"Raghuram Rajan è stato uno dei pochi economisti al mondo ad avvertire la comunità internazionale della crisi imminente prima che si manifestasse, in un momento anzi in cui il paradigma dominante era al suo culmine. In "Terremoti finanziari" egli mostra come le decisioni individuali che nel complesso hanno causato la crisi finanziaria - decisioni prese dai banchieri, dai governi e dai semplici proprietari di case - erano risposte in sé razionali ma all'interno di un ordine finanziario globale scorretto. Un sistema cioè in cui gli incentivi al rischio erano incredibilmente fuori misura rispetto ai pericoli che tale rischio poneva. Rajan dimostra inoltre come l'accesso disuguale sia all'educazione sia alla tutela della salute negli Stati Uniti ponga noi tutti in grave pericolo; lo stesso si può dire anche per le scelte economiche di Paesi come la Germania, il Giappone e la Cina, che gravano l'America di un fardello non dovuto. A conclusione del libro Rajan delinea le scelte radicali che dobbiamo assolutamente compiere se vogliamo assicurare un'economia globale più stabile al fine di ricreare una prosperità duratura." (dalla prefazione di Franco Debenedetti
Cos'è il denaro? A cosa serve e come funziona? È il denaro che appartiene agli uomini o sono gli uomini ad appartenere al denaro? Domande semplici come quelle che potrebbe fare un bambino, ma che pure, una volta adulti, dimentichiamo forse perché spaventati da risposte che crediamo troppo astruse. Così si finisce per dare il denaro per scontato, uno strumento "trasparente", quasi una legge di natura. Giorgio Ruffolo, con la chiarezza e lo stile che l'hanno reso popolare, ne traccia una storia molto diversa, ricca di scoperte sorprendenti e clamorose smentite del senso comune. E lo fa raccontando le vicende degli uomini che per la passione, la necessità o il desiderio di denaro, hanno plasmato il mondo. Simbolo del valore materiale, il denaro ha una natura ideale: contrariamente a quello che si potrebbe pensare, infatti, "non è l'oro che da valore al denaro, ma il contrario". La storia del denaro, allora, è anche una storia di smaterializzazione e fiducia. Volatilità perché si passa dalle sonanti monete in oro e argento a pezzi di carta altrettanto preziosi, fino alle carte di credito o agli scambi via internet in cui il denaro diventa puro dato digitale. Fiducia perché accettare soldi in cambio di merce significa credere sulla parola che un giorno ci verrà restituito ciò che ci spetta. Cosa succede quando tale fiducia (o tale fede...) comincia a incrinarsi l'abbiamo scoperto a nostre spese proprio durante la recente crisi finanziaria globale.
Questo libro riflette sull'influenza esercitata dal concetto di vantaggio competitivo. Il vantaggio competitivo - cioè la capacità di offrire all'acquirente prodotti a costi più bassi degli altri, o benefici unici che giustifichino un premium price - è particolarmente rilevante nel determinare il successo di un'impresa. In che modo essa raggiunge una leadership di costo? E come si differenzia dai concorrenti? Porter dimostra come le imprese possano creare e sostenere un vantaggio competitivo all'interno del proprio settore e come i manager possano valutare la posizione competitiva della propria impresa, realizzando le azioni capaci di migliorarla. Il libro illustra principi e strumenti volti alla creazione di un vantaggio competitivo nei costi o nella differenziazione, mostra come la scelta dell'ambito competitivo giochi un ruolo essenziale nella creazione del vantaggio competitivo, e introduce lo strumento fondamentale per chi opera scelte strategiche della catena del valore, che permette di analizzare le principali attività che un'impresa svolge per progettare, produrre, vendere e distribuire prodotti o servizi.
Un’introduzione autorevole e aggiornata alle principali teorie e ai concetti chiave che costituiscono il sistema economico e politico del capitalismo. Nella prima parte del volume vengono presentate le tesi dei principali teorici storici, Adam Smith (la mano invisibile del mercato), Karl Marx (lo sfruttamento del lavoro altrui da parte del capitale), Max Weber (le fondamenta della razionalità economica), Joseph Schumpeter e John M. Keynes (l’instabilità derivante dalle caratteristiche essenzialmente monetarie e finanziarie del capitalismo); nella seconda parte l’autore prende in considerazione le varie istituzioni: mercato di scambio, sistema monetario, impresa, capitale e mercato finanziario, ruolo dello Stato. Una particolare attenzione è dedicata a concetti di forte attualità quali globalizzazione economica, disuguaglianze economiche, fragilità monetaria e finanziaria. Tutti temi che l’autore ha aggiornato espressamente per l’edizione italiana.
Ci hanno raccontato che saremmo diventato ricchi grazie al Dow Jones, liberi di navigare nelle reti della New Economy, moderni e globali nel mondo unificato dalla fine della guerra fredda. E adesso? Se è tutto un modello culturale e politico quello che la crisi economica e finanziaria ha messo in ginocchio, si stenta a vedere quale alternativa possa sostituire gli entusiasmi degli ideologi del mercato e la sicumera dei retori anti-statalisti. E a sinistra si ode solo un silenzio assordante. Edmondo Berselli non vuole dare soluzioni, ma indicare almeno alcuni idee possibili, dall’«economia sociale di mercato» di Bad Godesberg alla dottrina sociale della Chiesa cattolica. Che sembreranno poco alla moda, ma hanno pur sempre assicurato alle generazioni europee del dopoguerra non solo una notevole crescita economica, ma anche una stabilità sociale (e forse una dignità morale) che oggi rimpiangiamo.
Una massa di risparmio equivalente al Pil del mondo viene gestita, a loro esclusiva discrezione, da enti finanziari quali fondi pensione, fondi di investimento, assicurazioni e vari tipi di fondi speculativi. La maggior parte è controllata da grandi banche. Il loro mestiere consiste nell'investire quotidianamente soldi degli altri: per questo sono chiamati investitori istituzionali. In appena vent'anni il peso di questo «capitalismo per procura» nell'economia mondiale è diventato formidabile: gli investitori istituzionali hanno oggi in portafoglio oltre la metà del capitale delle imprese quotate. Nel tutelare gli interessi dei risparmiatori, sono in genere indifferenti alle conseguenze sociali degli investimenti che effettuano. Il loro unico criterio guida è la massimizzazione a breve termine del rendimento finanziario. Dalla crisi esplosa nel 2008, che ha coinvolto in diversi modi anche gli investitori istituzionali, si potrà stabilmente uscire soltanto con nuove forme di regolazione dell'economia.
Posto che controllano la metà di essa, le riforme dovranno necessariamente coinvolgere anche questi enti: se i loro capitali fossero investiti in infrastrutture, scuole, trasporti, ambiente, l'economia del mondo ne trarrebbe sicuro vantaggio. A tale scopo occorrerebbe anche ridare voce, nelle loro strategie di investimento, ai milioni di persone che a essi affidano i loro soldi.
Alcuni sostengono che il capitalismo avrebbe imboccato una strada di autodistruzione di cui si può prevedere il necessario percorso e la sua inevitabile fine. Per Giorgio Ruffolo non è vero. Non c'era niente, nel passato del capitalismo, che fosse necessario e inevitabile. E non c'è niente di simile nel suo futuro. Perché le origini del capitalismo possono essere rintracciate ben prima della nostra epoca, prima dell'emersione del volto potente e inquietante dell'impresa contemporanea. Perché già l'antichità dell'Occidente, tra Grecia e Roma, conteneva in sé i segni di quella attrazione verso il denaro e verso la produzione di valore che costituisce l'essenza della produzione e dello scambio capitalistico. Il passato del capitalismo gode quindi una durata straordinariamente lunga, e questo spinge Ruffolo a guardare al futuro nella certezza che il capitalismo non avrà vita troppo breve. Perché esso ha dentro di sé la capacità di adattarsi ai tempi più diversi, l'elasticità necessaria a catturare l'immaginazione degli uomini di qualsiasi epoca, gli strumenti indispensabili per continuare a essere lo scenario economico del futuro.
Una massa di risparmio equivalente al Pil del mondo viene gestita, a loro esclusiva discrezione, da enti finanziari quali fondi pensione, fondi di investimento, assicurazioni e vari tipi di fondi speculativi. La maggior parte è controllata da grandi banche. Il loro mestiere consiste nell'investire quotidianamente soldi degli altri: per questo sono chiamati investitori istituzionali. In appena vent'anni il peso di questo "capitalismo per procura" nell'economia mondiale è diventato formidabile: gli investitori istituzionali hanno oggi in portafoglio oltre la metà del capitale delle imprese quotate. Nel tutelare gli interessi dei risparmiatori, sono in genere indifferenti alle conseguenze sociali degli investimenti che effettuano. Il loro unico criterio guida è la massimizzazione a breve termine del rendimento finanziario. Dalla crisi esplosa nel 2008, che ha coinvolto in diversi modi anche gli investitori istituzionali, si potrà stabilmente uscire soltanto con nuove forme di regolazione dell'economia. Posto che controllano la metà di essa, le riforme dovranno necessariamente coinvolgere anche questi enti: se i loro capitali fossero investiti in infrastrutture, scuole, trasporti, ambiente, l'economia del mondo ne trarrebbe sicuro vantaggio. A tale scopo occorrerebbe anche ridare voce, nelle loro strategie di investimento, ai milioni di persone che a essi affidano i loro soldi.
"L'impresa irresponsabile" non è un titolo metaforico. Se l'intervista a Gallino che aveva per tema la concezione dell'impresa di Adriano Olivetti si intitolava "L'impresa responsabile", questo graffiante libro sul capitalismo deregolato dei nostri anni non poteva che ribaltare il precedente titolo. Perché per l'autore un'azienda diventa irresponsabile quando non risponde ad alcuna autorità pubblica o privata e soprattutto quando si afferma una concezione dell'impresa fondata sulla massimizzazione del suo valore in borsa, a qualunque costo e a breve termine. Dietro i principali scandali finanziari del nuovo secolo, non c'è infatti tanto la disonestà del singolo, quanto l'esito di un governo d'impresa che ha preso sempre più piede.
Il contributo più innovatore di Fernand Braudel ha dato agli studi storici è senza dubbio lo sforzo di capire e interpretare i fenomeni di lunga durata. In "Civiltà materiale, economia e capitalismo", lo studioso francese ha approfondito la sua visione della storia, quasi prendendo a pretesto le vicende di quattro secoli per analizzare nelle sue diversa complessità e contraddizioni il passato, collegarlo strettamente al presente e rileggerlo in chiave antropologica. In questo volume l'avventura dell'uomo è ricostruita attraverso il cibo che i diversi paesi offrono o che dal lavoro umano sono messi in grado di offrire, le bevande, i tipi di abitazione, l'abbigliamento, gli ausili diversi per dare alle società un fondamento materiale solido.
Alcuni sostengono che il capitalismo avrebbe imboccato una strada di autodistruzione di cui si può prevedere il necessario percorso e la sua inevitabile fine. Per Giorgio Ruffolo non è vero. Non c'era niente, nel passato del capitalismo, che fosse necessario e inevitabile. E non c'è niente di simile nel suo futuro. Perché le origini del capitalismo possono essere rintracciate ben prima della nostra epoca, prima dell'emersione del volto potente e inquietante dell'impresa contemporanea. Perché già l'antichità dell'Occidente, tra Grecia e Roma, conteneva in sé i segni di quella attrazione verso il denaro e verso la produzione di valore che costituisce l'essenza della produzione e dello scambio capitalistico. Il passato del capitalismo gode quindi una durata straordinariamente lunga, e questo spinge Ruffolo a guardare al futuro nella certezza che il capitalismo non avrà vita troppo breve. Perché esso ha dentro di sé la capacità di adattarsi ai tempi più diversi, l'elasticità necessaria a catturare l'immaginazione degli uomini di qualsiasi epoca, gli strumenti indispensabili per continuare a essere lo scenario economico del futuro.
I capitalisti affermati hanno paura della competizione, che mina il predominio delle imprese esistenti e le costringe a riguadagnarsi la propria posizione ogni giorno. I mercati finanziari sviluppati spaventano particolarmente, perché favoriscono e alimentano la concorrenza, equiparando i punti di partenza. L'Italia è un esempio da manuale della degenerazione del capitalismo in un sistema di élite, fatto dalle élite, e per le élite. E rappresenta, al tempo stesso, un caso emblematico del ruolo decisivo svolto dal sistema finanziario in questa degenerazione. Non è sorprendente che in Italia tutte le nuove opportunità di investimento, dai telefoni cellulari alle società di servizi pubblici neoprivatizzate, siano sempre sfruttate da pochi privilegiati. Sono gli unici con il denaro e i contatti per farlo. E non sorprende neppure che queste stesse persone si oppongano a uno sviluppo finanziario: andrebbe a intaccare proprio la fonte della loro rendita di posizione.