La pandemia del coronavirus impone un passaggio d'epoca. Come d'improvviso, la linea del tempo si è spezzata, e il presente ci costringe a girare pagina, a sancire una irrimediabile rottura con tutto ciò che è stato fino ad ora. Il prima diventa davvero e definitivamente passato. Ma occorre stare attenti. Nell'interrogare e interpretare le tracce, i segni, le memorie che il passato ci restituisce, non ci può essere nessun sentimento di rimpianto, nessuna proposta di un insensato, peraltro impossibile, ritorno al tempo andato. Né a quello recente della «modernità», né a quello più remoto della «tradizione». Si tratta piuttosto di provare a far tesoro del passato, riconoscendone gli errori, gli eccessi, le incongruenze, e insieme ripercorrendone gli elementi preziosi che abbiamo perduto, che abbiamo più o meno consapevolmente rimosso, nella nostra baldanzosa rincorsa di un benessere assoluto. Si tratta di ritrovare un equilibrio nel modo di vivere il pianeta che abitiamo, nel rapporto che instauriamo con la natura, con le altre specie, e in primo luogo con la nostra.
«Mentre scrivo queste righe, il campanile di Amatrice cade sotto la forza del terzo terremoto che ha colpito, in meno di sei mesi, i paesi dell'Italia centrale. L'immagine del campanile viene riproposta ossessivamente. E una sequenza che angoscia e che però chiede di essere guardata e riguardata. Le immagini delle rovine, le visioni dei vuoti, delle assenze, dei luoghi a cui è stata sottratta la vita sono immagini perturbanti di cui abbiamo bisogno». Scrive così Vito Teti, nell'incipit di questo libro. Nell'immagine del campanile di Amatrice, Teti scorge un mondo ben più vasto, che va anch'esso inesorabilmente franando. Mentre i grandi agglomerati urbani si preparano a ospitare la gran parte della popolazione mondiale, interi territori si spopolano. E lo spopolamento è la cifra delle aree interne di numerose regioni d'Italia e d'Europa. Di fronte a questo scenario, l'antropologo coglie l'abbandono come la forma culturale dello spopolamento e si chiede: cosa fare dei segni del passato, delle schegge di un universo esploso? Nella prospettiva di Teti, il passato può e deve essere riscattato come un mondo sommerso di potenzialità suscettibili di future realizzazioni. In agguato, certo, c'è il rischio che la retorica e la nostalgia restaurativa seppelliscano quel poco che, del paese, resta. Viceversa, la nostalgia positiva, costruttiva può essere sostegno a innovazione, inclusione e mutamento. L'antropologia dell'abbandono e del ritorno, di cui Teti definisce in queste pagine i tratti essenziali, è un tentativo d'interpretazione dei luoghi a partire da quel che resta, e che occorre ascoltare, prendendosene cura. Come scrive Claudio Magris nella prefazione: «In questo libro di scienza e di poesia c'è una profonda partecipazione al destino nomade e ramingo non solo degli emigranti partiti con le loro povere cose, ma di ognuno, delle stesse civiltà, del loro nascere e passare, ma forse mai definitivamente».