Prosegue con questo volume l'edizione adelphiana delle opere di Martin Heidegger (1889-1976). Il libro, con il Poscritto e l'Introduzione, sono qui presentati in edizione riveduta e arricchita di un'Appendice e di un esaustivo Glossario.
In "Inquisizioni" Borges privilegia autori e motivi legati alla cultura argentina - sul versante della cultura avanguardistica come su quello dell'ispirazione popolareggiante - e sullo sfondo si staglia il controverso rapporto che lega lo scrittore alla letteratura spagnola e all'eredità barocca in particolare, ma non mancano i segni di una capacità precoce, spesso folgorante, di misurarsi con le grandi questioni letterarie e culturali: basti pensare al saggio sull'"Ulisse" di Joyce, probabilmente il primo apparso in America Latina o a quello su Sir Thomas Browne, dove Borges disegna un autoritratto in fieri.
Il mangiare carne non è la condizione naturale dell'umanità, ma un passaggio traumatico nella sua storia. Con esso l'uomo, animale predato, passava dalla parte dei predatori. Ciò implicava vivere della regolare uccisione di animali, questi primi dèi. La questione era però anche religiosa, e come tale venne elaborata in antichi riti, come i Bouphonia ateniesi. Ma questo si desume anche da un importantissimo testo di Plutarco, "Del mangiare carne", fondato sulla tesi che la dieta carnea vada contro natura. Letto accanto agli altri due trattatelli qui pubblicati, questo testo documenta la profonda conoscenza e comprensione del mondo animale che caratterizza l'antichità classica e che Plutarco sembra compendiare nelle sue pagine.
A poco più di 100 anni da quando la Società di Linguistica di Parigi mise ufficialmente fine alle discussioni, spesso stravaganti, in materia, l'ipotesi di un'origine unica del linguaggio, di una lingua madre cui far risalire i vari ceppi linguistici e la babele di idiomi dei popoli del mondo è tornata al centro dell'interesse. Al punto che oggi quella screditata congettura appare la più fondata e ricca di sviluppi come dimostra questo libro.
Se ne sarebbe ricordato in seguito di quell'attimo, e non sempre con piacere. Per anni, in certe ridenti mattine di primavera, i colleghi dei Quai des Orfèvres avrebbero conservato l'abitudine di rivolgersi a lui con un misto di serietà e di ironia: "Senti Maigret" "Che c'è?" "C'è Félicie!". E allora lui la rivedeva, sottile, con i suoi vestiti chiassosi, i grandi occhi color nontiscordardimé, il naso impertinente, e il cappello poi, quel terrificante cappellino rosso piazzato in cima alla testa con una lunga penna verde cangiante infilzata come una freccia. "C'è Félicie!". Il commissario sbuffava. Lo sapevano tutti che Maigret si metteva a sbuffare come un orso quando qualcuno gli ricordava Félicie.
Pari del regno, gentiluomo di camera del principe di Galles, viceré d'Irlanda e ambasciatore all'Aia, Philip Dormer Stanhope, quarto conte di Chestefield (1694-1773), non passa alla storia per le sue virtù politiche e diplomatiche, bensì per il suo poderoso epistolario, e in particolare per la lettere da lui indirizzate al figlio Philip sin da quando questi ha solo cinque anni. Lo scopo di una così lunga e intensa corrispondenza è di trasformare quell'unico erede - per di più illegittimo e quindi lontano - in un perfetto aristocratico, munito perciò di quelle doti di cultura, di gusto e di comportamento che il padre ritiene essenziali a tal fine.
Madame du Deffand visse da libertina gli anni turbolenti della Reggenza; esercitò la potenza di grande salonnière nella Parigi della metà del Settecento; sostenne d'Alembert, fu amica di Voltaire, ma guardò con insofferenza agli illuministi come "partito"; si abbandonò, cieca e settantenne, alla passione per un uomo molto più giovane di lei. Esercitò le migliori virtù del suo secolo: il culto dell'intelligenza, la sovranità del gusto, il senso della naturalezza. Ma era, come scrisse Cioran, devastata dal "flagello della lucidità", che le faceva percepire il nulla e il tedio che formano l'essenza del vivere. Edizione con un saggio di Marc Fumaroli.
"Il sottoscritto, Lucien Gobillot, nel pieno possesso delle sue facoltà mentali..." No, non è così che bisognava cominciare: così si cominciano i testamenti. Già. Ma allora, perché scrivere quella specie di memoriale? Per chi? "In caso di disgrazia. Nell'eventualità che le cose finissero male". E come altro sarebbe potuta finire quella storia? Era cominciata un anno prima, quando Yvette, quella puttanella insieme cinica e fragile, furba e innocente, era andata a chiedergli di assumere la sua difesa, la sua e quella dell'amica con la quale aveva tentato di rapinare un orefice riuscendo solo a mandarne la moglie all'ospedale...
Monaciello, scugnizzo malinconico e dispettoso è il protagonista del primo racconto di questo volume, mentre il Fantasma servizievole e triste, che non è altro che la morte, ci accompagna nel secondo racconto. Sono "povere creature inimmaginabili": l'ombroso spiritello del primo racconto vive "in un piccolo armadio dalla serratura guasta, dalle porte malferme, fra cataste di panni scuri e penne verdi di pappagallo", mentre del secondo enigmatico fantasma "abbagliante era il suo sorriso in fondo agli occhi di tenebra". Attraverso la voce accorata e dolente della Ortese, si avverte l'eco di nostalgie mai sopite, di dolcezze negate e di figure angeliche e lunari, scontrose e carezzevoli.
Un uomo e una donna si incontrano per caso mentre tornano al loro paese natale, che hanno abbandonato vent'anni prima scegliendo la via dell'esilio. Riusciranno a riannodare i fili di una strana storia d'amore, appena iniziata e subito inghiottita dalla palude stigia della storia? Il fatto è che dopo una così lunga assenza "i loro ricordi non si assomigliano". Crediamo che i nostri ricordi coincidano con quelli di chi abbiamo amato, crediamo di avere vissuto la medesima esperienza, ma è solo un'illusione. D'altro canto, che può fare la nostra memoria, quella memoria che del passato non ricorda che una "insignificante minuscola particella"? Viviamo sprofondati in un immenso oblio e ci rifiutiamo di saperlo.
Una donna giovane e insoddisfatta lascia marito e figli e si avventura da sola sulle montagne messicane per incontrare gli indiani discendenti da Montezuma e dai re aztechi che le abitano e conoscere i loro dèi. Le basta imboccare un piccolo sentiero per inoltrarsi in un altro mondo, in un clima rarefatto e contagioso. Incontrerà i suoi indiani: sinuosi, insidiosi, femminei, feroci; spaventosamente impersonali e, come quel mondo, inumani.
"La vicenda si svolge in un clima soffuso di tenue ironia; e a questo si deve, mi pare, la riuscita del romanzo. Tutti sono nervosi, inquieti, infelici, mentre il tocco narrativo di Keyserling li accompagna con grande freschezza e ariosità." (Alfredo Giuliani)