari di questo scritto ha fatto discutere gli studiosi, ma al di là di questi dibattiti ancora aperti, resta la grandezza di un documento che offre un robusto contributo teologico alla riflessione sul sacerdozio e sulla mediazione salvifica di Cristo.
Le Lettere pastorali sono forse dei semplici documenti normativi, messi a punto sul volgere del I secolo e agli albori del II secolo, per arginare spinte ereticali? Una simile interpretazione appare sempre meno attendibile, anzi indebitamente riduttiva. Quelle lettere sono infatti il profilo di un "popolo di Dio" che va acquistando consapevolezza e statura; di una ecclesia domus tutta ministeriale, dove episcopi, presbiteri e diaconi trovano al loro ragion d'essere nel servizio al primato della Sacra Scrittura e nella celebrazione pasquale, due momenti aperti al dono della riconciliazione. Il tutto puntato verso una strategia pastorale che non conosce limiti. In situazione di ascolto e improntata al dialogo, quella strategia avrà cura di quanti elaborano il mistero cristiano con pronunciamenti "preoccupanti"; non si chiuderà a quanti sono al di fuori dell'ecclesia, sia ebrei che gentili; presterà attenzione all'anziano e al giovane, all'uomo e alla donna, al lavoratore e al datore di lavoro, alla famiglia e ai suoi interrogativi. Accrescono l'interesse alle Lettere pastorali la documentazione tardogiudaica e quella cristiana dei primi secoli. Il loro apporto alla comprensione di quelle lettere è di una ricchezza insperata. Si guardi poi a Paolo di Tarso, che in esse è più presente che mai.