Firenze, marzo 1970. Al commissario Bordelli manca poco più di una settimana alla pensione, e ancora non riesce a immaginare come si sentirà. Si augura che in questi giorni non avvengano altri omicidi: non vuole rischiare di lasciarsi alle spalle un mistero non risolto, ma il destino gli ha riservato una spiacevole sorpresa, e si trova ad affrontare il suo caso forse più difficile. Lungo il greto di un fiumiciattolo del Chianti, in località Passo dei Pecorai, proprio a pochi chilometri da casa sua, viene scoperto il cadavere di una ragazza. Nessuna denuncia di scomparsa, nessun documento d'identità, nessun testimone, nulla di nulla. Si avvicina il due di aprile, il suo sessantesimo compleanno, dunque il suo ultimo giorno di lavoro, e il commissario comincia a temere che quel delitto, dietro il quale sembra nascondersi qualcosa di disgustoso, resti impunito. Il tempo passa, e non emerge niente che aiuti l'indagine. Bordelli è sempre più amareggiato, non può sopportare che i colpevoli restino in libertà, e nonostante tutto giura a se stesso di trovarli...
«Non c'è un problema che un farmaco non curi, mamma lo dice sempre. A casa nostra non si parla, si prendono medicine. Così lei mi dà il Dulcolax ogni sera perché sono una bambina grassa. Due compresse, quattro, otto. E io non so che legame ci sia tra il Dulcolax e una bambina grassa, visto che non dimagrisco...». C'è un peso che non si può perdere, anche quando l'hai perso tutto. Matilde lo sa: la mamma, bulimica, passa le giornate a vomitare; lei ha cominciato a ingrassare quando aveva sei anni ed è affamata da una vita. A scuola elemosina biscotti, a casa ruba il pane, e intanto sogna che le taglino la mano. Ottanta chili a sedici anni, a diciotto quarantotto; Matilde va in America a studiare, splende, ma la fame e la paura le vengono dietro. Finché, dopo la morte della madre, il tracollo finanziario del padre e una relazione violenta, supera i centotrenta chili. E quando esce, c'è sempre qualcuno che la guarda con disprezzo. Allora Matilde si chiude in casa per tre anni, e sui social si finge normale. Ma che vuol dire normale? Un romanzo tra due lingue e due culture, tra gli anni Settanta e oggi. Un libro vorticoso tra perfezionismo, autolesionismo, menzogna e dipendenze.
«Era più giusto dire tragico incidente, come volevano alcuni, o crimine, come volevano altri? Che ognuno decida secondo la propria coscienza. Le parole non tireranno il morto fuori dalla tomba.» Sono le vittime, i caduti di una guerra strisciante che ha segnato la vita dei Paesi Baschi fin nelle pieghe più intime della quotidianità, i protagonisti delle storie di Fernando Aramburu, storie che colpiscono e commuovono per la verità del narrare e per la «normalità» delle situazioni che ritraggono. La molteplicità e l'originalità delle voci, la varietà dei personaggi e delle loro esperienze compongono, come in un romanzo corale, un quadro indimenticabile. Una ragazza che dopo sei mesi esce dall'ospedale invalida, vittima casuale di una bomba piazzata davanti a una banca, e il dolore silenzioso e impotente di suo padre; una donna che cerca in tutti i modi di resistere alle pressioni della comunità che vorrebbe espellerla, perché le hanno assassinato il marito e la sua presenza è diventata per tutti motivo di disagio; un vecchio accusato di collaborazionismo che vive in una condizione di insopportabile angoscia; la visita di una madre al figlio detenuto in un carcere di massima sicurezza, e la loro difficoltà di capirsi fino in fondo.
Cosa c'è di divino nell'essere giovane madre di un figlio arrivato per grazia o per caso? Ci si augura per lui una vita buona: che non incontri il male, che il mondo lo accolga o almeno lo lasci in pace. È la storia umanissima di Maria, madre di Dio bambino, la stessa di ogni madre per cui il proprio bambino è Dio, vita che si consegna fragilissima e si promette eterna. Ma il figlio di Maria è troppo speciale perché la storia sia solo questa e infatti sarà altra, raccontata per generazioni in poesia, in pittura, in musica, nel vetro, nel ghiaccio immacolato, a punto croce, sulle volte delle cattedrali e sui selciati delle piazze. Qui parla Maria. Accanto a lei Giuseppe, padre che ha detto sì senza comprendere, senza nemmeno pronunciare questo sì, costruttore di un progetto di vita e di amore ben più grande di quello immaginato. Intorno a lei uomini e donne che pensano di capire, ma sanno solo chiacchierare; e gli amici del figlio, Giovanni, Simone, Giuda e anche Nicodemo, che si affannano di domande nella notte; e dottori e farisei che chiedono la verità solo per poterla negare. Sopra di lei, infine, gli angeli fanno corona, ma con le loro ali non riescono a tenere lontano il gran male del mondo, che si addensa fino a quando qualcuno griderà: «A morte». Ciò che resta è un corpo rotto senza grazia, consegnato a una madre ancora giovane, anche nel momento estremo così simile a tante madri. Ma questa è una storia troppo immensa perché tutto possa andare perduto.
"Non riesco a sopportare quelli che non prendono seriamente il cibo", diceva Oscar Wilde. Oggi è diventato una delle principali occupazioni, ossessioni, manie; la cucina insieme all'ordalia igienista di ciò che fa bene o fa male sono le ronzanti colonne sonore delle nostre giornate. Prendere sul serio il cibo, però, è altra questione. Di certo, senza tanto proporselo, lo fanno Elena, la donna che si racconta in questo libro, e Daniela, la massaggiatrice alla quale si rivolge per impegnarsi a fondo in una dieta dimagrante e rimodellare il proprio corpo. Perché quello che condividono durante le loro sedute è qualcosa di profondo. A ogni piatto che nominano, a ogni ricetta o tradizione rievocata, riaffiorano un ricordo, un'amicizia, un amore, un rito di famiglia, una ferita. Le creme di piselli e i krapfen delle feste di Ulrike, anoressica per desiderio di perfezione, nella Monaco dell'infanzia e dell'adolescenza di Elena; i praghesi gnocchi di pane alla prugna di Ruzena, obesa per allontanare l'incubo dei carri armati sovietici e il dolore dell'esilio; i gattò di Teresa, che rivendica cucinando la sua identità; i pranzi domenicali della nonna veneta e contadina di Daniela; fino alle aringhe salate che risvegliano in Elena la memoria dei kiddush del sabato nella sua famiglia ebraica, e soprattutto del padre scomparso troppo presto. Alla fine di un romanzo che mescola e unisce, come fa il cibo, individui e culture, Helena Janeczek si riserva ancora lo spazio di una riflessione su una tragedia dei nostri anni, il crollo delle Twin Towers, attraverso le storie dei cuochi che nelle torri lavoravano.
Un libro particolare, un romanzo nutrito di autobiografia, che diventa anche biografia di una generazione. Una narrazione composita, fatta di brani di esistenza, ricordi, che ci portano gradualmente al cuore nero della storia, Auschwitz. «Lezioni di tenebra» racconta il rapporto tra la giovane autrice e la madre, l'unica di due famiglie numerose a essere sopravvissuta all'Olocausto, insieme al padre. Ebrei polacchi, vissuti in Germania, dove la figlia Helena è cresciuta sentendosi completamente estranea al mondo tedesco e alla sua cultura, pur usandone la lingua anche nel suo esordio in poesia. Romanzo sull'eterno tema dell'amore difficile tra madre e figlia, che non è soltanto una memoria sull'Olocausto, ma un resoconto lucido, appassionato e distaccato al tempo stesso, che punta soprattutto a misurare l'intensità del contraccolpo che quella tragedia ha lasciato nella generazione successiva. E il contraccolpo sta nell'impossibilità di avere radici, nella confusione linguistica, nel disperato bisogno di appartenere e nella crudele condanna a sentirsi estranei, comunque e dovunque. Sta nello stupore di fronte al destino, al male, alla sorte: «Paghi per ogni errore, anche il più piccolo, sempre e comunque... Ma che cosa sia un errore non lo sai. A questo non devi mai pensare».
Un uomo alle prese con i dentisti, un altro con i mutui bancari, entrambi esasperati e alla fine beffati. Un inquietante vicino di casa. Una imprevedibile trappola per ubriachi. L'intensa lettera alla figlia di un padre che ha speso la vita nei Servizi Segreti. Una bambina vittima di un padre orco. Due ragazzi che si avventurano di notte nei segreti di una biblioteca. Il lato buio di una vita normale... E tanti uomini e donne ancora, di questo e dell'altro mondo, tutti abitanti di un pianeta popolato di personaggi affascinanti, comici, drammatici, misteriosi, violenti o dolorosamente inermi, tutti a loro modo ribelli. Storie e destini che chiedono di essere ascoltati.
Txiki ha otto anni quando per motivi economici la mamma lo manda a vivere dagli zii a San Sebastián. Lo accoglie di malavoglia il cugino Julen, taciturno e scontroso, che però in breve tempo gli si affeziona e, nelle loro chiacchierate notturne, cerca di appassionarlo alle idee indipendentiste che gli inculca il parroco del quartiere. L'occhio ingenuo del protagonista bambino fotografa le vicende della famiglia di adozione, dove lo zio Vicente, mite e debole, divide la sua vita tra la fabbrica e il bar, mentre l'autoritaria zia Maripuy, quella che realmente comanda in casa, non fa che litigare con la figlia Mari Nieves, ossessionata dagli uomini, che finirà per rimanere incinta di non si sa bene chi. Intanto Julen viene spinto ad arruolarsi in una banda dell'ETA, scelta destinata a generare sofferenza e di cui solo col tempo capirà davvero la portata.
Roma 63 a.C. Catilina sta preparando la sua congiura. Cicerone, che è console, la sta scoprendo, grazie a una spia. Cesare diventa Pontefice Massimo. Crasso, che è già ricco, si arricchisce ancora di più. I due si alleano, unendo abilità politica e denaro. Contemporaneamente, a Gerusalemme, Pompeo il Grande sconfigge i Giudei ed entra, primo Romano a farlo, nel Sancta Sanctorum del Tempio. Accanto a questi personaggi celebri, che si incontrano nelle loro case e tessono le loro trame con dialoghi spregiudicati, assai diversi dalle tesi sostenute nell'ufficialità, c'è il popolo che si raduna nelle osterie e nelle botteghe di barbiere. Qui commenta i fatti degli uomini illustri in modo adeguato, cioè con un controcanto demistifcante, degno di un coro pettegolo e malevolo, ma spesso veritiero.
La nascita della Repubblica milanese e del gran numero di Comuni lombardi che si costituirono dopo l'anno Mille è uno dei più importanti fenomeni di emancipazione civile ed economica dell'età medievale. Decisive sono state le loro battaglie contro Federico Barbarossa, feroce nemico della loro autonomia e dei loro ideali sociali e religiosi. Ed è proprio sul Barbarossa che Dario Fo punta il suo occhio critico e irriverente per portare alla luce, in questo romanzo inedito, un episodio esemplare, la singolarissima fondazione della città di Alessandria e la lotta che ha aperto la strada a un nuovo corso della storia d'Europa. Cancellando la cronaca ufficiale, forse troppo attenta a non gettare il ridicolo sul sovrano, l'autore fa spuntare dagli archivi un'altra verità e ricostruisce la vicenda di una «fantastica Alessandria galleggiante», capace di resistere per mesi all'esercito più potente del mondo occidentale, e di un imperatore con la tragicomica ossessione dell'acqua: una vicenda in cui l'ordinaria triste ingiustizia viene ribaltata e il tiranno, per una volta, sconfitto.
Cosa c'è di divino nell'essere giovane madre di un figlio arrivato per grazia o per caso? Ci si augura per lui una vita buona: che non incontri il male, che il mondo lo accolga o almeno lo lasci in pace. È la storia umanissima di Maria, madre di Dio bambino, la stessa di ogni madre per cui il proprio bambino è Dio, vita che si consegna fragilissima e si promette eterna. Ma il figlio di Maria è troppo speciale perché la storia sia solo questa e infatti sarà altra, raccontata per generazioni in poesia, in pittura, in musica, nel vetro, nel ghiaccio immacolato, a punto croce, sulle volte delle cattedrali e sui selciati delle piazze. Qui parla Maria. Accanto a lei Giuseppe, padre che ha detto sì senza comprendere, senza nemmeno pronunciare questo sì, costruttore di un progetto di vita e di amore ben più grande di quello immaginato. Intorno a lei uomini e donne che pensano di capire, ma sanno solo chiacchierare; e gli amici del figlio, Giovanni, Simone, Giuda e anche Nicodemo, che si affannano di domande nella notte; e dottori e farisei che chiedono la verità solo per poterla negare. Sopra di lei, infine, gli angeli fanno corona, ma con le loro ali non riescono a tenere lontano il gran male del mondo, che si addensa fino a quando qualcuno griderà: «A morte». Ciò che resta è un corpo rotto senza grazia, consegnato a una madre ancora giovane, anche nel momento estremo così simile a tante madri. Ma questa è una storia troppo immensa perché tutto possa andare perduto.
Il 1° agosto 1937 una sfilata piena di bandiere rosse attraversa Parigi. È il corteo funebre per Gerda Taro, la prima fotografa caduta su un campo di battaglia. Proprio quel giorno avrebbe compiuto ventisette anni. Robert Capa, in prima fila, è distrutto: erano stati felici insieme, lui le aveva insegnato a usare la Leica e poi erano partiti tutti e due per la Guerra di Spagna. Nella folla seguono altri che sono legati a Gerda da molto prima che diventasse la ragazza di Capa: Ruth Cerf, l'amica di Lipsia, con cui ha vissuto i tempi più duri a Parigi dopo la fuga dalla Germania; Willy Chardack, che si è accontentato del ruolo di cavalier servente da quando l'irresistibile ragazza gli ha preferito Georg Kuritzkes, impegnato a combattere nelle Brigate Internazionali. Per tutti Gerda rimarrà una presenza più forte e viva della celebrata eroina antifascista: Gerda li ha spesso delusi e feriti, ma la sua gioia di vivere, la sua sete di libertà sono scintille capaci di riaccendersi anche a distanza di decenni. Basta una telefonata intercontinentale tra Willy e Georg, che si sentono per tutt'altro motivo, a dare l'avvio a un romanzo caleidoscopico, costruito sulle fonti originali, del quale Gerda è il cuore pulsante. È il suo battito a tenere insieme un flusso che allaccia epoche e luoghi lontani, restituendo vita alle istantanee di questi ragazzi degli anni Trenta alle prese con la crisi economica, l'ascesa del nazismo, l'ostilità verso i rifugiati che in Francia colpiva soprattutto chi era ebreo e di sinistra, come loro. Ma per chi l'ha amata, quella giovinezza resta il tempo in cui, finché Gerda è vissuta, tutto sembrava ancora possibile.