C'è un'età della vita in cui si può trovare una voce pura: una voce tra il silenzio e il tuono. Non c'è un altro modo per parlare di sé, forse, quando guardarsi indietro, e dentro, è lo stesso movimento. E tutto, proprio tutto - le gioie, i dolori, la scoperta dell'amore come quella della morte - è in noi con la stessa forza. Attraverso le lettere di un ragazzo che cresce e di un misterioso nonno, Roberto Vecchioni ha scritto il suo romanzo più intimo e struggente. Questo è un romanzo fatto di lettere, ma non è un romanzo epistolare come gli altri. Si alternano due voci: da una parte c'è lui, Roberto Vecchioni, che racconta a un fantomatico nonno alcuni degli episodi più significativi della sua vita. Li riporta in presa diretta, proprio mentre gli accadono, a dieci, quindici, trenta, ottant'anni. Infanzia, amicizie, studi, canzoni, dolori, amori. Sconfitte e vittorie. Il nonno, dal canto suo, non gli risponde mai: forse non ce n'è bisogno, forse conosce Roberto fin troppo bene. Le sue lettere sono indirizzate ad altri personaggi, veri o immaginari, e affrontano gli argomenti più disparati. Che si tratti di Schubert, di bizzarre teorie sugli ingorghi stradali o di scrittori russi che conosce soltanto lui, ne scrive sempre con la medesima, grandissima passione. E anche se le lettere di Roberto raccontano la storia di una vita - e insieme la storia di un corpo, che sente, ama, si ferisce, si ammala - e quelle del nonno sono puro pensiero, capita di rimanere spiazzati, perché ogni tanto parlano di qualcosa che sembra essere accaduto a entrambi. Di un palco illuminato, ad esempio, e di un uomo che chiede di essere chiamato amore. Ma, soprattutto, della morte di un figlio, e del dolore lacerante che non ti abbandona mai. Cinquantatre lettere, cinquantatre momenti sfolgoranti per catturare «l'ombra sfuggente della verità». In un tempo in cui il prima e il dopo possono confondersi, e persino, forse, illuminarsi a vicenda.
Un'esistenza sul confine tra la vita e la morte, tra battesimo ed estrema unzione. La nuda fede di una madre verso il battito del cuore del figlio. Un vecchio soldato, sopravvissuto alla guerra, insegna la forza del passo nella neve. Sullo sfondo i ricordi di una vita e la presenza incombente della fine. Una preghiera nel nome della vita che non vuole morire. Amen è il primo testo teatrale di Massimo Recalcati.
Un rapimento, svariati delitti e un assassino, forse mancino forse no. Saranno solo leggende e superstizioni ma, da quando è ricomparso il fantasma dello Zoppo, in Normandia le sciagure non si contano più. A sei anni da "Il morso della reclusa", torna Fred Vargas con uno dei personaggi capolavoro del noir, lo svagato e visionario Jean-Baptiste Adamsberg, commissario del XIII arrondissement di Parigi. Il guardacaccia Gaël Leuven era un marcantonio solido come uno scoglio bretone, ma per ucciderlo sono bastate due coltellate al torace. A Louviec lo conoscevano tutti. Compreso Josselin de Chateaubriand (forse discendente di quel Chateaubriand), il nobilastro dall'abbigliamento eccentrico che adesso è il principale sospettato. Richiamato in Normandia dal commissario locale, Adamsberg si addentra nelle numerose ramificazioni del caso. Ma pur perdendosi come di consueto in false piste e digressioni mentali, in osservazioni prive di qualunque nesso con l'indagine, c'è da scommettere che anche questa volta verrà a capo del groviglio di omicidi ed efferatezze. Grazie alle sue illuminazioni proverbiali ma anche, forse, all'energia ancestrale dei menhir.
Arrivato alla soglia dei novant'anni, dopo aver affascinato i suoi lettori con i segreti della Storia, della musica e della religione, Corrado Augias racconta l'avventura di una vita, la sua. E con grande talento di narratore, evoca l'infanzia in Libia, il ritorno a Roma, l'incubo dell'occupazione tedesca, il collegio cattolico, i primi passi nel giornalismo, e poi «Telefono giallo» e «la Repubblica». È un racconto che ha il calore e l'empatia della conversazione tra amici: la vita s'impara, ci dice Augias - soprattutto se non si perdono mai la curiosità intellettuale e la passione civile. A quasi novant'anni, Corrado Augias è un prezioso testimone del cambiamento. L'Italia di oggi - esclusi gli eterni vizi nazionali - assomiglia poco a quella di ieri. Augias ci racconta l'infanzia passata in Libia al seguito del padre ufficiale della Regia Aeronautica; la guerra e i bombardamenti; l'incubo di una feroce e lugubre occupazione; gli anni in un collegio cattolico, per lui che oggi si confessa ateo. E poi la vita professionale, il giornalismo, i libri, le fortunate circostanze che lo hanno reso partecipe di tre eventi importanti nella vita culturale del paese: la nascita della Direzione centrale programmi culturali della Rai; la fondazione del giornale «la Repubblica» nel 1976, il rilancio di RaiTre nel 1987. L'invenzione di alcuni fortunati programmi televisivi da «Telefono giallo» a «Babele», da «Città segrete» alla più recente creatura «La gioia della musica», ultimo programma ideato per la Rai prima del passaggio a La7 ancora una volta con un fortunato programma di cultura: «La Torre di Babele». Accadimenti che sono però solo la parte pubblica di un percorso che ha una componente intima ancora più interessante: il lungo apprendistato a una matura dimensione d'intellettuale. Agli eventi che hanno scandito la sua vita, Augias affianca le letture di cui s'è nutrito e dalle quali ha «imparato a vivere». Da Tito Lucrezio Caro a Renan, da Feuerbach a Freud e poi Spinoza, Manzoni, Beethoven, Nietzsche, Leopardi, i suoi maestri sono pensatori, poeti, narratori, musicisti: una costellazione ampia che non esita a chiamare il suo pantheon, figure che hanno arricchito il suo percorso professionale e, insieme, la sua consapevolezza di cittadino.
Affascinante senza essere manipolatoria, rigorosa ma mai dogmatica, elegante seppure austera, irriducibilmente anticonvenzionale, eternamente sfuggente: così è Elizabeth Finch, docente del corso di «Cultura e civiltà» al college. Il suo carisma e la forza delle sue idee sono destinati a segnare per sempre il modo di pensare dei suoi studenti. O almeno di uno di essi. Questa è la storia che lui ci racconta. Ma, come direbbe Elizabeth Finch, «travisare la propria storia è parte dell'essere una persona». Il «Re dei Progetti Incompiuti», secondo la definizione della figlia adolescente, Neil si porta appresso un bagaglio di insuccessi lungo una vita: un'ambizione attoriale frustrata, due matrimoni falliti. Ma a quella prima lezione del corso di «Cultura e civiltà», tanti anni prima, il giorno in cui fece la conoscenza della docente Elizabeth Finch, Neil ebbe la sensazione di essere arrivato, per una volta, nel posto giusto. Sobria nell'abbigliamento, esatta nel dire e cristallina nel pensare, fumatrice incallita e insofferente del comune sentire, Elizabeth Finch - EF per la classe - incuneò fin da subito il grimaldello del libero pensiero nelle quiete coscienze dei suoi studenti, mai trattati come «oche all'ingrasso» da infarcire di nozioni, ma coinvolti in un continuo processo socratico di collaborazione, spesso caustico ma mai sprezzante, e fatalmente fertilizzato dall'elisir del carisma. Impossibile, per i discenti, non perdersi in congetture sulla sua inespugnabile vita privata e non restare colpiti dalle sue idee sulla Creazione: «Il mondo è male organizzato, perché Dio l'ha creato da solo. Avrebbe dovuto consultare qualche amico: uno il primo giorno, un altro il quinto, un altro il settimo, allora sì che sarebbe stato perfetto», sull'amore: «Esiste una parola più mistificante, abusata, fraintesa, più estensibile a livello di significati e di propositi, più contaminata dagli sputacchi di miliardi di lingue bugiarde, della parola "amore"? E c'è qualcosa di più scontato che lamentarsi di tutto questo?», sul pensiero unico: «Monoteismo. Monomania. Monogamia. Monotonia. Niente di buono inizia con questo prefisso», o su ogni altra area del sapere e del sentire, antico e moderno. Odiarla o amarla, non c'è alternativa. Neil rientra da subito nella seconda categoria, e vi rimane per decenni dopo la fine del corso, sposando il suo metodo critico e infine facendosi carico del suo progetto incompiuto: quello sulla figura di Flavius Claudius Julianus, ovvero Giuliano l'Apostata, l'ultimo imperatore romano non cristiano, la cui sconfitta in battaglia determinò l'instaurarsi a Roma del monoteismo ai danni di tutte le altre religioni e dunque, a detta di EF, la chiusura della mentalità europea e la fine della gioia. Neil ha ormai i capelli grigi quando si addentra nelle carte della sua antica maestra e forse amica, in cerca di verità mai svelate. Eppure Elizabeth Finch l'aveva avvertito fin dall'inizio: «Artificio, rigore, verità. Artificio non come opposto della verità ma spesso come sua manifestazione, ciò che lo rende irresistibile».
Si possono inventare dei legami famigliari seguendo l'istinto, il desiderio e l'immaginazione? Si può davvero aiutare qualcuno? Ma soprattutto: si può salvare chi non vuole essere salvato? "Molto molto tanto bene" è una storia vera: la storia di una famiglia nata in mare, vitalissima e sgrammaticata come il titolo di questo libro. A bordo delle navi Ong, Caterina scopre che il Mediterraneo ti sorprende sempre. È proprio durante un salvataggio al largo che compare Amy, una bambina di cinque anni: sorride, e porta un cappellino di strass che luccica sotto al faro di pattugliamento. È l'inizio di un amore impetuoso e accidentato. Del resto è sempre così difficile sapere qual è il nostro bene, figuriamoci quello degli altri. C'è chi parte sulla scia dell'entusiasmo, chi decide di tornare per puro amore della vita, ma a spingerti su una nave Ong - una volta dopo l'altra - è soprattutto l'ostinazione. Caterina ormai conosce l'Endurance come casa sua, ogni corridoio, ogni boccaporto. Ha imparato i gesti per issare i naufraghi sul Rhib, a prendersi cura di loro quando dormono sul ponte, in salvo, distesi sui cartoni. Quel che Caterina non sa è che oggi, su quella nave, sta per comparire un futuro possibile. Succede in mezzo al Mediterraneo, a trenta miglia a nord di Zawiya. Il mare è mosso, lei è pronta: ha il casco, il salvagente a gas, i pantaloni impermeabili, gli stivali di gomma, i guanti. Il vento è forte e copre ogni voce. E all'improvviso appare Amy, una bambina di cinque anni. Durante il salvataggio sorride tranquilla, come una diva che sale su un motoscafo nella laguna di Venezia. Porta un cappellino di strass che luccica sotto al faro di pattugliamento. Inizia così un tentativo un po' pazzo e visionario di comprendere l'altro: Caterina lo affronterà con passione e testardaggine. Ma nella vita non si può prevedere tutto, o meglio quasi niente. Forse perché gli amori nati in mare, nell'emergenza, sono più movimentati e imprevedibili di quelli che poggiano sulla terraferma. Molto molto tanto intensi, molto molto tanto feroci. «E ripete a raffica la sua parola italiana preferita: baci. Si appoggia le mani sulla bocca, picchiettando le labbra con le dita: baci, baci, baci. Spesso la saluto con un Ti voglio molto bene o Ti voglio tanto bene, e Amy fa due conti. Per aggiungere quantità, basta usare tutti gli aggettivi insieme».
«Nel corso della mia vita ho fatto di tutto, proprio di tutto, per smania di racconto». Sulla spiaggia di un ottobre caldissimo c'è un vecchio signore che legge, scrive, passeggia. Una mattina qualcosa gli leva il respiro, gli sfugge. Cosa se ne sta andando per sempre? Muove da questo istante di smarrimento un racconto vorticoso e raffinatissimo, teso e scanzonato, che insegue Rosa, ombra di madre sarta, morta troppo presto, e Lu, giovane commessa di boutique che, nel tempo libero, coltiva la passione per la canoa. Un libro sulla perdita del proprio mondo, sulla vecchiaia, sull'amore per le donne, sul prodigio e lo smacco della scrittura. Gli ultimi sessant'anni di Nicola sono stati una corsa. Ha amato, ha promesso molto e dato molto meno, inseguendo un'idea tutta sua di felicità svagata. Ora ha ottantadue anni, e da tredici giorni ha preso in affitto una casa al mare tra le dune. Ogni mattina va a sedersi in spiaggia, in camiciola e calzoncini, quaderno e matita in mano, e osserva una ragazza pagaiare con eleganza tra le onde. Lu ha vent'anni e quando non va in canoa fa la commessa nella boutique di Evelina. A Nico fa venire in mente sua madre, anche se non le somiglia, come del resto nessuna delle donne della sua vita. Una madre morta troppo presto, reinventata dalla memoria e dalla fantasia, una madre che si faceva bella come un'attrice anche solo per uscire a fare la spesa, che cuciva abiti per le sue clienti, ma soprattutto per sé, quasi una disobbedienza, una fantasia peccaminosa, contro la gelosia furibonda del marito. Per questo gli abiti femminili per Nicola sono tuttora una festa, il segno di una passione ancora viva per le donne. Così nella boutique di Evelina assiste incantato, sedotto, al susseguirsi di blazer e caban, taffettà e seta damascata, che le amiche di Evelina prima e Lu poi si scambiano entrando e uscendo dai camerini. In una cittadina ventosa in cui sembra non accadere nulla, Nicola prova a districare le matasse di un variegato catalogo umano fatto di dispetti e pettegolezzi. E allora forse comprarsi un kayak, alla sua età, e andare a caccia di piovre giganti insieme al piccolo figlio di Lu diventa il modo per imbastire la trama di un'infanzia ancora tutta da scrivere, nell'inesausto tentativo di «trovare le parole giuste per dare un senso a ciò che mentre vivi viene giù a vanvera». "Il vecchio al mare" ha la malinconia di certi orizzonti meravigliosamente lontani visti la sera da terrazze piene di salsedine, e di quegli incontri casuali, un mattino d'ottobre sul bagnasciuga, che a distanza di tempo ricordiamo con gratitudine. Il nuovo romanzo di Domenico Starnone è un perfetto congegno di erotismo, crudeltà, sottigliezza.
«Non so dire se avessi deciso già quella mattina, al momento di andare in tribunale, che sarei rimasto in aula ad aspettare la sentenza. Forse sì o forse no. Mi sedetti sulla sedia del pubblico ministero, su quella di un giudice popolare, su quella del presidente, poi entrai nella gabbia degli imputati. Per vedere il mondo attraverso le sbarre». Una donna ha ucciso a colpi di pistola l'ex compagno della sorella. Legittima difesa o omicidio premeditato? La Corte è riunita in Camera di Consiglio. In attesa della sentenza l'avvocato Guerrieri ripercorre le dolorose vicende personali che lo hanno investito nell'ultimo anno. E si interroga sul tempo trascorso, sul senso della sua professione, sull'idea stessa di giustizia. Il ritorno di Guido Guerrieri in un romanzo poderoso e commovente. Un'avventura processuale enigmatica, dal ritmo impareggiabile, che si intreccia a un'affilata meditazione sulla perdita e sul rimpianto, sulle inattese sincronie della vita e sulla ricerca della felicità.
L'unica lezione che ho imparato, o comunque l'unica che ricordo, sei tu. Emma Donoghue ci consegna un romanzo coraggioso e intenso, una storia d'amore di lancinante bellezza. York, 1805. Raine ha quattordici anni e Lister quindici, quando si conoscono alla Manor School. In quella scuola che prepara le ragazze prima di tutto a un buon matrimonio, entrambe sono considerate diverse dalle altre. Raine, figlia di un funzionario della Compagnia delle Indie e di una donna di Madras, non è bianca. Lister, «dritta come un ufficiale», è così ribelle da arrivare all'insolenza. Relegate nella Soffitta, lontane dalle altre allieve, Lister e Raine costruiscono un mondo tutto per loro e un sodalizio tenace ed esplosivo. Una intesa che delicatamente diventa tumultuosa storia d'amore. Qualcosa di pericoloso, proibito, inaccettabile nell'Inghilterra di inizio Ottocento ma che segnerà la vita di entrambe per sempre. «Quando descrive situazioni di isolamento, Donoghue riesce a portare la tensione a livelli impressionanti» (Margaret Atwood).
Di che colore è la vaghezza? E qual è la differenza tra il grigio sopra le nubi e il grigio lama smussata? Quanto è buio il nero cecità? L'indaco di montagna, il marrone vento d'inverno, il bianco cielo con luna: tutto in Giappone ha un suo colore, perché col colore si può dire ogni cosa. Laura Imai Messina racconta il Giappone in un modo unico ed emozionante: attraverso i suoi colori. In un caleidoscopio di storie, leggende, tradizioni, e con le splendide illustrazioni di Barbara Baldi, "Il Giappone a colori" ha la forza gentile e dirompente dei viaggi che ci cambiano lo sguardo. «Cade la pioggia, sulla riva rocciosa di Jogashima / cade una pioggia color Rikyu», scrive il poeta Hakushu Kitahara: ma Sen no Rikyu è un antico maestro della cerimonia del tè vissuto molti secoli prima, come può una persona indicare una precisa sfumatura del grigio? E perché a un certo punto alcuni colori divennero «colori proibiti» appannaggio esclusivo della corte imperiale e come reagì la popolazione a quel «furto»? O ancora: quante sfumature di un sentimento si possono comunicare attraverso la semplice scelta del colore della carta di un messaggio d'amore? Fra i tanti segreti che il Giappone tuttora conserva allo sguardo occidentale, c'è il suo straordinario rapporto con i colori. Color piume bagnate di corvo, color piume nere di gru, campo arido, cielo illuminato dalla luna, lama smussata: i nomi dei colori tradizionali del Giappone sono già un assaggio di poesia. Ma quando scopriamo le storie, le tradizioni o le leggende che si nascondono dietro questi nomi, la meraviglia si moltiplica. Ognuno di essi (a cominciare dai fondamentali: grigio, bianco e nero) si porta dietro una storia che è parte della Storia del paese, della sua letteratura e della sua arte. Una ricchezza che arriva fino al presente. Quando poi a raccontare questo universo di infinita varietà è la penna di una scrittrice come Laura Imai Messina, i colori del Giappone riescono a illuminare angoli bui del cuore di ognuno con imprevedibili risonanze. Unendo la sua competenza di studiosa (e la conoscenza di prima mano della cultura giapponese) con le sue doti di narratrice, Laura Imai Messina scrive un libro unico e prezioso, un invito al viaggio e all'immaginazione, un romanzo epico i cui protagonisti sono i colori.
1939. L'Italia si prepara a vivere l'ultimo Natale di pace, ma un omicidio squassa il ventre della città. Quanta solitudine che c'è. In Europa la guerra è cominciata, eppure da noi qualcuno si illude ancora che sia possibile tenerla fuori della porta. E poi sta arrivando la più bella delle feste, quella dove si mangia, si beve, ci si abbraccia, quella in cui ci si scambiano doni con le persone care; non bisogna avere pensieri tristi. La solitudine, però, la solitudine vera, è difficile da scacciare. Puoi essere solo perfino se stai in mezzo alla gente, se hai una famiglia, degli amici. Soprattutto puoi essere solo se decidono che sei diverso, magari perché non sai parlare, o perché ami persone del tuo stesso sesso. O perché, dicono, sei di un'altra razza. Anche Erminia Cascetta era diversa, a modo suo. Aveva troppa voglia di vivere, perciò l'hanno uccisa. In questo tempo che accelera verso l'abisso, spetta al commissario Ricciardi e al brigadiere Maione scoprire chi è stato. La chiave di tutto, però, è sempre la solitudine. Che, a volte nemmeno lo sappiamo, ci siede accanto. «Potessi parlarti, ti parlerei della solitudine del cuore. E della condanna che hai comminato, senza nessuna pietà, e senza avere idea di quello che stavi facendo. Potessi parlarti, ti direi che alla fine la colpa è tua. Ma non posso parlarti, giusto? No, non posso. Perché sei morta».
Una fattoria nella campagna irlandese, una bambina silenziosa, un padre e una madre non suoi. Claire Keegan tratteggia un lessico sentimentale dell'accoglienza e dell'amore genitoriale, in un racconto di sommessa e struggente bellezza. «Può bastare anche solo un'estate per imparare a essere amati. Ce lo racconta con ineffabile grazia la piccola protagonista di questo racconto perfetto» (Viola Ardone). «Per raccontare un mondo nuovo, un'esperienza mai vissuta, servono parole nuove, quelle che Claire Keegan trova dentro un vocabolario di cose, reali come l'amore» (Maria Grazia Calandrone). «L'estate non è mai un tempo qualsiasi. Ma c'è un'estate che può essere più preziosa delle altre, che può portare in sé l'abbacinante luce della crescita. La luce con cui è scritto questo romanzo» (Valeria Parrella). «Poi attraversiamo il tepore della cucina e lei mi dice di sedermi, di fare come se fossi a casa mia. Sotto il profumo di qualcosa che cuoce nel forno c'è una punta di disinfettante, candeggina forse. Toglie dal forno una crostata di rabarbaro e la mette a raffreddare sul piano della cucina: sciroppo bollente sul punto di traboccare, foglie sottili di pastafrolla saldate alla crosta. Dalla porta entra una corrente fresca ma qui è caldo, immobile, pulito».