Cortigiane ormai vecchie e malandate, nobilastri squattrinati, donne dedite ad amori saffici, un medico incompetente: personaggi che, fra le tante figure rappresentate nelle canzoni del trovatore galego Afonso Anes do Coton (XIII secolo), compongono un vivido ritratto della vita della corte che lo accolse, quella di Alfonso X di Castiglia. Ma Coton non sa raffigurare solo un'umanità distante dalle idealizzazioni della poesia d'amore: egli stesso - caso inedito in tutto il corpus galego-portoghese - si fa protagonista di una canzone a metà fra l'accorata confessione e la burla giullaresca, vero e proprio autoritratto di un poeta girovago e scapestrato, dominato dalla tendenza a frequentare, per usare le parole di Cecco Angiolieri, la donna, la taverna e l' dado.
Scritto nel XIV secolo da Arnaut Vidal de Castelnaudary, "Las aventuras de monsenher Guillem de la Barra" rientra in quelle poche composizioni narrative medievali, in lingua occitana, che riportano la firma dell'autore. Si tratta di un romanzo che narra storie di avventure e di cavalleria, nel quale predominano i temi della difesa della fede cristiana, dell'estrema lealtà al proprio signore, dell'amore e dell'onore. Dopo essere caduto in disgrazia per colpe non commesse, l'eroe è costretto ad abbandonare la sua terra e a rinunciare al suo status nascondendo la sua vera identità. Nel corso delle sue avventure Guillem è presentato dall'autore come un personaggio versatile: come un prode cavaliere impegnato in ardui scontri contro i pagani; come un padre sconsolato alla ricerca disperata dei propri figli; come uno schivo precettore; come un misero questuante ma sempre fermamente deciso a recuperare il proprio onore e il proprio feudo. Nella stesura del romanzo l'autore ha rimaneggiato il materiale culturale tradizionale fondendo le tematiche epico-agiografiche con quelle cavalleresche, la drammaticità con l'ironia e la comicità, dando vita ad una narrazione poliedrica e polifonica che riprende e rielabora vari motivi appartenenti sia al folclore che ai diversi generi letterari dell'epoca.
Riproposti alla cultura internazionale nel 1831 da una celebre edizione di Angelo Mai, i tre scrittori noti come Mitografi vaticani rappresentano ciascuno con la stesura di un fabularius di leggende sugli dèi ed eroi dell'antichità greco-latina - una testimonianza insostituibile sulle credenze del pantheon religioso pagano. Indagini recenti hanno collocato gli Autori delle sillogi in epoca medievale (tra il IX e il XIII secolo) suggerendo, almeno per il terzo Mitografo, una possibile paternità: si tratti di Alberico di Londra (XII sec.) o di Alessandro di Neckam (m. 1217). L'antologia di testi presentata comprende cento fabulae dei Mitografi in prima traduzione italiana, essenziali per comprendere come il Medioevo recuperasse il volto leggendario dell'antichità reinterpretandolo in chiave allegorica. L'importanza delle fabulae, accettate e discusse da un pubblico di dotti ed artisti, risiede anche nel fatto che divennero il referente figurativo per le divinità dell'Olimpo classico dall'età del Gotico fino a Petrarca, Boccaccio e l'Umanesimo.
Fratello minore del più celebre Abu Hamid, il grande teologo sistematico dell'islam medievale, Ahmad Ghazali si distingue come originale cantore della "santità" di Satana, inopinatamente eretto a modello dell'amante mistico, e scrive con questo breve trattato una densa, originale riflessione sui fondamenti e la "fisiologia" dell'amore. Sequela dal ritmo travolgente di aforismi e stringate argomentazioni, intervallati da aneddoti e versi, questo testo ha sedotto e affascinato nei secoli innumerevoli sufi e poeti dalla Persia all'India musulmana. Scandagliando il tema dell'eros, Ahmad Ghazali porge una sottile, profonda "teologia della bellezza e dell'amore", sicché la sua analisi dell'amore umano si rivela essere in realtà una ineguagliata, raffinatissima meditazione sull'amore divino e sulle leggi misteriose che lo regolano.
Marbodo di Rennes (1035-1123), coltissimo prelato e poeta, è autore di un poemetto "De lapidibus" e di altri tre testi sullo stesso argomento, due in prosa e uno ancora in versi redatti, forse, nel 1093. Qui riuniti in un'edizione tradotta e commentata, costituiscono una silloge capace di scrutare la natura fascinosa delle gemme preziose, per un epoca che ne percepiva a un tempo la polarità di scienza e di allegoria.
Sem Tob, ebreo di Carriòn de Los Condes, probabilmente rabbino e autore di varie opere in ebraico, dedica al re Pedro I di Castiglia, detto Pedro "el cruel", appena salito al trono (1350), uno dei libri più affascinanti della letteratura spagnola medievale. I Proverbios morales, titolo attribuito all'opera dal marchese di Santillana, non si presenta però certo come un'opera didattica, seppure inviti ad agire rettamente e con misura, ma piuttosto come una profonda riflessione sul mondo, sull'uomo e sulla vita. Sem Tob, nella dedica posta all'inizio e alla fine del libro, si dichiara subito ebreo, si direbbe con un certo orgoglio, dovuto non tanto alla sua origine ma alla consapevolezza del suo sapere e della sua autorità morale.