Dopo quasi ottant'anni la guerra è ricomparsa sul Vecchio Continente. L'aggressione scellerata che Vladimir Putin ha scatenato contro l'Ucraina il 24 febbraio 2022 ha rotto decenni di pace e ha fatto sì che l'Europa tornasse a essere ciò che per secoli era sempre stata fino alla conclusione del secondo conflitto mondiale: 'il posto della guerra'. Come è potuto accadere uno scempio simile proprio nella 'civile Europa'? Nel luogo che ha rappresentato un pilastro di quell'ordine liberale che ha trasformato il sistema internazionale stringendo attorno a sé una famiglia di democrazie affratellate e tessendo una fitta trama di istituzioni e trattati garanti della cooperazione e della pace? Se la pace, dunque, è stata infranta proprio dove le condizioni per mantenerla erano le migliori possibili, che speranza resta per evitare che la forza ricominci a essere la sola 'regola del mondo'? La risposta a questa domanda passa per la consapevolezza che la possibilità di escludere la guerra come prospettiva deriva proprio dalla credibilità e dalla sopravvivenza di quell'ordine liberale che la guerra di Putin ha messo sotto attacco: l'invasione russa dell'Ucraina non è infatti solo una dichiarazione di ostilità mortale nei confronti di quel paese, ma è anche un'esplicita aggressione all'Occidente democratico e ai principi e alle regole su cui si fonda. Ripensare la guerra, e il suo posto nella cultura politica europea contemporanea, dopo l'Ucraina è il solo modo per non trovarsi di nuovo davanti a un disegno spezzato senza nessuna strategia per poterlo ricostruire su basi più solide e più universali. Perché se c'è una cosa che la fiera resistenza del popolo ucraino ci ha insegnato è che non bisogna arrendersi mai, che la difesa della propria libertà ha un costo ma è il presupposto per perseguire ogni sogno, ogni speranza, ogni scopo, che le cose per cui vale la pena vivere sono le stesse per cui vale la pena morire.
Nel paese di Nod, a est de] giardino dell'Eden, dove la progenie di Caino andò a vivere secondo la leggenda biblica e che nel romanzo di John Steinbeck corrisponde simbolicamente alla valle percorsa dal fiume Salinas nella California settentrionale, si intrecciano le storie di due famiglie, gli Hamilton e i Trask. Protagonisti della saga, che va dalla Guerra civile alla Prima guerra mondiale, da una parte il vecchio Samuel Hamilton, immigrato dall'Irlanda; e, dall'altra, Cyrus Trask insieme ai figli Adam e Charles, e ai nipoti Aron e Caleb, gemelli nati dalla misteriosa Cathy Ames, reincarnazione di Eva e di Satana allo stesso tempo, emblema del male nel mondo, con il quale tutti nel corso della lunga vicenda devono misurarsi. Pubblicato negli Stati Uniti nel 1952 e ora riproposto nella nuova traduzione di Maria Baiocchi e Anna Tagliavini, "La valle dell'Eden" è il romanzo in cui Steinbeck ha creato i suoi personaggi più affascinanti e ha esplorato più a fondo i suoi temi ricorrenti: il mistero dell'identità, l'ineffabilità dell'amore e le conseguenze tragiche della mancanza d'affetto. Al tempo stesso saga famigliare e moderna trasposizione del mito, "La valle dell'Eden" è il capolavoro della maturità di Steinbeck, da cui nel 1955 Elia Kazan ha tratto l'omonimo film con James Dean. Introduzione di Luigi Sampietro.
John Ronald Reuel Tolkien ha scritto nel corso della vita molti racconti e versi che arricchiscono la mitologia e le storie della Terra di Mezzo. Dopo la sua scomparsa il figlio Christopher ha seguito con cura la pubblicazione di questo tesoro, portando alla luce nuovi personaggi, episodi epici e luoghi incantati. "I Lai del Beleriand" costituiscono il terzo atto della monumentale serie della "Storia della Terra di Mezzo". Guidati come sempre dalla preziosa penna di Christopher, i lettori avranno un accesso privilegiato a due dei racconti in versi più affascinanti creati da Tolkien. Il primo dei poemi è "Il Lai dei figli di Húrin", sulle vicende di Túrin Turambar, e il secondo è "Il Lai di Leithian", sulla storia di Beren e Lúthien, la cerca del Silmaril e l'incontro con Morgoth. Arricchiscono il volume altri tre poemi incompiuti e un commento di C. S. Lewis, che lesse i versi nel 1929. I testi scritti da Tolkien negli anni Venti forniscono un necessario approfondimento alle leggende di Arda. In essi è possibile ritrovare la sperimentazione linguistica e la fantasia tolkieniana in tutto il loro splendore.
Le parole sono importanti, vanno scelte con cura. E questo è tanto più vero quando parliamo delle identità che ci abitano, un discorso che si impone con urgenza in una società che ambisce ad abbracciare la complessità e però manca di una base condivisa per capirla e per descriverla: le parole, appunto. Ma come si può comprendere la conversazione se non si possiedono le parole? Come si può intervenire in modo responsabile nel dibattito se non si hanno gli strumenti primi per decifrarlo? Ecco allora un piccolo dizionario che raccoglie e prova a spiegare le parole - da binarismo di genere a gender mainstreaming, da identità a transizione, solo per dirne alcune - che ci servono per parlare bene di sesso, orientamento sessuale, orientamento romantico, identità, espressione e ruoli di genere. Parlando bene potremo pensare meglio noi stessi e gli altri, perché tutto ciò che siamo passa attraverso le parole che usiamo.
"Chi siamo noi?", ci chiediamo all'inizio di questo romanzo. "Noi siamo ignoranti. Noi siamo, in miliardi di pixel, gli eredi", coloro che vivono ormai fuori della linearità storica, dove il solo modo per capire i nostri padri è studiare. Così, in principio c'è un padre bambino, appena nato e già pronto ad affrontare il Novecento perché è un "bambino diacronico", "creatura della durata". Grazie alle parole che ha scritto - perché i bambini diacronici hanno lasciato montagne di parole, con le loro grafie sghembe, i loro dattiloscritti, telegrammi, articoli, faldoni - possiamo seguirne i passi attraverso il secolo breve, che non lo è stato affatto per chi come lui lo ha vissuto in ogni suo palpito. L'educazione fascista, l'amore con Michela, l'Etiopia, il fronte greco-albanese; la consapevolezza, l'adesione al comunismo, la Resistenza; la militanza politica che assorbe ogni altra vocazione, anche quella di padre, di scrittore; il terrorismo, poi il destino del partito, le verità, la perdita di identità; la vecchiaia come un "brodo sugli occhi" attraverso cui cercare di credere ancora. Questa la sorte di Pietro Migliorisi, protagonista di "Storia aperta" ed eteronimo di tanti uomini e donne della sua generazione: Davide Orecchio li riporta in vita attraverso una vertiginosa tessitura delle proprie parole e di quelle (in larghissima parte inedite) lasciate dal padre Alfredo Orecchio, insieme ai testi di molti comprimari, di cui nella Nota finale è offerto un toccante catalogo. In queste pagine avviene una moderna nékyia, la rievocazione di coloro che vissero in un tempo altro, nel quale splendeva il sole dell'avvenire, e si compie l'impresa di un romanzo in cui la polvere di tante voci ne compone una sola. Davide Orecchio insegue il mistero di un padre sconosciuto, ne indaga le traiettorie possibili, si impone un ferreo rigore documentario ma al tempo stesso permette alla fantasia di colmare lacune, sognare destini. Nel silenzio del passato, nel buio dell'inchiostro, cerca la luce.
Il 3 maggio 1938, nella nuova stazione Ostiense, Mussolini insieme a Vittorio Emanuele III e al ministro degli esteri Ciano attende il convoglio con il quale Hitler e i suoi gerarchi scendono in Italia per una visita che toccherà Roma, Napoli e Firenze. Da poche settimane Hitler ha proclamato l'Anschluss dell'Austria e Mussolini, dopo aver deciso l'uscita dell'Italia dalla Società delle Nazioni, si appresta a promulgare una legislazione razziale di inaudita durezza. Eppure sono ancora molti a sperare che il delirio di potenza dei due capi di Stato possa fermarsi: tra loro Ranuccio Bianchi Bandinelli, l'archeologo incaricato di guidare il Führer tra le rovine della città eterna; Renzo Ravenna, decorato nella Grande guerra, fascista zelante e podestà di Ferrara, che al pari di migliaia di altri ebrei italiani non si dà pace per i provvedimenti che lo pongono ai margini della vita civile; Margherita Sarfatti, che sino all'ultimo spera in uno spostamento degli equilibri verso l'asse anglofrancese ma deve cedere il passo alla giovane Claretta Petacci e fuggire; e lo stesso Ciano, distratto da tresche sentimentali e politiche insensate come il piano di conquista dell'Albania, che solo un anno dopo, nel maggio 1939, si trova a siglare insieme a Ribbentrop il Patto d'Acciaio con il quale "l'Italia e la Germania intendono, in mezzo a un mondo inquieto e in dissoluzione, adempiere al loro compito di assicurare le basi della civiltà europea". Antonio Scurati ricostruisce con febbrile precisione lo spaventoso delirio di Mussolini, pateticamente illuso di poter influenzare le decisioni del Fu?hrer, consapevole dell'impreparazione italiana, più che mai solo fino alla sera del giugno 1940 in cui dal balcone di Palazzo Venezia proclama "l'ora delle decisioni irrevocabili". In questo nuovo pannello del suo grande progetto letterario e civile, Scurati inquadra il fatale triennio 1938-40, culmine dell'autoinganno dell'Italia fascista, che si piega all'infamia delle leggi razziali e dell'alleanza con la Germania nazista, e ripercorre gli ultimi giorni di un'Europa squassata da atti di barbara prevaricazione e incapace di sottrarsi al maleficio dei totalitarismi: un romanzo tragico e potente, carico di moniti per il nostro futuro.
New York. Una giovane donna con opinioni molto decise sulla Rete, di cui pure fa uso nella vita privata e su cui si fonda il suo mestiere, sbircia il cellulare del suo ragazzo, Felix, e scopre che è un celebre complottista anonimo. Questo spiega in parte il suo distacco e la sua elusività, ed è quasi un sollievo, perché le offre una buona ragione per lasciarlo, come già stava pensando di fare. Ma poi un incidente fa precipitare la situazione, e la protagonista di questa storia decide di lasciare New York e tornare a Berlino, dove lei e Felix si sono conosciuti. Qui si immerge in un mondo di expat, che come lei sembrano dotati di identità evanescenti e si guardano bene dal mettere radici, tutti sospesi in una sorta di acquario, in attesa di non meglio precisate certezze. Chiaro che di gente così non ci si può fidare, come del resto di Felix. E di lei ci possiamo fidare, noi che leggiamo la sua storia e ascoltiamo divertiti e sconcertati la sua versione dei fatti? Mentre scandaglia le app di incontri alla ricerca di distrazioni, la nostra protagonista scoprirà che non tutto è come sembra, anzi, tutto è come non sembra. Un ritratto lucido e sarcastico del nostro mondo, in bilico tra la realtà e il racconto che ne facciamo, i fatti e la loro messa in scena accuratamente orchestrata perché appaia attraente a chi la guarda attraverso uno schermo.
Simboli, visioni e filosofia si intrecciano in maniera indissolubile nei quattro poemetti che costituiscono il testamento letterario di T. S. Eliot, uno degli autori più rappresentativi del Novecento. Scritti separatamente e solo più tardi riuniti in volume, compongono un arazzo in cui trama e ordito sono rappresentati dal filo del modernismo e da quello dell'ermetismo. Il tempo è struttura cronologica e musicale di circolarità, di meditazione e di fiducia nell'eterno. Evocare un domani migliore, aprirsi al dono della speranza è il messaggio che l'autore, voce flebile nel fracasso dei bombardamenti su Londra, diffonde nel bel mezzo della seconda guerra mondiale. Esiste un futuro dopo l'abisso della Waste Land, della guerra e della disperazione in generale? Questo libro non teme di rispondere affermativamente. Ora come quando è stato scritto.
Musica, amiche, nostalgie, memorie di vecchi amori, l'arte, l'analisi, la terapia di gruppo. La vita di Lily, italiana a Parigi, è piena e densa, però quando arriva l'uomo dalla cravatta con le giraffe, Philippe, un medico che la ama bene, fa posto anche a lui. E invita d'impulso la madre, l'esuberante Teresa, a passare il Natale insieme con l'idea di riprenderla in un video che è il suo prossimo progetto artistico. La mamma arriva con la borsa piena di CD, i suoi retropensieri, i rimproveri velati di sempre. Lily ci mette un attimo a rimpiangere di averle concesso di invadere la sua vita, la sua casa. "Da ragazzina pensavo: se devo diventare come mi vuole lei non sopravviverò. Io volevo essere libera." Ci sarà riuscita? Philippe è un uomo meraviglioso: però è sposato. Sarà l'inizio di un'altra storia in salita? Chissà. Ma ci sono conversazioni che a un certo punto non si possono più eludere. E così, ansiosa e temeraria, Lily le affronta, sullo sfondo di una Parigi invernale coi suoi cieli color Cézanne.
Un'esplosione squarcia la quiete della campagna corleonese. Il giovanissimo Totò Riina assiste allo sterminio dei suoi familiari intenti a disinnescare una bomba degli Alleati per ricavarne esplosivo. È un boato che distrugge e che genera. La piaga che molti, con timidi bisbigli, chiamano mafia, ma che d'ora in poi si rivelerà a tutti come Cosa nostra, s'incarna da qui in avanti nella sua forma più diabolica. Ma con potenza uguale e contraria, per fronteggiare l'onda di quella deflagrazione scaturisce anche il suo antidoto più puro. È il coraggio, quello che sorregge l'ingegno e l'intraprendenza, che sopperisce ai mezzi spesso insufficienti: il coraggio che scorre in Giovanni Falcone, negli uomini e nelle donne che insieme a lui sono pronti a lanciarsi in una battaglia furiosa dove la vita vale il prezzo di una pallottola. La storia di un magistrato che insieme a pochi altri intuisce la complessità di un'organizzazione criminale pervasiva, ne segue le piste finanziarie, ne penetra la psicologia e ne scardina la proverbiale omertà, è narrata in queste pagine con l'essenzialità di un dramma antico: sul proscenio, un uomo determinato a ottenere giustizia, assediato dai presagi più cupi, circondato dal coro dei colleghi che prima di lui sono caduti sotto il fuoco mafioso; stretto, nelle notti più buie, dall'abbraccio di una donna che ha scelto di seguirlo fino a dove il fato si compirà. Roberto Saviano ha voluto onorare la memoria del giudice palermitano strappandolo alla fissità dell'icona e ripercorrendone i passi, senza limitarsi a una ricostruzione fondata su uno studio attentissimo delle fonti, degli atti dei processi, delle testimonianze, ma spingendo la narrazione fino a quello "spazio intimo dove le scelte cruciali maturano prima di accadere". Questo romanzo ci racconta una pagina fatidica della nostra storia, illumina la vita di un uomo che, nel pieno della carriera, fu in realtà al culmine del suo isolamento. E leva il canto altissimo della sua solitudine e del suo coraggio.
Grazie ai progressi inarrestabili dell'intelligenza artificiale, il nostro lavoro - che si tratti di diagnosticare una malattia o redigere un contratto, scrivere notizie o comporre musica - è sempre più alla portata dei computer. La minaccia di un mondo senza lavoro per tutti è una delle prove più grandi del nostro tempo, e la pandemia di Covid-19 l'ha resa sempre più incombente: il virus ci ha precipitati d'un tratto in un mondo con ancora meno lavoro. Per questo dobbiamo affrontare con urgenza le questioni sollevate da Daniel Susskind. Il progresso tecnologico potrebbe portare in futuro a un benessere e a una prosperità senza precedenti. Le vere sfide saranno allora distribuire questa prosperità in modo equo, limitare il crescente potere delle Big Tech e riempire di significato un mondo in cui il lavoro non sarà più il centro delle nostre vite.
La guerra accompagna l'umanità fin dalle sue origini. Il racconto che la civiltà occidentale ne ha fatto si è declinato essenzialmente in tre modi - la narrazione epica nel mondo antico, quella romanzesca nel mondo moderno e quella televisiva nel mondo contemporaneo. Per capire come la nostra cultura della guerra sia intimamente legata al racconto che ne facciamo, Antonio Scurati legge questi tre modi attraverso quello che chiama il "criterio della visibilità": visibilità come rivelazione, come possibilità di comprendere la realtà di un mondo in guerra. Partendo dall'epica antica - che con l'ideale eroico dell'Iliade ha dato origine a una tradizione millenaria che pensa la battaglia come evento in grado di generare significati e valori collettivi -, attraversando la crisi di questo paradigma nella modernità romanzesca e la sua dissoluzione nella convinzione tutta novecentesca che la guerra sia priva di un qualsiasi senso, arriviamo alla tragica attualità del conflitto raccontato dalla televisione: quando le immagini della guerra sono entrate per la prima volta in diretta nelle nostre case - era il 17 gennaio 1991, data d'inizio della Prima guerra del Golfo - ci siamo illusi che al massimo della spettacolarizzazione potesse corrispondere il massimo della visibilità, e invece ci siamo trovati di fronte a un'apocalisse svuotata di qualsiasi rivelazione. Un'altra data spartiacque è arrivata dieci anni dopo: dall'11 settembre 2001 la guerra, prima demistificata, è stata investita di nuovo di un significato salvifico, come forma di violenza positiva che si contrappone alla nuova forma di violenza illimitata che è il terrorismo. E non potendo affrontare il terrorismo sul suo terreno, poiché questo non ha territorialità alcuna, la guerra ha abbandonato il reale per assicurarsi il controllo dei cieli dell'immaginario. L'invasione russa dell'Ucraina del febbraio 2022 sembrerebbe a prima vista smentire lo sviluppo di questo paradigma. Putin e la sua guerra, però, non sono l'Occidente: ne sono il nemico. Ma come sta rispondendo l'Occidente a questa offensiva orientale? Forse proprio riattingendo a quegli archetipi millenari che credevamo ormai seppelliti dal pacifismo novecentesco.