La «restanza» è un fenomeno del presente che riguarda la necessità, il desiderio, la volontà di generare un nuovo senso dei luoghi. È questo un tempo segnato dalle migrazioni, ma è anche il tempo, più silenzioso, di chi "resta" nel suo luogo di origine e lo vive, lo cammina, lo interpreta, in una vertigine continua di cambiamenti. La pandemia, l'emergenza climatica, le grandi migrazioni sembra stiano modificando il nostro rapporto con il corpo, con lo spazio, con la morte, con gli altri, e pongono l'esigenza di immaginare nuove comunità, impongono a chi parte e a chi resta nuove pratiche dell'abitare. Sono oggi molte le narrazioni, spesso retoriche e senza profondità, che idealizzano la vita nei piccoli paesi, rimuovendone, insieme alla durezza, le pratiche di memoria e di speranza di chi ha voluto o ha dovuto rimanere. La restanza non riguarda soltanto i piccoli paesi, ma anche le città, le metropoli, le periferie. Se problematicamente assunta, non è una scelta di comodo o attesa di qualcosa, né apatia, né vocazione a contemplare la fine dei luoghi, ma è un processo dinamico e creativo, conflittuale, ma potenzialmente rigenerativo tanto del luogo abitato, quanto per coloro che restano ad abitarlo. Partire e restare sono i due poli della storia dell'umanità. Al diritto a migrare corrisponde il diritto a restare, edificando un altro senso dei luoghi e di se stessi. Restanza significa sentirsi ancorati e insieme spaesati in un luogo da proteggere e nel contempo da rigenerare radicalmente.
Ripensare Alvaro, come ci aiutano a capire i saggi presenti in questo volume – dove si considerano aspetti, di solito ignorati o considerati secondari, come il suo muoversi tra Aspromonte ed Europa, i suoi legami con scrittori della sua terra e grandi intellettuali organizzatori di cultura nazionale, la sua incisiva presenza nel teatro, nella radio, come nel cinema e nelle grandi questioni del suo tempo – significa abbandonare ogni pigrizia intellettuale, rinunciare a mitologie e a retoriche identitarie, farsi guidare dalla potenza e dalla forza, dall’etica, di una scrittura letteraria raffinata ed elegante, che era insieme originale etnografia, ricerca e salvaguardia per il futuro di mondo scomparso, memorie e vita, antropologia delle genti di Calabria e del Sud Italia, che vanno inseriti in quella nazione italiana, Mediterraneo e in quell’Europa alle quali egli sentiva, con convinzione, di appartenere. Forse questa Calabria e questa Italia e questa Europa, sempre più sconosciute a se stesse, desacralizzate, giunte alla fine di un lunga storia, hanno bisogno di inventare un senso di comunità e di ritrovare un’anima anche a partire da autori come Alvaro.
La nostalgia è il sentimento che, forse più di altri, ha accompagnato l’origine, lo sviluppo e l’affermazione del mondo moderno. Classificata come fissazione patologica o attitudine retrospettiva che frena ogni cambiamento, è stata liquidata in modo frettoloso per occultare l’insostenibile pesantezza del tempo presente. Tra pandemie e rischi climatici, dolore e speranza, la nostalgia ritorna ostinatamente a offrirsi come àncora di salvezza, strategia, risorsa, elemento creativo capace di misurarsi con il passato e di delineare possibili itinerari per il futuro. In modo paradossale essa si trasforma così da malattia legata al rapporto con i luoghi, desiderio di altrove e di tempi sconosciuti, in meravigliosa macchina del tempo che agisce come terapia della modernità criticandone i presupposti, le ingenuità e le menzogne. Capace di intercettare il pensiero apocalittico e quello utopico, di collocarsi dalla parte degli sconfitti e degli emarginati, la nostalgia mostra in questo modo anche un aspetto sovversivo che riconsidera potenzialità inespresse e vie mai percorse da un’umanità che non può più semplicemente sperare nelle proprie «magnifiche sorti e progressive».
Sommario
Presentazione. 1. Genesi (e patologizzazione) di un sentimento. 2. Curare la malinconia. 3. Quel che resta di mondi scomparsi. 4. Andare all’America. 5. Sud e melanconia. 6. Fiori d’origano e fichi nei vasi. 7. Comunicare con i morti. 8. Politiche della nostalgia. 9. Nuove vie dei canti. 10 Verso l’estinzione della nostalgia. 11. Ringraziamenti. 12.
Bibliografia.
Note sull'autore
Vito Teti è professore ordinario di Antropologia culturale all’Università della Calabria, dove dirige il Centro Demoantropologico “R. Lombardi Satriani”. Tra le sue pubblicazioni: Maledetto Sud (Einaudi 2013); Pietre di pane. Un’antropologia del restare (Quodlibet 2014); Fine pasto. Il cibo che verrà (Einaudi 2015); Quel che resta. L’Italia dei paesi, tra abbandoni e ritorni (Donzelli 2017); Il vampiro e la melanconia. Miti, storie, immaginazioni (Donzelli 2018); Il colore del cibo. Geografia, mito e realtà dell’alimentazione mediterranea (Meltemi 2019); Prevedere l’imprevedibile. Presente passato e futuro in tempo di coronavirus (Donzelli 2020).
La pandemia del coronavirus impone un passaggio d'epoca. Come d'improvviso, la linea del tempo si è spezzata, e il presente ci costringe a girare pagina, a sancire una irrimediabile rottura con tutto ciò che è stato fino ad ora. Il prima diventa davvero e definitivamente passato. Ma occorre stare attenti. Nell'interrogare e interpretare le tracce, i segni, le memorie che il passato ci restituisce, non ci può essere nessun sentimento di rimpianto, nessuna proposta di un insensato, peraltro impossibile, ritorno al tempo andato. Né a quello recente della «modernità», né a quello più remoto della «tradizione». Si tratta piuttosto di provare a far tesoro del passato, riconoscendone gli errori, gli eccessi, le incongruenze, e insieme ripercorrendone gli elementi preziosi che abbiamo perduto, che abbiamo più o meno consapevolmente rimosso, nella nostra baldanzosa rincorsa di un benessere assoluto. Si tratta di ritrovare un equilibrio nel modo di vivere il pianeta che abitiamo, nel rapporto che instauriamo con la natura, con le altre specie, e in primo luogo con la nostra.
«Mentre scrivo queste righe, il campanile di Amatrice cade sotto la forza del terzo terremoto che ha colpito, in meno di sei mesi, i paesi dell'Italia centrale. L'immagine del campanile viene riproposta ossessivamente. E una sequenza che angoscia e che però chiede di essere guardata e riguardata. Le immagini delle rovine, le visioni dei vuoti, delle assenze, dei luoghi a cui è stata sottratta la vita sono immagini perturbanti di cui abbiamo bisogno». Scrive così Vito Teti, nell'incipit di questo libro. Nell'immagine del campanile di Amatrice, Teti scorge un mondo ben più vasto, che va anch'esso inesorabilmente franando. Mentre i grandi agglomerati urbani si preparano a ospitare la gran parte della popolazione mondiale, interi territori si spopolano. E lo spopolamento è la cifra delle aree interne di numerose regioni d'Italia e d'Europa. Di fronte a questo scenario, l'antropologo coglie l'abbandono come la forma culturale dello spopolamento e si chiede: cosa fare dei segni del passato, delle schegge di un universo esploso? Nella prospettiva di Teti, il passato può e deve essere riscattato come un mondo sommerso di potenzialità suscettibili di future realizzazioni. In agguato, certo, c'è il rischio che la retorica e la nostalgia restaurativa seppelliscano quel poco che, del paese, resta. Viceversa, la nostalgia positiva, costruttiva può essere sostegno a innovazione, inclusione e mutamento. L'antropologia dell'abbandono e del ritorno, di cui Teti definisce in queste pagine i tratti essenziali, è un tentativo d'interpretazione dei luoghi a partire da quel che resta, e che occorre ascoltare, prendendosene cura. Come scrive Claudio Magris nella prefazione: «In questo libro di scienza e di poesia c'è una profonda partecipazione al destino nomade e ramingo non solo degli emigranti partiti con le loro povere cose, ma di ognuno, delle stesse civiltà, del loro nascere e passare, ma forse mai definitivamente».
Il cibo sognato e desiderato come un'utopia dalle "pance vuote" della civiltà contadina è diventato la fonte di ossessioni, squilibri e nuove paure. Nel passaggio dal mondo della fame a quello del troppo pieno il senso del mangiare è mutato di pari passo al contenuto dei cibi, ai metodi produttivi e alle pratiche alimentari. Una trasformazione che riguarda la salute, il corpo, lo stare assieme, il rapporto con i luoghi, la costruzione dell'identità, il sacro. La perdita della frugalità è anche perdita di strumenti per comprendere il mondo di oggi. Un altro universo ancora affamato chiede di partecipare alla nostra tavola, aspirando a un paradiso che i nostri migranti tentavano di fabbricarsi, con dolore e nostalgia, partendo per l'America. Il Mediterraneo di oggi è l'oceano di un secolo fa. In gioco non c'è solo il cibo, la possibilità di nutrirsi e di placare la fame - il tema di un'Expo che appare troppo distante da questa sofferenza - ma la nostra idea di convivenza. Un universo che ci interroga, chiedendo risposte a un Occidente smarrito.
Vito Teti ha sempre un viaggio qua intorno da raccontare, un volto nascosto da nominare tra le righe di un saggio, un ritaglio di vita minuta da incorniciare con tutte le sue scoloriture. "Terra inquieta" è un libro che è tanti libri insieme, e tutti servono a qualcosa: uno racconta di Calabrie mobili che crollano e franano; l'altro di uomini che sperano futuro cercando l'America, ma cercandola incontrano la storia; l'altro ancora di donne che ascoltano in sogno i consigli di san Giorgio per vincere ogni drago, di uomini che i santi li portano a spalla per sacralizzare la polvere e il mare che siamo, di giovani laureati che partono perché l'ultimo lavoro non pagato è un'umiliazione ormai intollerabile. Ma in "Terra inquieta" c'è pure gente che resta tentando di salvare rovine e pilastri di cemento che si alzano al cielo, per farne qualcosa che vive. In questo vagare per spazi vasti e insieme profondi lo scrittore di "Maledetto sud" raccoglie ogni mollica, mentre l'antropologo de "Il senso dei luoghi" prova una teoria capace di dare forma al sussulto imprendibile della Calabria. Così nasce "Terra inquieta", una storia di linee che ricostruisce la necessità e l'ossessione per la mobilità di una regione contadina eternata dal tempo circolare dei greci, spezzata dalle catastrofi, che però sempre ritenta nuove circolarità per non mutare sguardo su di sé, infine la Calabria moderna, quella che naviga in linea retta verso un tempo migliore...
Dirsi o sentirsi di un luogo e insieme dell'Italia non è un'operazione semplice e definitiva. E diventa sempre più complicato nel momento in cui Nord e Sud, quasi come destra e sinistra, perdono gli antichi significati e vanno collocati in un mondo più vasto, globale. Una riflessione, quella sul Sud, che incontra sempre la potenza degli stereotipi, il senso di noi che è stato costruito nei secoli grazie anche a sguardi ostili e miopi. Forse liberarsi dalla "maledizione" di un'identità angusta, spesso inventata (come quella che oppone Nord a Sud) può spingere a trasformare il conflitto in benedizione, il risentimento in riconoscenza, l'autoassoluzione in consapevolezza dei propri errori.