"Todo el Amor" rappresenta l'unica antologia 'personale' di Pablo Neruda, che è andato egli stesso scegliendo e raccogliendo in questo volume quanto poteva meglio rappresentare l'ispirazione amorosa della sua poesia. Se è vero infatti che per Neruda è l'amore la forza maggiore della vita, è anche vero che questa fonte essenziale della sua poesia ha tardato a essere riconosciuta, tanto che lo stesso poeta confidava a Giuseppe Bellini, suo amico e massimo interprete della poesia nerudiana in Italia, la sua contrarietà a essere considerato solamente poeta dell'impegno, quando nella sua poesia aveva tanto posto il sentimento. Possiamo dunque pensare che sia stato proprio questo iniziale 'disconoscimento' a spingere Neruda a sottolineare questo aspetto della sua poesia in una apposita antologia. Il risultato è, come scrive Bellini nella prefazione al volume, "un nuovo libro di confessioni nerudiane, tanto più personale in quanto il poeta stesso lo ha 'costruito'".
Scritto di getto fra il 5 e il 6 luglio del 1969, il breve poema "Un giorno ancora" si situa fra due opere molto importanti dell'ultimo Neruda: "Fine del mondo" e "La spada di fuoco". Ma cos'è quell'"ancora" (Aùn), che ne costituisce il netto e secco titolo originale? È innanzitutto un atto di presenza, un "esserci ancora" del poeta, ed è insieme un atto di rinnovamento e di rilancio, di "rigenerazione" per un'ancora maggiore aderenza alla vita. Come scrive Valerio Nardoni nella prefazione, tutta la carica semantica del titolo originale ricade su un verso programmatico, che chiude il primo dei ventotto frammenti di cui si compone il poema: debo aclarar aùn mis deberes terrestres, dove "aclarar" non significa semplicemente "chiarire", nel senso di "spiegare meglio", ma "rendere più chiari" i propri doveri. Ne scaturisce un poema urgente e asciutto, che ha le movenze di una scrittura "accaduta" così la definisce il poeta nel saluto finale - più che meditata, e che proprio in questa sua spontanea e felice sintesi riesce ad esprimere tutto il vigore e tutta la profondità della sua ispirazione.
Per molto tempo ci si chiese chi fosse nella realtà la fortunata destinataria di alcuni dei versi d'amore più celebri di Neruda, e in particolare di quelle Venti poesie d'amore e una canzone disperata che restano fra le pietre miliari della sua produzione poetica. Il mistero si svelò soltanto nel 1975, quando Albertina Rosa Azócar Soto, da Neruda conosciuta ai tempi dei comuni studi giovanili nel Pedagógico di Santiago, decise di pubblicare le lettere ricevute dal poeta, scomparso soltanto due anni prima. Queste lettere dunque ricostruiscono il burrascoso legame fra i due giovani innamorati, e, come scrive Giuseppe Bellini nella prefazione, ci mostrano "il forte sentimento del poeta, privo di smagliature, certo non soddisfatto per la mancanza di adeguata corrispondenza epistolare, di fronte all'urgenza delle sue missive". Le lettere coprono un arco cronologico di oltre un decennio; l'ultima, del luglio 1932, è successiva ormai di due anni al matrimonio del poeta con la giavanese, di origine olandese, Maria Antonieta Agenaar Vogelzanz. Quattro anni più tardi, Albertina sposerà a sua volta il poeta Angel Cruchaga Santa Maria, peraltro amico intimo di Neruda. Le strade dei due si dividono per sempre; restano, a testimonianza e documento di quel grande amore giovanile, queste lettere, e soprattutto, alcune delle più belle poesie d'amore del Novecento.
La raccolta "Canción de gesta" è pubblicata qui nella versione completa dell'ultima poesia aggiunta da Neruda, «Giudizio finale», in risposta agli attacchi subiti da parte di alcuni intellettuali dopo la sua partecipazione a una riunione del Pen Club a New York nel 1966, e completa anche del nuovo prologo scritto dallo stesso poeta per l'edizione uruguayana del 1968, nel quale Neruda tornava su quell'episodio, stigmatizzando che quest'opera «è il primo libro che un poeta abbia dedicato alla rivoluzione cubana». Ma in "Canción de gesta" c'è molto di più che non la sola rivoluzione cubana: c'è il dramma sociale e politico di un intero continente e insieme il suo sogno di riscatto; c'è, soprattutto, la grande poesia di Neruda.
"Grande viaggiatore, Pablo Neruda traccia in questo libro un affascinante itinerario, in prosa e in versi, attraverso vari continenti: l'America natale, dal Cile al Messico, il favoloso Oriente dell'India, della Birmania, di Ceylon, Giava e Singapore, e la Spagna della guerra civile. I ricordi si intrecciano agli aneddoti, le riflessioni personali a quelle letterarie e politiche, le suggestive descrizioni paesaggistiche a minuti cataloghi di piante, conchiglie, animali, in un continuo divagare che nella sua leggerezza sa offrire al lettore, condensato in una goccia, il grande oceano della poetica nerudiana." (dalla prefazione di Ilide Carmignani)
Apparsa nel 1968 - e cioè un anno dopo "La barcarola", il lungo canto d'amore dedicato a Matilde che completava idealmente il grande ciclo "intimo" del "Memoriale di Isla Negra" - la raccolta "Le mani del giorno" occupa un posto piuttosto particolare nell'opera di Neruda. Ma se il poeta vi lamenta la frustrazione, il senso di colpa per non aver saputo "usare" le proprie mani, così da poter realmente "apprendere, vedere, raccogliere e unire gli elementi", questa raccolta è anche il frutto maturo di quella continua tensione che la poesia di Neruda da sempre sente verso gli oggetti e verso gli umili eroi dell'esistenza umana, indaffarati giornalmente ad affermare se stessi e gli altri nel proprio lavoro.
Questa selezione comprende alcune delle più belle odi "morali" e "sentimentali" di Neruda: l'allegria, l'amicizia, la tranquillità, la speranza, la solitudine, la pigrizia, l'amore... È, nel suo insieme, una grande ode alla vita, perché "la vita aspetta / tutti I noi che amiamo / il selvaggio / odore di mare e di menta / che ha fra i seni".
L'idea di una raccolta dedicata alle pietre del litorale cileno era stata suggerita a Neruda da un'analoga pubblicazione, che aveva per oggetto "Le pietre di Francia", e che comprendeva poesie di Pierre Seghers e fotografie di Fina Gómez; infatti, la prima edizione de "Le pietre del Cile", apparsa nel 1960, era anch'essa corredata da fotografie di Antonio Quintana. Ma al di là della circostanza occasionale, la fisicità e il simbolo della pietra rivestono un ruolo importante nella poesia di Neruda, ribadito del resto, dieci anni dopo, con l'altra raccolta "Le pietre del cielo" e, più tardi ancora, con una delle sue ultime raccolte, "La rosa separata", dedicata alla mitica Rapa Nui e al suo popolo di statue misteriose, i 'moais'.
Ricordava Pablo Neruda che la sua prima idea del Canto generale - il grandioso poema scritto a più riprese e pubblicato nel 1950 - era stata di un canto dedicato alla sua patria, "un canto generale del Cile, a modo di cronaca". Fu proprio un suo viaggio a Cuzco - la mitica città la cui storia, per l'epoca precolombiana, coincideva con quella del Perù incaico - e la salita al Macchu Picchu che allargarono enormemente la sua prospettiva, cominciando a far germogliare in lui "l'idea di un canto generale americano", una grande epopea in cui si sarebbe potuta scorgere "l'America intera dalle alture di Macchu Picchu", le lotte dei suoi antichi abitanti che si legavano ora indissolubilmente alle loro lotte attuali.
In "La spada di fuoco" Neruda racconta la favola dell'ultimo essere umano sulla terra, la sua seconda nascita attraverso l'amore, e insieme la nuova alba dell'umanità. Se spesso le poesie di Neruda tendono a costituirsi in un tutto poematico, a volte persino oltre le divisioni da raccolta a raccolta, "La spada di fuoco" è un poema vero e proprio, in cui la predestinata vicenda dei due protagonisti, Rhodo e Rosía, si compie nonostante l'ira vendicativa della divinità della terra, il vulcano, nemico della razza umana. È ancora una volta l'amore a costituire la realizzazione più piena dell'uomo e della donna, il trionfo della vita non più intesa biblicamente come sofferenza e castigo, ma proiettata verso una felicità che si fonda anche sul lavoro.
Per "Le pietre del cielo - apparso nel 1970, dieci anni dopo l'altro 'libro delle pietre', "Le pietre del Cile" - si è parlato di una raccolta di "tranquilla bellezza" e di "quietato ardore", quasi che il poeta avesse finalmente raggiunto uno dei luoghi più pacificati e sereni della sua poesia. Ma se è vero che Neruda vede riflettersi nella bellezza delle pietre la bellezza del cielo, è non meno vero che per il poeta le pietre rappresentano anche quella lezione di eternità che è negata invece al destino precario dell'uomo. Ed è proprio in questo che la raccolta "Le pietre del cielo" si ricollega alla precedente, e la poesia di Neruda si riappropria della sua carica di inquietudine, seguendo la lezone del poeta Francisco De Quevedo.
"In Tentativo dell'uomo infinito il mondo si disarticola, cade in pioggia di cose deformate, minacciando totale distruzione. Nella difficile solitudine delle tenebre l'anima 'affamata' del poeta mciampa, grida con il vento la sua disperazione. L'amore diviene tormento erotico e accentua la minaccia della morte. Il tempo si presenta in immagini molteplici, alcune consuete, altre nuove e ardite. Non l'orologio segna il trascorrere delle ore, ma la notte le scandisce, isolando il tempo della vita..." (Dalla prefazione di Giuseppe Bellini)