"Caravaggio è doppiamente contemporaneo. È contemporaneo perché c'è, perché viviamo contemporaneamente alle sue opere che continuano a vivere; ed è contemporaneo perché la sensibilità del nostro tempo gli ha restituito tutti i significati e l'importanza della sua opera. Non sono stati il Settecento o l'Ottocento a capire Caravaggio, ma il nostro Novecento. Caravaggio viene riscoperto in un'epoca fortemente improntata ai valori della realtà, del popolo, della lotta di classe. Ogni secolo sceglie i propri artisti. E questo garantisce un'attualizzazione, un'interpretazione di artisti che non sono più del Quattrocento, del Cinquecento e del Seicento ma appartengono al tempo che li capisce, che li interpreta, che li sente contemporanei. Tra questi, nessuno è più vicino a noi, alle nostre paure, ai nostri stupori, alle nostre emozioni, di quanto non sia Caravaggio." (Vittorio Sgorbi)
Per la prima volta raccolti in volume tutti gli scritti sull'arte di Cesare Brandi: una storia dell'arte che attraversa l'età antica e moderna attraverso la penna di un grande critico e divulgatore. Un percorso che illumina le tappe più note dell'arte antica - Lorenzetti, Caravaggio, Giotto, Mantegna e Bernini tra gli altri - con un commento puntuale e appassionato, ma non trascura le opere meno note e ingiustamente dimenticate. Il viaggio nell'arte moderna si concentra sulla pittura dell''800 e del '900, passando in rassegna artisti italiani (De Pisis, De Chirico, Guttuso, Fontana) e grandi nomi europei, da Léger a Gauguin, da Monet a Picasso.
"C'è un'Italia protetta e remota a Morano Calabro, a Vairano, a Rocca Cilento, a Vatolla, a Giungano, a Torchiara, a Perdifumo, incontaminati presidi del Cilento. Poi ci sono le apparizioni. Come gli affreschi di Sant'Angelo in Formis, come il duomo di Anagni con il quale si apre il racconto pittorico di questo libro, anche se i primi segnali della lingua nuova, diretta, espressiva, sapida, sono nella scultura, a partire da Wiligelmo a Modena in parallelo con i primi vagiti della lingua italiana. Quei confini nei quali sono ristretti a coltivare i campi, cacciati dal Paradiso terrestre, Adamo ed Eva. Poco più tardi vedremo altri contadini affaticati, di mese in mese, nel Battistero dell'Antelami a Parma. Soltanto a Ferrara il lavoro sembrerà riservare una imprevista felicità. Il Maestro dei Mesi trasmette il piacere che ha provato estraendo fanciulli dalla pietra. Siamo nel 1230, in largo anticipo sul ritrovamento della vita nella pittura, prima ancora che in Toscana, nel cuore della Valle Padana, a Cremona, con il racconto delle storie di Sant'Agata di un maestro anonimo; non sarà un caso che la nuova lingua toscana in pittura si espanda fino a Padova con Giotto nella Cappella degli Scrovegni, e di lì in tutto il Nord. Siamo in apertura del Trecento, e diventa lingua universale quella che ha iniziato a parlare Giotto, ponendosi davanti le energie dei corpi e la loro azione..." (Vittorio Sgarbi) Introduzione di Michele Ainis.
"È certamente indicativo che la più grande rivoluzione compiuta nella storia dell'uomo sia legata al nome di un Figlio. Rivoluzione che trova fondamento e certezza nella Resurrezione. Le rivoluzioni non le fanno i padri. Le fanno i figli. Dio ha creato il mondo, ma suo Figlio lo ha salvato. Nel nome del Padre noi riconosciamo l'autorità, ma nel nome del figlio noi affrontiamo la realtà. I più grandi capolavori nella storia dell'arte hanno protagonista il Cristo, mentre il Padre si affaccia dall'alto benedicente, quando si manifesta. Pensiamo al 'Giudizio universale' di Michelangelo con il Cristo giudicante che alza la mano per indicare il destino dei buoni e dei cattivi. Pensiamo al 'Battesimo di Cristo' di Giovanni Bellini nella chiesa di Santa Corona a Vicenza: il Figlio è protagonista e, in alto, il Padre osserva. Pensiamo al 'Giudizio universale' di Pietro Cavallini nella chiesa di Santa Cecilia a Roma con l'umanissimo Cristo che ci osserva garantendoci speranza e salvezza. Così come i Cristi pantocratori di Monreale e di Cefalo. Il Padre eterno è rappresentato e irrappresentabile. È. Non fa. E questo ne limita la rappresentazione. Appare essenzialmente nel momento della creazione di Adamo e di Eva, a partire dai bassorilievi di Wiligelmo. Poi si vede poco, occhieggia qua e là; ma il Cristo domina. Ed è il Figlio cui il Padre ha delegato il destino dell'uomo. Nel nome del Figlio si cambia il mondo." (Vittorio Sgarbi)
Michelangelo Pistoletto, uno dei punti di riferimento dell'arte contemporanea, si racconta per la prima volta in questo libro. Sollecitato dallo sguardo e dalla voce di Alain Elkann, rievoca la sua storia più intima: l'infanzia, la vita in famiglia, gli affetti, mostrando come i luoghi del suo vivere (Torino e Biella, Sansicario e Corniglia) siano indissolubilmente intrecciati a quelli del suo lavoro d'artista, cominciato a quattordici anni con il restauro di quadri antichi nella bottega paterna. È la storia di un successo crescente, scandito dall'incontro con galleristi, critici, collezionisti e curatori di grande fama, ma soprattutto dal confronto e dalla continua interrogazione dei maestri riconosciuti: Francis Bacon, Jean Fautrier, Lucio Fontana, Alberto Burri, Robert Rauschenberg, Alberto Giacometti, Balthus. Dagli anni cinquanta ai giorni nostri, da New York a Parigi, e a Vienna, dove centrale è l'insegnamento all'Accademia di Belle Arti, si delinea un lungo e affascinante itinerario. Dai primi autoritratti fra l'astratto e il materico ai Quadri specchianti, vero nucleo fondante della poetica di Pistoletto, dagli Oggetti in meno, precorritori dell'arte povera, alle azioni del gruppo Lo Zoo, prime manifestazioni della Creative Collaboration, fino al Terzo Paradiso e alla Cittadellarte, che fonda un sistema aperto delle conoscenze per realizzare l'idea di un'umanità responsabile, ecco un unico fil rouge che pone l'arte come fonte di "energia mentale e visiva".
Questo è un libro sul tempo e sul corpo. Si occupa della scrittura del pittore cinquecentesco Jacopo Carucci detto il Pontormo. E anche della scrittura attorno a lui e su di lui. Racconta la pittura del Pontormo, inevitabilmente; ma come attraversata dal suono della parola e dalla febbre che l'invenzione letteraria vi ha acceso dentro. Pontormo è anche la letteratura che l'ha inventato. E che gli appartiene, come patina del tempo. Se il manierismo è "ricerca della febbre", come suggeriva Bataille, questo è un libro sul manierismo. Il volume accoglie in appendice il Dossier dell'invenzione di Pontormo: "La lettera al Varchi" e "Il libro mio" del pittore; i versi in burla inviati da Bronzino al suo maestro.
"È certamente indicativo che la più grande rivoluzione compiuta nella storia dell'uomo sia legata al nome di un Figlio. Rivoluzione che trova fondamento e certezza nella Resurrezione. Le rivoluzioni non le fanno i padri. Le fanno i figli. Dio ha creato il mondo, ma suo Figlio lo ha salvato. Nel nome del Padre noi riconosciamo l'autorità, ma nel nome del figlio noi affrontiamo la realtà. I più grandi capolavori nella storia dell'arte hanno protagonista il Cristo, mentre il Padre si affaccia dall'alto benedicente, quando si manifesta. Pensiamo al 'Giudizio universale' di Michelangelo con il Cristo giudicante che alza la mano per indicare il destino dei buoni e dei cattivi. Pensiamo al 'Battesimo di Cristo' di Giovanni Bellini nella chiesa di Santa Corona a Vicenza: il Figlio è protagonista e, in alto, il Padre osserva. Pensiamo al 'Giudizio universale' di Pietro Cavallini nella chiesa di Santa Cecilia a Roma con l'umanissimo Cristo che ci osserva garantendoci speranza e salvezza. Così come i Cristi pantocratori di Monreale e di Cefalo. Il Padre eterno è rappresentato e irrappresentabile. È. Non fa. E questo ne limita la rappresentazione. Appare essenzialmente nel momento della creazione di Adamo e di Eva, a partire dai bassorilievi di Wiligelmo. Poi si vede poco, occhieggia qua e là; ma il Cristo domina. Ed è il Figlio cui il Padre ha delegato il destino dell'uomo. Nel nome del Figlio si cambia il mondo." (Vittorio Sgarbi)
La Bellezza non è mai stata, nel corso dei secoli, un valore assoluto e atemporale: sia la Bellezza fisica, che la Bellezza divina hanno assunto forme diverse: è stata armonica o dionisiaca, si è associata alla mostruosità nel Medioevo e all'armonia delle sfere celesti nel Rinascimento; ha assunto le forme del "non so che" nel periodo romantico per poi farsi artificio, scherzo, citazione in tutto il Novecento. Partendo da questo presupposto, Umberto Eco ha curato un percorso che non è una semplice storia dell'arte, né una storia dell'estetica, ma si avvale della storia dell'arte e della storia dell'estetica per ripercorrere la storia di un'intera cultura dal punto di vista iconografico e letterario-filosofico.
Cinquant'anni fa, poco dopo la prima edizione del Signore degli Anelli, Cor Blok lesse la trilogia e venne totalmente rapito dalla sua originalità e dall'andamento epico della narrazione. La forza visiva del libro ispirò il giovane artista olandese, infondendogli una scintilla di entusiasmo che si unì al desiderio di creare un'opera d'arte inedita. Nacquero così oltre cento tele. In occasione di una mostra di queste opere tenutasi a L'Aia nel 1961, l'editore di J.R.R. Tolkien, Rayner Unwin, inviò allo scrittore cinque immagini. Tolkien ne rimase così colpito che volle incontrare l'artista, iniziando con lui una corrispondenza e acquistando per sé alcune delle opere. Le immagini di Cor Blok sono paragonabili all'arazzo di Bayeux: ciascuna racconta con uno stile semplice e immediato una vicenda epica, ma sotto questa semplicità si cela un linguaggio incisivo e potente che diventa sempre più efficace man mano che la storia procede. Le tele colorate riprodotte in questo libro sono presentate in armonia con lo sviluppo narrativo, in modo che il lettore possa fruirne secondo il criterio immaginato fin dal principio dall'artista. Sono accompagnate da estratti del Signore degli Anelli, e sono introdotte da un esauriente testo di Cor Blok, che spiega il processo creativo delle tele nel contesto della sua vita e della sua carriera.
Le tempere di Duilio Cambellotti nel Palazzo del Governo di Ragusa
Fotografie di Giuseppe Leone
Il 6 dicembre 1926 Ragusa diventò capoluogo di provincia, staccandosi dalla tutela di Siracusa. La città decise allora di dotarsi di una sede adeguata e, alacre promotore l’onorevole Filippo Pennavaria, vicinissimo al nuovo Cesare di Roma, affidò all’architetto Ugo Tarchi il progetto e la costruzione dell’edificio.
Progetto e costruzione posti sotto la diretta “responsabilità artistica” di Pennavaria. Il quale, a palazzo ultimato, fece sì che, dopo un concorso pro forma, la decorazione, che si voleva grandiosa e “a buon fresco”, venisse affidata all’artista italiano più noto e capace in questo campo, Duilio Cambellotti. Nel 1933, a due anni dalla costruzione del palazzo, dopo aver vinto la battaglia a favore della tempera contro il più fragile e secco affresco, Cambellotti diede mano alla decorazione parietale dei tre ambienti maggiori, il Salone d’Onore, la Sala del Camino, la Sala da pranzo. Obbligati i temi: la Vittoria di Vittorio Veneto e la Marcia su Roma per il Salone d’Onore, le immagini e le attività del territorio ragusano per la Sala del Camino, i prodotti della terra per la Sala da pranzo. Obbligati gli spazi e gli arredi, tutti a opera del Tarchi. Obbligati i tempi e gli stanziamenti finanziari. Cambellotti comunque, da grande artigiano e rigoroso professionista, seppe onorare l’impegno e l’arte, stendendo nei trittici del Salone d’Onore e sulle pareti delle altre sale immagini di grande maestria, d’impeccabile rigore stilistico, di elevata qualità tecnica. Tant’è che, al di là delle circostanze e delle pesanti ipoteche ideologiche che gravavano su questo lavoro, non ci si può che rallegrare per lo scampato pericolo quando, nel dopoguerra, qualcuno propose di distruggere queste scene che certamente potevano dar luogo a situazioni imbarazzanti. Fortunatamente ci si limitò a coprirle con bianche cortine, così da rendere possibile in seguito possibile un recupero nel momento in cui le passioni, i rancori e i protagonisti erano solo un lontano ricordo.
Duilio Cambellotti, “il tecnico più esperto, inventivo e geniale dell’arte italiana a cavallo dei due secoli,” come è stato definito da Giulio Carlo Argan, nasce a Roma nel 1876, da un padre artigiano del legno. Nella bottega paterna si sviluppa la sua vocazione per le arti applicate e la decorazione, vocazione che in più di mezzo secolo di sterminato lavoro farà di lui un vero maestro nel campo della scenografia, dell’illustrazione, della scultura e dell’incisione, e uno degli ultimi grandi della decorazione parietale. Fin dal 1896 crea manifesti e cartelloni teatrali, disegna oggetti e arredi, in una visione unitaria erede di Morris e Ruskin. Nel 1908 firma la scenografia per La nave di D’Annunzio e da allora questa attività costituirà una delle principali direzioni del suo lavoro, culminando nell’impegno per il Teatro Greco di Siracusa, per il quale creerà scene e costumi dal 1914 al 1947. docente di Ornato Modellato all’Istituto d’Arte di Roma, si lega dal 1908 al gruppo di intellettuali e letterati impegnati nel riscatto dell’agro romano: per la mostra sull’agro e per la scuola Cambellotti produce allestimenti, libri, manufatti, decorazioni ad affresco e a tempera. Ormai famoso nei vari campi dell’arte applicata, mantiene negli anni un’alta e pregevole produttività, e non a caso nel 1933 gli viene commissionata la prestigiosa decorazione per il Palazzo della prefettura di Ragusa. Nel dopoguerra continua la sua molteplice attività: insegna all’Accademia di Belle Arti di Roma, illustra libro per ragazzi e raffinate edizioni di poesia e letteratura, continua della decorazione di edifici pubblici e privati. Muore a Roma il 31 gennaio 1960.
"Il piccolo principe" di Antoine de Saint-Exupéry, pubblicato nel 1943 negli Stati Uniti, nel 1946 in Francia e nel 1949 in Italia da Valentino Bompiani, è uno dei libri più letti al mondo. Pubblicando il libro pochi mesi prima della sua scomparsa, Saint-Exupéry lasciò la testimonianza più eloquente di un amore per il disegno che coltivò in effetti per tutta la vita. Di questa sua passione e di tutte le prove, i tentativi, gli esercizi da cui nacque "II piccolo principe" questo libro dà conto, offrendo un eccezionale corpus di disegni inediti raccolti tra numerosi collezionisti. Accanto ai disegni, alcune pagine manoscritte dell'autore, fogli volanti regalati a parenti, amici e compagne, pagine di taccuino, lettere e dediche illustrate... Prefazione di Hayao Miyazaki.
"Matthias Grünewald ci ha sempre attratto, soprattutto a partire da varie riflessioni fatte da scrittori, pensatori e teologi sull'Altare di lsenheim, che ci hanno illuminato più di quelle fatte dalla maggior parte degli storici dell'arte. In effetti il messaggio di tale pittore trascende l'ambito specifico della storia dell'arte, in quanto investe in maniera assai forte i due problemi di fondo dell'uomo: quello della sofferenza, quello della morte e del loro senso. Le soluzioni che egli presenta di questi problemi, sono quelle di un vero credente nel messaggio del cristianesimo, oltre che di un uomo impegnato a fondo nel portare aiuto a quelle persone sulle quali tali problemi pesavano in sommo grado, vale a dire ai lebbrosi dell'ospedale annesso al convento dei frati dell'Ordine di Sant'Antonio di Isenheim. Una interpretazione adeguata del messaggio comunicato con la creazione del grande Altare di Isenheim, che è un grandioso polittico articolato in forma di libro, non può basarsi solamente su criteri estetici e connessi con l'arte pittorica, e nemmeno può esaurirsi in ricerche che mirino a ricostruire il misterioso personaggio storico che sta sotto il nome di Grünewald." (dalla prefazione dell'autore)