La parabola di un uomo dall'adolescenza alla maturità, sullo sfondo delle trasformazioni di una terra di confine. Il protagonista, cresciuto nella lontana Bucovina, crogiolo di popoli e razze diverse, sperimenta sulla propria pelle la dissoluzione della Felix Austria. Austriaci, tedeschi, slavi, turchi, armeni, ebrei da cittadini di un impero si trovano a essere popoli diversi con crescenti aspirazioni indipendentistiche. Le sue vicende personali lo costringono a interrogarsi sui temi dell'identità, della trasformazione dell'Io, tipici della letteratura mitteleuropea.
Considerato uno dei maestri indiscussi della letteratura in lingua tedesca, Peter Handke ha celebrato una sorta di giubileo professionale: più di cinquant'anni dedicati alla scrittura e, inevitabilmente, alla lettura
«La prosa di Handke mette costantemente e magnificamente alla prova le nostre convinzioni sulla natura di arte e realtà.» - The New York Times Book Review
Peter Handke, uno dei più importanti intellettuali e scrittori contemporanei, si mette a nudo in pagine vibranti, in cui alle opere si intrecciano i giorni, e viceversa, perché scrivere e leggere sono per lui tutt'uno con vivere. Questo libro ci fa conoscere non solo uno scrittore e un lettore ma anche un flâneur parigino e giramondo in viaggio per l'Alaska, un cinefilo che adora i western, un intellettuale che prende posizioni politiche a volte anche scomode e scandalose, e ne dà conto, aiutando a far chiarezza su episodi spinosi, come la sua partecipazione al funerale di Milosevi?. Libri, letture, passioni, episodi di vita vissuta ma soprattutto una straordinaria fenomenologia dell'esperienza del leggere, che significa per Handke "ascoltare, origliare, sussurrare, rallentare il passo, studiare, imparare, mettersi in viaggio"...
Nel 1936, il quarantunenne Ernst Jünger si imbarca sul Monte Rosa, storico piroscafo che collegava Amburgo al Sud America, e approda in Brasile. Il suo resoconto delle otto settimane di viaggio, pubblicato solo dopo la guerra, seduce pagina dopo pagina: per le preziose descrizioni di paesaggi esotici e di piante incontrate finalmente nel loro habitat naturale, come accade alle Azzorre, e poi di pesci volanti, serpenti velenosi, cacce agli insetti... La flora e la fauna delle foreste tropicali catturano il suo sguardo più di ogni altra cosa, ma non mancano le annotazioni sulla vita di bordo, che dà spunto a ritratti di personaggi singolari, né le osservazioni sugli abitanti del posto, con il loro lavoro e la loro stratificazione sociale, e sull'impronta lasciata dalla vecchia Europa nel nuovo mondo; la curiosità per i prodigi della meccanica, poi, spinge Jünger fin dentro il ventre del piroscafo, dove lavorano nell'aria rovente i grandi motori diesel. Non una parola sulle minacce di guerra che ormai si colgono in quegli anni, ma l'atmosfera serena e a tratti perfino felice che si respira in queste pagine è turbata verso la fine del viaggio dalle fiamme che, preludio di catastrofi, «già guizzano all'orizzonte». Questo diario è arricchito delle lettere confidenziali, aneddotiche, a tratti divertenti, che l'autore scrisse al fratello Friedrich Georg durante la traversata.
Goethe diceva che gli studi di scienze naturali gli erano serviti per comprendere la propria interiorità attraverso l'analisi delle parti fondamentali dell'essere della natura. I testi contenuti in questo libro mostrano le relazioni strutturali esistenti tra il mondo dell'arte e della scienza in connessione alla dimensione esistenziale, autobiografica dello stesso Goethe. "La metamorfosi delle piante" esamina il problema generale del divenire della forma, mettendo in luce le condizioni in cui i fenomeni si manifestano nel gioco infinito della creatività della natura, che pur rinnovandosi conserva la sua unità. Questo saggio sulla metodologia della ricerca scientifica, sull'origine delle piante e di altri fenomeni biologici, sulla filosofia contemporanea, costituisce un esempio significativo della critica goethiana all'idea di scienza formulata da Newton ed esprimono sinteticamente la visione filosofica di Goethe nella sua complessa formazione di derivazione mistica e alchemica, che si serve del pensiero di Spinoza, di Leibniz e di Kant. Il modello di scrittura proprio di questa saggistica scientifica, molto meno conosciuta della pagina poetica, evidenzia le analogie formali con l'insieme dell'opera letteraria, sottolineando come l'indagine del divenire delle forme nel mondo naturale, ben lungi dall'essere un vuoto esercizio di erudizione, consente anche di penetrare nelle grandi del mondo poetico di Goethe.
Vienna, inverno del 1945. Gli Alleati hanno occupato la città, piegata dai bombardamenti, ricoperta di neve e divisa in quattro settori. Nella cantina di un palazzo crollato sotto le bombe, vivono - o meglio sopravvivono - sei ragazzini scampati alla guerra, al nazismo e ai campi di concentramento. C'è Jid, virtuoso del borseggio; Goy, specialista del mercato nero; la quindicenne Ewa, prostituta occasionale, con la sua amica Ate, ex capo di una sezione della gioventù hitleriana; i più piccoli sono l'angelico Curls e una bambina malata. Insieme, nella cantina, affrontano un'esistenza di espedienti fino all'arrivo di un reverendo americano in uniforme da ufficiale, un nero della Louisiana, che distribuisce ai bambini qualche panino, un po' di compassione e degli opuscoli di poesie. Ma soprattutto li aiuta a difendere il loro rifugio dagli uomini del comitato di quartiere che vorrebbero sloggiarli. Ognuno dei ragazzini gli racconta la propria storia e il reverendo promette loro una vita nuova, diversa, forse un sogno...
In un sonnolento villaggio austriaco, un solitario studioso di scienze naturali decide di confessare la propria «infermità psicoaffettiva» e di «rovesciar fuori» la parte interiore di sé. Con questa intenzione si reca a casa dell’amico Moritz, un agente immobiliare abituato, per lavoro, al contatto quotidiano con gli altri. Nel vivo delle confidenze compare una coppia di clienti: lui è un costruttore svizzero, lei è persiana. Fin dal primo istante la donna affascina l’intellettuale, che scopre in lei una degna compagna di passeggiate, conversazioni e disquisizioni filosofiche.
A poco a poco attraverso la narrazione del loro incontro affiora un mondo di solitudini in cui l’atto esistenziale di maggior senso è quello della confessione. Non sempre, però, l’autosvelamento produce un beneficio. Lo scienziato ne trae vantaggio: l’incontro con la donna lo rende di nuovo «avido di vita» e lo allontana dall’idea accarezzata del suicidio. Alla persiana, invece, non accade la stessa cosa. In fondo al suo tentativo di confessarsi, infatti, c’è ben altra e più profonda solitudine, il cui senso è racchiuso nel suo estremo, definitivo sì.
Il manoscritto di "Soggiorni" fu il regalo che Martin Heidegger fece alla moglie per il suo settantesimo compleanno. Heidegger era partito nella primavera del 1962. A lungo frequentata attraverso le parole dei pensatori, il canto dei poeti antichi e i versi di Hölderlin, la Grecia diventava finalmente la meta di un viaggio reale. Lo stile di queste pagine è insolito per un pensatore di cui conosciamo la scrittura densa e pregnante, scevra di riferimenti alla biografia e alle vicende personali. Ma il suo è anche un viaggio "di pensiero", di ricerca, intrapreso sull'impulso di un interrogativo preciso, che ritorna costantemente formulato nelle parole dei tragediografi e dei poeti. E quella Grecia delle origini che inizialmente sembra negarsi, affondata, lontana, sfigurata dal progresso e dalla tecnica, alla fine si rivela, e giunge il momento in cui il viaggio si trasforma in un "soggiorno".
I tre romanzi brevi L’amico ritrovato, Un’anima non vile e Niente resurrezioni, per favore, nascono dalla tragedia di chi, disperatamente innamorato della Germania e della sua cultura, se ne vide nel 1933 improvvisamente allontanato in nome di una motivazione aberrante come quella razziale.
In L’amico ritrovato questa lacerazione coincide con la fine di una fortissima amicizia fiorita al liceo di Stoccarda tra due adolescenti: l’ebreo Hans Schwarz, figlio di ricchi borghesi, e il nobile Konradin von Hohenfels, per molti aspetti diversi, ma accomunati dall’amore per Goethe, Schiller, Hölderlin e la dolce campagna del Württemberg. Il nazismo travolge questo legame con la forza di un contagio che sembra colpire anche l’amico prediletto e condurlo al tradimento.
La smentita verrà solo trent’anni dopo, imprevista e commovente, dalle righe di un vecchio album di scuola e dall’ultima lettera scritta ad Hans da Konradin, divenuto ufficiale della Wehrmacht e prossimo a essere giustiziato per aver preso parte alla congiura contro Hitler: una confessione che è anche l’appassionato tentativo di spiegare come un popolo intero possa precipitare nella barbarie, e risponde ai quesiti che L’amico ritrovato aveva lasciato aperti. Ma forse la chiave dell’intera Trilogia va considerato Niente resurrezioni, per favore: il confronto, nella Germania opulenta del dopoguerra, fra l’ebreo emigrato Simon Elsas e i suoi vecchi compagni di scuola non garantirà la riconciliazione, ma suggellerà la ferita dell’animo, la reciproca incomprensione, la colpevole dimenticanza del passato.
«Due cose non si possono guardare in faccia: il sole e la morte» ha scritto La Rochefoucauld nelle sue Massime. La visione diretta della grande luce e del grande buio sono per noi intollerabili. Si può essere ciechi per troppa luce o per troppo buio. Per questo occorre abituarsi gradualmente all’una come all’altro. Ed è proprio così, per gradi, che queste Lezioni di tenebra ci portano al grande buio, al cuore nero della storia: Auschwitz.
In un racconto nutrito di biografia, che diventa anche biografia di una generazione, l’autrice esplora, pagina dopo pagina sempre più in profondità, il rapporto con sua madre, l’unica di due famiglie numerose a essere sopravvissuta alla Shoah, insieme al padre: ebrei polacchi, vissuti in Germania, dove la figlia Helena è cresciuta sentendosi totalmente estranea al mondo tedesco e alla sua cultura, pur usandone la lingua. Non soltanto una memoria sulla Shoah, ma un resoconto appassionato e allo stesso tempo lucido che punta a misurare l’intensità del contraccolpo nella generazione successiva. E il contraccolpo sta nell’impossibilità di avere radici, nella confusione linguistica, nel bisogno disperato di appartenere e nella condanna crudele di sentirsi estranei, comunque e dovunque.
Nel 1990, poco prima di celebrare il suo ottantesimo compleanno, Gregor von Rezzori inizia la stesura di questo libro di memorie, arguto, divertente, ironico e intensamente poetico. E un libro di memorie per un intellettuale nomade e sradicato come Von Rezzori non può che coincidere con il racconto dei viaggi che nel corso degli anni lo hanno portato a rivedere i paesaggi della sua infanzia e della sua giovinezza, e a incontrare di nuovo vecchi demoni, in una riuscita combinazione di riflessioni storiche e meditazioni private. Così in un viaggio in Romania, suo Paese natale, in cui ancora si sentono gli echi della rivolta contro il comunismo del 1989, Von Rezzori riflette sulla natura della devozione del popolo verso i tiranni che lo rendono schiavo e sulle strane sensazioni che provoca rivedere dopo quasi mezzo secolo il posto in cui sei nato. Un viaggio in Germania, dove Von Rezzori aveva raccontato il carnevale di Colonia come commentatore televisivo, è l'occasione per una serie di riflessioni sul popolo tedesco, la bellezza e il fascino della sua lingua e della sua cultura in contrasto con le asprezze della sua storia e per un parallelo fra lo scadimento morale rappresentato da quella festa e la forte tensione morale della Berlino del 1938. Un tour de force di audacia letteraria e autoironia, che testimonia ancora una volta la forza di questo grande intellettuale del Novecento.
IL LIBRO
Montecassino, 1944. Per quattro mesi gli alleati tentano di sfondare le linee tedesche. Su quel fronte terribile non sono impegnati solo americani e inglesi, ma anche truppe di altri continenti che il vortice della guerra mondiale ha risputato in Ciociaria: indiani, nepalesi, magrebini e persino un battaglione di maori della Nuova Zelanda. Ci sono i polacchi, un esercito di ex deportati del Gulag che combattono in terra straniera per la libertà da Stalin e da Hitler. Fanno parte di quella strana compagine anche un migliaio di ebrei, che imbracciano le armi per il puro diritto a esistere. E ci sono i civili, tra due fuochi. Chi erano quegli uomini che, pur dalla parte dei vincitori, vanno incontro a un destino di vinti? E quali segni ha lasciato l’immenso sconvolgimento della Seconda guerra mondiale?
Helena Janeczek cerca di rispondere con un affresco di storie che, ricongiungendo il passato al presente, nascono sia dall’invenzione, sia dallo scavo nella memoria più personale. Partendo con un taxi da Milano, incontriamo John Wilkins, sergente texano, Rapata Sullivan, nipote di un veterano maori, Edoardo e Anand, ragazzi cresciuti a Roma che a Cassino vanno per spirito di avventura, e ancora, Irka, fuggita dal ghetto per ritrovarsi in Siberia dove finisce anche il soldato Milek, reduce ebreo-polacco, morto a Milano senza trasmettere ai suoi figli un’esperienza fatta di orrore e di coraggio.
UN ESTRATTO
"Così mi sono chiesto: ma dove stavano le rondini, in tempo di guerra? E ho ripassato a mente tutti gli scenari della Seconda guerra mondiale, almeno quelli che abbiamo studiato a scuola: Europa, Nordafrica, Russia, Indocina, Pacifico. Ho visto questi stormi di poveri uccelli neri impazziti, in tutto il mondo."
L'AUTORE
Helena Janeczek è nata nel 1964 a Monaco di Baviera in una famiglia ebreopolacca. Si è trasferita in Italia nel 1983. Ha pubblicato una raccolta di poesie in tedesco e i romanzi Lezione di tenebra (Mondadori, 1997; premio Bagutta Opera Prima) e Cibo (Mondadori, 2002). È redattrice di «Nuovi Argomenti» e di «Nazione Indiana». Vive a Gallarate e lavora a Milano.
Per la prima volta, in questo libro, Rezzori racconta in maniera completa i suoi ricordi. La sua vita coincide in maniera sorprendente con il XX secolo. Nato cittadino austroungarico nel 1914 a Czernowitz, in Bucovina, una sorta di intercapedine politica tra la Mitteleuropa e i Balcani e che sarà in seguito divisa tra la Romania e l'Unione Sovietica, è stato per lungo tempo apolide prima di diventare cittadino austriaco, benché avesse già eletto l'Italia sua patria d'adozione. Attraversando i paesi e le culture Rezzori riflette nel prisma di un'ironia ribelle gli avvenimenti che lo hanno portato in seguito a Vienna, Bucarest, Berlino, Amburgo fino a quell'angolo di Toscana dove la morte lo coglierà nel 1998. Come quello di Zweig e di Musil, lo sguardo che Rezzori porta sull'Europa nella quale ha vissuto tutti i grandi rivolgimenti lo innalza al rango di testimone del Ventesimo secolo. Spesso catapultato nelle situazioni più inverosimili, riesce a trovare il meglio in ogni circostanza, trasfigurando grazie al suo talento di scrittore un'esistenza segnata dall'esilio e dalla perdita dell'identità. Rezzori è un narratore avventuroso, che tesse i fili sparsi della sua esistenza nella trama della storia, dando ai disordini politici un tocco familiare e tragicomico, che fa comprendere in maniera migliore di qualsiasi analisi le ambiguità di un secolo che non ha mai finito di interessarci, e se il reale qualche volta ci viene sottratto è per riemergere di nuovo reso più affascinante.