Pubblicato nel 1917, "Dono d'amore" ("Palataka") è una raccolta di sessanta poesie che completa il percorso iniziato da Rabindranath Tagore con "Petali sulle ceneri" ("Pushpanjali"). Scritte e continuamente rimaneggiate in un lungo periodo tra il 1885 e il 1915, in ricordo dei grandi affetti perduti ma che sopravvivono nella vita del poeta, queste liriche contengono, accanto ai temi ricorrenti di tutta la sua opera - l'amore, il dolore, la solitudine, la natura, l'incontro con Dio, il significato della vita e della morte -, un messaggio che oltrepassa il tempo: ogni aspetto della vita è dono, bisognerebbe goderne finché lo si riceve, senza mai perdere di vista la sua gratuità e la gioia che se ne ricava. Proprio perché gratuito e impetuoso, questo "dono d'amore" arriva come una visita notturna, conosce l'impazienza, i segreti, lo scrosciare del monsone, il desiderio e l'emozione del ritrovarsi. Si alternano, nei vari componimenti, indimenticabili paesaggi sul Gange, spiagge sabbiose su cui le tartarughe prendono il sole, rive alberate e ombrose per i boschetti di bambù, stanchi pomeriggi afosi in cui, alla ricerca dell'amata, si arriva alla convinzione che sia fuggita via "nel silenzio e nelle parole", irrimediabilmente perduta.
Tra il 1912 e il 1913 Rabindranath Tagore pronunciò per gli studenti di Harvard, rappresentanti ideali dell'Occidente, le otto conferenze basate sugli insegnamenti della sua scuola di Santiniketan qui presentate nella traduzione di Brunilde Neroni dall'originale bengali. Questo libro ha il significato di un incontro: il grande poeta indiano si fa interprete della propria civiltà e della propria cultura, isolando alcuni temi fondamentali ed eterni (l'amore, il lavoro, la bellezza) ed esplorando l'importanza che essi hanno avuto per i due mondi: quello in cui è nato e quello a cui si presenta. Lo fa con una prosa che ha la semplicità dei suoi versi, e che ci offre considerazioni di straordinaria attualità, affidate indifferentemente a una citazione di sant'Agostino o a un versetto delle Upanisad. La sua voce è quella di una civiltà antica e affascinante, che si è posta le stesse eterne domande dell'Occidente e ha dato risposte complesse e suggestive: nessuno poteva illustrarcele con più suadente autorità di Tagore.
Tutta l'opera di Rabindranath Tagore è costellata di massime, di riflessioni sulla vita, di rapide intuizioni, di brevi lampi in cui si manifesta una vera e propria sadhana, un percorso di vita ideale suggerito e guidato da una saggezza di radici profonde; una saggezza che proviene dalle Upanisad, si richiama alle visioni di armonia dei Rsi, i bardi dell'India antica. Questa scelta di massime cerca di ricostruire tale cammino desiderato verso una felicità possibile, in due pertinenti direzioni: la ricerca segreta di un equilibrio interiore, di un'armonia individuale e di tutto ciò che può aiutare a raggiungerla; e la scoperta dell'altro da sé fino all'arrivo a una meta possibile di tutta l'esistenza: la gioia che tutto pervade.
Un giovane inquieto, che conquista i cuori di chi lo incontra, ma che è incapace di sottostare alle catene dell’amore e vive costantemente in fuga dagli altri e da se stesso, percorrendo il mondo come un vagabondo senza pace e senza affetti; un maestro, logorato dalla vita e da un lavoro ingrato, che in una notte di tempesta ritrova la donna che non aveva saputo amare da giovane e non può dirle nemmeno una parola; un ufficiale postale che non sa decifrare l’affetto che nutre per lui la piccola orfanella affidatagli: sono tanti i protagonisti di queste storie che s’intrecciano lungo il corso del Gange.
Ma più ancora degli uomini, spesso soli, a volte meschini e altre sfuggenti, sono le donne le vere protagoniste di quest’India povera e forse ormai scomparsa, che nessuno come Rabindranath Tagore ha saputo così efficacemente raccontare: donne che tradiscono, ma anche che sacrificano tutto sull’altare dell’amore, donne ferite e che vorrebbero ferire, donne rifiutate e donne capaci di intuire il senso dei movimenti impercettibili del cuore. Un universo femminile misterioso e affascinante come l’India, ancora immersa in una tradizione all’apparenza immortale, e invece così fragile nei riti e nei valori, già sull’orlo di una modernità che la travolgerà e ne muterà drammaticamente i connotati.
Radindranath Tagore nasce a Jorasanko (Calcutta) il 6 maggio 1861 da una famiglia dell’alta aristocrazia del Bengala. A diciassette anni compie il suo primo viaggio in Europa: va in Inghilterra a studiare legge e letteratura e vi resta un anno e mezzo. Quando torna si fa conoscere come poeta, pubblicando due raccolte di versi: I canti della sera e I canti del mattino, di forte impronta romantica, che gli valgono l’appellativo di «Shelley del Bengala». Nel 1883 sposa la giovanissima Mrinalini Debi, con la quale un anno dopo si ritira a Ghazipur dove si dedica a nuovi drammi e saggi letterari. Nel 1890 è di nuovo in Europa: visita l’Italia, la Francia e ancora l’Inghilterra. Al suo ritorno s’impegna nell’attività politica con il movimento nazionale del Bengala, e poi soprattutto in quella educativa, fondando una scuola sperimentale a Santiniketan. Il campo dei suoi interessi è vastissimo: è musicista (scrive lui stesso la musica delle sue poesie), pensatore, drammaturgo, narratore (più avanti negli anni si avvicinerà anche alla pittura). Gli anni tra il 1907 e il 1913 sono decisivi per Tagore, anche per la sua notorietà internazionale. Lavora alle poesie che comporranno la raccolta Gitanjali (1912, Canti d’offerta) e che, tradotte in inglese – Tagore pur scrivendo in bengali traduce quasi tutta la sua produzione – gli varranno il Premio Nobel nel 1913. Nel 1915 incontra per la prima volta Gandhi col quale, nonostante le divergenze politiche, stringe un’amicizia profonda e duratura. Il suo impegno culturale e pedagogico, frattanto, s’intensifica: nel 1921 fonda l’università internazionale di Vishva Bharati e, spinto dall’esigenza di un incontro tra cultura orientale e occidentale, intraprende viaggi in tutto il mondo. Negli ultimi anni della sua vita, colpito da una grave malattia, si ritira a Santiniketan, dove si dedica totalmente all’attività letteraria. La produzione di questo periodo è vastissima, e comprende, oltre a numerose raccolte poetiche, drammi, novelle, riflessioni, aforismi e saggi di critica letteraria. Si spegne nella sua casa natale di Jorasanko il 7 agosto 1941.
"Il canto della vita" è un'antologia che raccoglie i versi più significativi di Tagore composti sui temi a lui più cari: la vita, la morte, Dio, il dolore, la gioia. Il poeta celebra soprattutto l'amore, con sensibilità tutta orientale: una sintesi di amante e amato, vicina a Dio o identificabile con Dio stesso, un sentimento tormentoso e insieme vitale, che muove energie che investono la realtà intera e il cosmo. Come ha scritto W.B. Yeats, Tagore, al pari della civiltà indiana, ha realizzato la sua pienezza nello scoprire l'anima e nell'abbandonarsi alla sua spontaneità.
La poesia d'amore orientale presenta, come caratteri peculiari e distintivi, un distacco dalla soggettività, una leggerezza, un sereno tono impersonale, una ritualità reiterata che l'Occidente cristiano, drammatico, tormentato dall'idea di peccato e teso alla ricerca di tutto ciò che è interiore, ha intravisto solo in rarissimi casi. Perché il poeta orientale è sempre anche un mistico, un saggio, un veggente; e l'Amore di cui parla è la sintesi suprema di Amante e Amato, qualcosa di vicino a Dio, o Dio stesso.