In un mondo dominato dal web, dalla bulimia comunicativa e dalle cosiddette «fake news», può accadere di pensare che le ambiguità e le manipolazioni che presiedono alla formazione di un'opinione collettiva nelle nostre società democratiche si siano determinate solo di recente, e solo in funzione delle ultime innovazioni tecnologiche. Non è affatto così. La questione della formazione di un'opinione pubblica - che certo si è fatta più complessa e intricata nel mondo globalizzato di internet - ha origini ben più lontane. Questo libro ne è la più significativa e più consapevole testimonianza. Pubblicato nel 1922, "L'opinione pubblica" conserva a distanza di cento anni la sua carica profetica, la sua lucida provocatorietà e la sua ricchezza descrittiva. L'autore, Walter Lippmann, avviato a una brillante carriera di giornalista e saggista, aveva ricoperto nel 1917 la carica di sottosegretario aggiunto Usa alla Guerra: un breve interludio, che gli aveva consentito di occupare un punto di osservazione strategico sulle convulsioni comunicative di una società democratica, apparentemente inconsapevole della propria complessità. L'assunto del libro - un classico «fondativo» della sociologia dei media - è limpido e preciso: come avviene quel complesso e solo apparentemente «normale» processo attraverso cui i nostri punti di vista, le nostre idee circa la sfera delle esperienze civili e politiche condivise diventano Opinione pubblica, Volontà nazionale, Mente collettiva, Fine sociale? In che modo «l'opinione pubblica» costruisce i propri miti, i propri eroi, i propri nemici, strappandoli alla storia e catapultandoli in una sorta di leggenda potentissima, e al tempo stesso effimera? Lippmann indaga e descrive i meccanismi attraverso cui le immagini «interne» elaborate nelle nostre teste ci condizionano nei rapporti con il mondo esterno, gli ostacoli che limitano le nostre capacità di accesso ai fatti, le distorsioni provocate dalla necessità di comprimerle; infine, la paura stessa dei fatti che potrebbero minacciare la vita consueta. A partire da questi limiti, l'analisi ricostruisce come i messaggi provenienti dall'esterno siano influenzati dagli scenari mentali di ciascuno, da preconcetti e pregiudizi. Il testo di Lippmann ci offre anche una lucida critica dei limiti insiti nel sistema democratico, che ambisce a governare società complesse attraverso meccanismi di formazione del consenso non sempre limpidi, trasparenti, irreprensibili, su cui è opportuno esercitare il massimo di attenzione e di vigilanza critica. Prefazione di Nicola Tranfaglia.
L'intervista è roba da artigiani... Artigiani che con i loro attrezzi microfoni, cuffie, registratori, videocamere - creano racconti e storie. Artigiani di storia orale, di giornalismo, di antropologia, di sociologia, che hanno riconosciuto nell'intervista una fonte di documentazione da privilegiare per la propria attività professionale e le proprie ricerche. Fonti orali che ancora faticano a essere accreditate pienamente al pari di quelle "classiche" presenti negli archivi e nelle biblioteche. Ma questo pregiudizio per fortuna sta scomparendo, grazie anche alla consapevolezza da parte di quegli stessi artigiani che le fonti da loro prodotte debbano poi essere rese in qualche modo fruibili da altri. Per consultarle, riutilizzarle, o anche confutarle. Si tratta di una documentazione "parlante" la cui consultazione richiede alcune accortezze: prima fra tutte, il rispetto della sfera privata delle persone che l'hanno resa possibile. Da questo punto di vista è cruciale la funzione degli archivi: custodi di quelle arti che sono in gioco nel mestiere di chi intervista, ovvero l'ascolto e la conservazione. Questo volume, che prende spunto da un convegno promosso dall'Istituto centrale per i beni sonori e audiovisivi, cui hanno partecipato importanti studiosi e giornalisti, mostra come l'intervista sia diventata ormai uno strumento imprescindibile per alcune discipline - storia, antropologia, sociologia - e come essa sia il cardine di una ricerca dialogica.
Fin dove è lecito parlare di sesso, di eutanasia o di fecondazione assistita in televisione? È bene che un neonazista, un mafioso, un pedofilo abbiano una loro ribalta nei media, in nome del diritto all'informazione? Questioni che toccano i confini di accettabilità del discorso dei media intorno a temi controversi. Nasce da qui una "preoccupazione etica", una consapevolezza del fatto che il sistema dei media parla contemporaneamente a più persone, propone modelli comportamentali in conflitto, racconta storie reali e in ciascuna di tali occasioni applica e legittima principi morali condivisi. Essi trovano spazio di esemplificazione all'interno di film, fumetti, talk show o reality nei quali non è difficile riconoscersi. Ci si attende però, al contempo, che i media mantengano essi stessi una condotta etica, nel senso di rispettare norme che consideriamo fondamentali per tutelarci come cittadini e come lettori-spettatori. Tali norme sono comprese nel quadro di leggi e codici di autoregolamentazione. La "preoccupazione etica", così, alla fine tocca regole e modelli morali "rappresentati" nei messaggi insieme a regole e modelli morali "applicati" ai messaggi, ponendo l'interrogativo centrale del libro. Se cioè occuparsi di comunicazione comporti un "ragionare etico" parzialmente diverso da quello necessario altrove, tanto da individuare nei media un ambito specifico, e perciò anche originale, di considerazione.
Lippmann indaga e descrive i meccanismi attraverso cui le immagini "interne" elaborate nelle nostre teste ci condizionano nei rapporti con il mondo esterno, gli ostacoli che limitano le nostre capacità d'accesso ai fatti, le distorsioni provocate dalla necessità di comprimerle, "raccontando" un mondo complicato con un "piccolo vocabolario"; infine, la paura stessa dei fatti che potrebbero minacciare la vita consueta. A partire da questi limiti, l'analisi ricostruisce come i messaggi provenienti dall'esterno siano influenzati dagli scenari mentali di ciascuno, da preconcetti e pregiudizi. Il testo di Lippmann ci offre anche una lucida critica del sistema politico democratico che ambisce a governare società sempre più complesse.
Nel 1959 un giornalista politico è inviato da un quotidiano nazionale a seguire i lavori del congresso di un importante partito. Ne risulta una serie di articoli obiettivi e indipendenti, nessuno dei quali sarà pubblicato. Il giornalista si dimette immediatamente e, qualche tempo dopo, pubblica su "Tempo Presente" una disamina lucida e raggelante sul mondo della stampa e dei suoi rapporti con il potere. "Un giornalista politico - sostiene Forcella può contare su millecinquecento lettori: i ministri e i sottosegretari, dirigenti di partito, i parlamentari, sindacalisti, alti prelati e qualche industriale. Il resto non conta".