La metafora medica ricorre di frequente nei testi di Seneca, la cui riflessione si muove secondo la distinzione tradizionale che accostava alla chirurgia altri due specifici settori di ricerca: la dietetica e la farmaceutica. “Cibo e cura” e “cibo e malattia” sono del resto due binomi tipici della riflessione ippocratica.
L’opera del medico avviene tuttavia nell’orizzonte più ampio della precarietà della salute e della finitezza della condizione umana. Talvolta, di fronte al male, neppure il dottore basta perché «la salute del corpo è temporanea e il medico, anche se la restituisce, non la può garantire». In questo modo riaffiora un’altra qualità del medico, quella di essere filosofo, poiché riflette sulla condizione umana e la sua fragilità, adotta sobrietà e temperanza e considera la malattia sempre a partire dall'uomo.
Nelle "Epistulae ad Lucilium" di Seneca si alternano lettere più brevi e altre che si configurano come brevi trattati sotto forma epistolare. Tra queste ultime spicca la lettera 70, piuttosto corposa con i suoi ventuno paragrafi, che sviscera l'idea, tipicamente stoica, secondo la quale la vita non è sempre, di per se stessa, degna di essere vissuta. Anzi, secondo la concezione etica tipica dell'élite romana, fortemente intrisa di stoicismo, ognuno è libero e deve sapere porre fine alla propria esistenza in una serie ben precisa di circostanze: quando, per esempio, si è afflitti da una malattia incurabile, nel caso del "taedium vitae" (espressione che potremmo quasi far corrispondere al moderno concetto di «depressione») o in tutti i casi in cui la dignità dell'individuo, o la sua libertà, sono definitivamente e senza speranza minacciate o stroncate. Questo aspetto dell'autodeterminazione del saggio - uno dei punti di divergenza più interessanti tra la filosofia stoica e il cristianesimo, per tanti altri versi invece assimilabili -, si rivela di grande attualità anche nell'odierno dibattito etico-politico.
In diverse occasioni, soprattutto nelle Lettere morali a Lucilio, Seneca fornisce dettagli sulla sua vita privata e sulle sue abitudini alimentari. Se i suoi contemporanei prediligono tavole imbandite con ostriche di lago e carne di cinghiale, lingue di fenicottero e vini addolciti dal miele, il filosofo opta per la frugalità di brodini e polenta, pane d'orzo e acqua semplice. Seneca ritiene, infatti, che il cibo rappresenti un'occasione per esercitare la virtù, per separare ciò che è essenziale da ciò che non lo è, un esercizio che presenta diversi punti di contatto con i precetti sui cibi della tradizione ascetica e monastica cristiana.