Il libro della Sapienza, scritto ad Alessandria d'Egitto verso la fine del I secolo a.C., si interroga sulla nascita dell'idolatria con il più lungo e circostanziato passo dell'Antico Testamento dedicato a questo tema. Interpretata come tradimento da parte d'Israele dell'amore di Dio per il suo popolo, l'idolatria consiste nello stravolgimento del senso della creazione e si regge sull'illusione di poter dominare la realtà e trasformare le creature in un possesso da poter sfruttare a proprio piacimento. In questo modo si comprende come tra le cause dell'idolatria vi siano il desiderio del guadagno e la tentazione del potere ai quali si associa l'esperienza del dolore, che porta l'uomo a rifugiarsi in realtà artificiali e a fare persino della religione un mezzo per trovare risposte facili a drammi insolubili. Come ricorda il libro dei Proverbi, la ricchezza materiale crea nell'uomo la presunzione dell'onnipotenza e - aggiunge il Qoèlet - anche il lavoro, quando viene inteso come mera ricerca del profitto, rientra nel novero delle illusioni, un affanno che si riassume nell'"inseguire il vento".
Se i profeti si basano su una parola ricevuta direttamente da Dio e gli apocalittici su visioni celesti che dischiudono il senso della realtà, i saggi di Israele ritengono, invece, che Dio sia raggiungibile attraverso l'esperienza della vita quotidiana. Il loro metodo di indagine procede dunque secondo canoni non moralistici orientati all'osservazione e al desiderio di comprendere, ma anche alla consapevolezza che nessun esperimento può essere totalizzante o merita di essere dogmatizzato. Un viaggio attraverso cinque libri dell'Antico Testamento - Proverbi, Giobbe, Qoèlet, Siracide, Sapienza consente inoltre di vedere all'opera lo "spirito di Dio", presente nella Scrittura fin dalla Genesi e realtà dinamica che caratterizza il rapporto tra l'uomo e il suo Signore. Nel mondo antico l'atto di scrivere non è una semplice registrazione di testi, ma una conoscenza riservata a pochi che carica la parola scritta di un valore sacro. Come dimostrano i passi che chiudono i libri del Qoèlet e di Ben Sirà, essa si propone come una vera e propria ermeneutica della parola orale che apre una finestra sul mondo in cui la Scrittura parla di sé, comunica se stessa e su se stessa riflette.