Che la Qabbalah sprigioni un fascino difficilmente spiegabile è fuori di dubbio: chiunque entri in contatto con essa si sente interpellato, come se quelle oscure dottrine non aspettassero altri per sciogliere gli antichi nodi dell'irradiazione divina. Un fascino cui non hanno potuto sottrarsi molti lettori cristiani - da Giovanni Pico della Mirandola ai platonici rinascimentali, da Knorr von Rosenroth a Isaac Newton, dagli alchimisti ai «fratelli muratori» -, che con i dogmi segreti della mistica ebraica hanno avvertito una profonda affinità. Massimo studioso della Qabbalah, Gershom Scholem non ha mancato di dire la sua su questa robusta corrente del pensiero europeo. Persuaso com'era che la Qabbalah fosse la quintessenza dell'ebraismo, Scholem ha tentato di denunciare la sua versione cristiana come illegittima, frutto di un malinteso o di una frode, giungendo tuttavia a riconoscere, alla fine della vita, che la passione per quegli insegnamenti esoterici era stata accesa in lui proprio dalla lettura di un cabbalista cristiano. E così, nei tre illuminanti saggi qui raccolti, non solo troveremo una storia di quel pensiero sotterraneo, ma potremo anche scorgere in filigrana una riluttante autobiografia.
Ricercatore appassionato e acutissimo, ma anche narratore di straordinaria efficacia, nelle Leggende degli ebrei Ginzberg è riuscito a dar conto della vertiginosa stratificazione delle storie, delle parabole, delle divagazioni che la tradizione ebraica ha tramandato in margine al testo biblico in un racconto affascinante che dalla creazione e dal diluvio si dipana fino al ritorno dalla cattività babilonese e alla strabiliante avventura della regina Ester, passando per le vicende dei patriarchi e delle loro molte spose, le aggrovigliate storie dei dodici figli di Giacobbe, la tormentata epopea di Mosè, la lunga erranza del popolo d’Israele nel deserto e il suo ingresso nella Terra Promessa.
Il primo volume contiene l’intero corpus delle leggende, il secondo l’apparato critico costituito dalle Note con i riferimenti e il commento dell’autore, dal Repertorio bibliografico e da un Glossario dei termini ebraici, cui si affiancano qui, per la prima volta, un corposo Indice analitico e un Indice delle fonti.
Questo libro racconta una storia che comincia prima di Adamo e finisce dopo di noi, attraversando la Bibbia da capo a fondo, come un mondo a sé. Dove un uomo, che si chiamava Saul, può diventare il primo re di un popolo perché il padre lo aveva mandato a cercare certe asine smarrite. Dove la regina di un remoto regno africano guida per tre anni una carovana foltissima, composta da giovani e giovanette vestiti di porpora, nonché da animali e spezie in quantità, per rispondere all'invito del re di Gerusalemme e porgli alcune domande. E dove un altro uomo, che si chiamava Abramo, udì queste parole da una voce divina: «Va' via dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre verso il paese che ti mostrerò». Parole che rintoccano in tutta la Bibbia, storia di un distacco e di una promessa, seguiti da altri distacchi e nuove promesse. Il succedersi dei nomi e dei fatti è turbinoso, spesso sconvolgente. E ogni volta la grazia e la colpa, l'elezione e la condanna appaiono intessute nelle vite dei singoli e della loro stirpe.
I primi versetti della Genesi costituiscono da sempre un'arena di scontro per esegeti, filosofi e mistici. Tutto ruota intorno all'oggetto d'indagine della teodicea, quella branca della teologia che studia l'origine del male: si tratta di una realtà presente nella creazione e addirittura in Dio? Preesiste al bene, così come le tenebre preesistono alla luce? È una scorza dura che protegge un frutto succoso dagli attacchi di chi lo vuole distruggere? In antichi testi ebraici si legge che Satana fu il primogenito di Dio, o che il primogenito di Adamo, Agrimas, potenza primordiale malvagia, prese in moglie una lilit, una demonessa, la quale gli generò novecentomila figli che avrebbero invaso il mondo e imposto la loro supremazia se non fosse intervenuto Matusalemme a sterminarli con una spada magica. La storia della generazione del male da un principio positivo appare già nel IX secolo in un passo del vescovo Agobardo di Lione, dove si attribuisce agli ebrei la credenza in un Dio il quale, seduto sul suo trono sorretto da quattro bestie in una sorta di grande palazzo, «fa pensieri superflui e vani che, data la loro inanità, si trasformano in demoni» – una formulazione destinata a riverberarsi in molte forme della tradizione cabbalistica medioevale. Basandosi sull'analisi di testi perlopiù ignoti, ignorati o fraintesi dalla ricerca contemporanea, Moshe Idel indaga in pagine dense e coinvolgenti i processi che portarono all'adozione nel giudaismo di tradizioni dualistiche iraniche o gnostiche e all'elaborazione di gerarchie ontologiche in cui i due princìpi opposti di bene e male sono comunque intesi come entità subordinate al loro creatore. E solo di rado il male appare in forme diaboliche, perché in fondo esso deve la sua vitalità alle scintille di Dio che vi si trovano incluse, senza le quali sarebbe incapace di agire o addirittura di esistere.
Si assiste, in quest'ultimo scorcio della storia biblica del popolo ebraico, a un vertiginoso incalzare di eventi, come se tutto fosse contagiato da un'accelerazione incontrollata. Dall'ingresso in Terra Promessa sotto la guida del taciturno ma bellicoso Giosuè alle prodezze di giudici e condottieri, dall'istituzione di un'imperfetta monarchia allo scisma nazionale, dall'esilio babilonese alla strabiliante avventura della regina Ester, ogni cosa avviene secondo un ritmo ben diverso da quello che anima le storie precedenti, dove i patriarchi e le tribù si muovono in un mondo lento come il passo dei cammelli nel deserto. Qui tutto cambia, in primo luogo perché dominano i fatti di sangue e di guerra; ma anche nei rari periodi di pace c'è come un'ansia, una frenesia, che produce un veloce susseguirsi di accadimenti, con i protagonisti che sembrano in preda alla fretta di dire, di fare. Persino l'epopea del grande Salomone è una rapida sequenza di immagini da cui emerge un sovrano ambivalente, grandioso e meschino al tempo stesso, sapiente e insieme terribilmente incauto. Le contraddizioni che dominano l'intero corpus di racconti sembrano qui moltiplicate, ingigantite fermo restando lo sforzo continuo, e a volte sovrumano, di intravedere la mano di Dio e la sua parola nelle aporie della storia, in ciò che non è dato capire. Una storia più avvincente che mai, certo più imprevedibile che in passato.
In questa quinta tappa del viaggio di Louis Ginzberg attraverso la tradizione ebraica, in margine alla Bibbia, prosegue e si conclude l'epopea di Mosè, tormentato e persino ritroso intermediario fra cielo e terra, ma anche audace condottiero in quel deserto fitto di insidie in cui i figli di Israele errano (nel duplice senso del termine) per quaranta, lunghi anni. Sono pagine ricche di eventi, in vertiginosa oscillazione tra vette e bassure: la montagna in cima alla quale il profeta parla con Dio - e da Lui riceve la Legge - e il fondovalle dove gli ebrei attendono, divisi tra fervorosa attesa e cupo sconforto; la costruzione del Tabernacolo e dell'Arca Santa, suggello del patto tra Dio e il suo popolo, e la trasgressione in cui quest'ultimo puntualmente cade, come nell'emblematico episodio dell'adorazione del Vitello d'Oro. Una dinamica fra meriti e colpe, castighi e retribuzioni scandita da un susseguirsi di immagini nitide, ora struggenti ora crudeli, fino al culmine lacerante della morte del protagonista. Via via privato dal Signore dell'ispirazione profetica e incapace ormai di comprendere le parole della Legge, Mosè cerca almeno di stornare da sé la tremenda condanna di non poter calpestare la Terra Promessa. Invano: la potrà scorgere soltanto di lontano, dalla cima del monte in cui Dio lo porta a morire, ma in quell'istante essa sarà tutta e solo per il suo sguardo.
Nel 1998, il grande egittologo tedesco Jan Assmann pubblica "Mose l'egizio", il suo lavoro più radicale e innovativo. Riprendendo la tesi dell'ultimo libro di Freud - "L'uomo Mose e la religione monoteistica" -, Assmann torna su una delle rimozioni più imponenti della cultura occidentale: l'esistenza, dietro il Mose biblico, del dimenticato Mose egizio, che aveva (o avrebbe) conosciuto il monoteismo attraverso la rivoluzione teologica di Akhenaton (Amenofi IV) ad Amarna, nel XIV secolo avanti Cristo. In breve tempo il libro di Assmann diventa oggetto di polemiche e controversie che vanno ben al di là della ristretta cerchia degli specialisti: si distingue per violenza la relazione di un ecclesiastico alle Settimane Universitarie di Salisburgo, nel 2000, nella quale all'egittologo viene imputato di aver incrinato il legame indissolubile tra monoteismo e giustizia divina, e quindi di aprire la strada a ogni nefandezza. In questo libro Assmann risponde ai propri dubbi come a quelle accuse, offrendoci nel contempo una densissima meditazione su quel passaggio oscuro dell'Età del Bronzo, denominato appunto "distinzione mosaica". che vede le religioni "primarie", fondate sul culto e sul sacrificio rituale, prima affiancate e poi contrastate dalle "secondarie", fondate sul Libro e sulla Rivelazione. Ne deriva una concezione paradossale del monoteismo come "controreligione", tesa a contrapporre non tanto l'unico Dio ai molti dèi, quanto il vero Dio ai falsi dèi che affollavano i Pantheon politeisti.
La figura mistica della divinità, che raccoglie i saggi letti da Scholem nei Colloqui Eranos di Ascona, affronta alcune delle questioni più ardue sollevate dalla Qabbalah. Fra queste: il corpo della divinità, il dualismo di bene e male, la natura del giusto come pilastro del mondo, l’elemento femminile nel divino, l’idea di un corpo astrale. Ciascuna di esse è una porta che ci permette di accedere a quel luogo segreto del pensiero e dell’esperienza a cui tutta la Qabbalah è dedicata.
Quando apparve nel 1988, questo libro - qui riproposto in una nuova edizione aggiornata e accompagnato da un'Introduzione che passa in rassegna i risultati più significativi della ricerca successiva - diede luogo a una feroce polemica. Gli allievi di Scholem, che pure a Idel era legato da un profondo rapporto di stima, si scagliarono unanimi contro quella che ai loro occhi appariva come la confutazione dell'opera del maestro e la demolizione di un dogma. Benché estraneo agli intenti blasfemi che gli furono attribuiti, il libro - oggi divenuto un classico - segnava innegabilmente un punto di svolta nelle indagini sulla mistica ebraica, offrendo, sulla scorta di una sterminata documentazione inedita, un'interpretazione innovativa della Qabbalah e in particolare dei suoi aspetti più affascinanti e trascurati: quelli magici. L'assoluta rilevanza dei temi affrontati - a partire dalla questione dell'antichità della Qabbalah (Idel sovverte qui una classica teoria di Scholem, giungendo a dimostrare l'influsso determinante dell'ebraismo sulla Gnosi) -, l'ampiezza dei materiali esplorati, le inedite prospettive dischiuse alla ricerca, i riferimenti comparativi alla filosofia greca, a quella araba medioevale e alle più diverse forme di pensiero religioso contribuiscono a fare di quest'opera una lettura imprescindibile per chiunque voglia accostarsi alla tradizione mistica della Qabbalah.
«Come il chicco di grano deve marcire nella terra prima di poter germogliare, così le azioni dei “credenti” devono “marcire” af finché possa germogliare la redenzione». Così scrive Scholem nel saggio che costituisce il cuore di questo volume, La redenzione attraverso il peccato, sin tetizzando, appunto, la dottrina paradossale del «santo peccato» che era stata sviluppata dal sabbatianesimo radicale: al redentore, al più santo fra gli uomini, spetta il compito di immergersi nel l’oscurità del male e «riscattare le scintille divine che vi sono ancora imprigionate». Proprio al movimento sabbatiano e alle sue propaggini più radicali Scholem dedica alcuni dei fondamentali saggi contenuti in questo volume, e non con l'atteg giamen to di disprezzo e di condanna che a veva caratterizzato $no allora la storiogra fia ebraica, bensì con profondo interesse, sull'onda di quella «scintilla di emozione» (in questi termini ne aveva scritto all'amico Walter Ben jamin) con cui nel 1927, alla Bodleian di Oxford, si era imbattuto in un trattato manoscritto: Magen Avraham («Lo scudo di Abramo»), a firma di Avraham Miguel Cardoso, seguace dello pseudo-Messia Shabbetay Tzevi. Senza indietreggiare di fronte allo scandalo della «apoteosi negativa» di Shabbetay Tzevi – la sua conversione all'i slam – e dei suoi fedeli (i quali continuarono a credere in lui, convinti che fosse giunta l'ora di un capovolgimento totale e di esse- re ormai affrancati da ogni comandamento e da ogni proibizione), Scholem riconosce «un elemento autenticamente ebraico nel­l'anelito di quegli individui para dos sali a ricominciare da capo», a «tornare alle sorgenti originarie della fede e brai ca»: e lo fa negli stessi anni in cui il suo popolo si avvia verso la catastrofe.
Il maschile, il femminile e le relazioni erotiche che ne derivano costituiscono, fin dall'epoca più remota, anche un modo di pensare le coppie di elementi opposti o complementari e i rapporti che intercorrono fra essi. In Occidente, alla tradizione di pensiero che da Empedocle e dal "Simposio" di Platone giunge sino ai testi ermetici si affianca quella ebraica, e più specificamente cabbalistica. Il racconto della creazione androgina del primo essere umano e della sua scissione in Adamo ed Eva e l'interpretazione del "Cantico dei Cantici" sono i fondamenti da cui si sviluppano speculazioni che estendono la sfera del pensiero erotico fino ad abbracciare la dimensione intradivina, creando una molteplicità di coppie sessuate che si rifrangono specularmente a tutti i livelli della realtà. In questo libro Moshe Idel, lo studioso che ha ripreso e sviluppato in nuove direzioni le indagini di Scholem, si addentra in quella che egli definisce la "cultura dell'eros" peculiare dell'ebraismo, dove il rapporto sessuale non solo assolve a un comandamento fondamentale, ma ha una valenza cosmica, poiché esercitando un'azione teurgica sulla sfera superna favorisce di riflesso l'unione di Dio con la sua consorte, la "Shekhinah", ovvero la sua presenza immanente, e fa così discendere sul mondo la benedizione dell'influsso divino. L'eros rappresenta dunque una via d'accesso privilegiata tanto alla conoscenza teosofica quanto all'esperienza mistica.
Nel 1280 il grande cabalista aragonese Avraham Abulafia giunge a Roma per incontrare il papa Niccolò III e per comunicargli la sua visione della "redenzione finale" del mondo, il pontefice rifiuta di dargli udienza e il cabalista viene arrestato. Abulafia è solo uno dei tanti mistici-Messia della tradizione ebraica, maestri che diedero spesso origine a veri movimenti di massa. Questo saggio è una ricostruzione del misticismo messianico dalla "Qabbalah estatica" medievale sino alla modernità, con un'analisi della varietà di modelli impiegati nell'attività di redenzione volta a sconfiggere il male e l'imperfezione del cosmo, da quello mistico ed estatico, attraverso quello teosofico-teurgico fino a quello magico-cabalistico.