Giordano Bruno accettò il rogo per eroica coerenza intellettuale? Nei quasi otto anni che trascorse in carcere, prima a Venezia e poi a Roma, il filosofo condusse un'aspra battaglia per non soccombere, non abiurare, non morire. Decise di rovesciare il tavolo solo quando si sentì definitivamente in trappola, nell'impossibilità di salvaguardare se stesso e la sua filosofia. La scelta di salire sul rogo venne, dunque, presa solo alla fine del lungo processo. Cosa accadde esattamente in quel momento, come giunse a quella decisione e perché? Per quale ragione Bruno - a differenza di alcuni suoi illustri contemporanei, tra cui Galileo Galilei - dopo avere tanto a lungo lottato per affermare la sua verità, decise infine di chiudersi nell'ostinazione e accettare le conseguenze ultime della condanna inflitta dagli inquisitori? Perché, dopo aver più volte dichiarato la disponibilità a farlo, non pronunciò un'abiura di facciata? Il libro affronta questi interrogativi ripercorrendo l'itinerario intellettuale di Giordano Bruno nelle corti di tutta Europa e seguendo, anche attraverso documenti inediti, tutte le tappe del processo.
«Città di passione»: con queste parole Gabriele D'Annunzio battezza Fiume nel primo dopoguerra, imponendola all'attenzione internazionale assieme al mito della 'vittoria mutilata'. Altre e più tragiche passioni si scatenano nel secondo dopoguerra. Questa volta nel silenzio e nella distrazione della patria ferita, molti dei fiumani devono prendere la via dell'esilio. Il guscio della città però rimane in piedi e Fiume condivide il suo destino con le altre 'città cambiate', Salonicco, Smirne, Königsberg: le città poste lungo quei confini attorno ai quali si sono accesi i maggiori conflitti europei del XX secolo. Parlare di Fiume vuol dire tuffarsi nel vortice della 'grande semplificazione' che ha travolto l'Europa centro-orientale. Vuol dire anche parlare delle storie accadute tra le pieghe di quelle più appariscenti: accanto alla vicenda di un fiero municipalismo che cerca di resistere al trionfo degli stati-nazione, c'è la storia di una grande illusione. Quella di un piccolo nucleo di operai e intellettuali italiani che, in epoca di guerra fredda, lasciano la madrepatria per edificare il socialismo in una Fiume diventata jugoslava. Ma non vi è lieto fine. Raoul Pupo, raccontandoci la storia di una città-simbolo del '900, ci accompagna attraverso le inquiete transizioni europee del secolo scorso.
Dalle rappresentazioni mitiche degli antichi greci alle battaglie retoriche dei romani, dal lungo silenzio medioevale alla nascita della stampa, dalle rivoluzioni liberali alla supremazia di Internet, la comunicazione è il tratto distintivo di un'evoluzione che ci ha condotti fin qui, forgiando le nostre società e il nostro modo di vivere. La guerra delle parole è il racconto, che attraversa la storia e la cultura, della più antica e straordinaria abilità umana. Un viaggio inedito tra le parole e le immagini che hanno reso possibile la costruzione di un mondo comune di valori e di visioni, oggi in piena trasformazione.
Può sembrare curioso, ma attorno al vino ruota una gran parte dell'identità di Greci e Romani: miti, regole di galateo, codici di comportamento, visioni etiche e filosofiche, religione e molto altro ancora. Con il vino gli eroi di Omero pregano, danno ospitalità e siglano accordi; nella Grecia classica il vino è l'imprescindibile fulcro attorno al quale ruota il simposio, quella 'bevuta collettiva' in cui si rafforzano i vincoli d'amicizia, si intrecciano discorsi, si corteggiano ragazzi e cortigiane; nelle città greche e poi a Roma la prima coppa di vino è l'emblema di un vero e proprio rito di passaggio verso l'età adulta. Senza contare che il vino è il dono di un dio. Bisogna saperlo bere: mescolarlo con acqua, condividerlo con gli altri, centellinarlo e mai tracannarlo, consapevoli che è lo strumento con cui misurare di volta in volta la propria capacità di controllo. Con la lievità di un brindisi, questo libro ci offre una visione originale e vivida della straordinaria cultura di cui siamo figli.
La storia dei Medici, famiglia-icona del Rinascimento italiano, è anche la storia di una successione quasi ininterrotta di congiure e complotti volti a eliminare i suoi esponenti più prestigiosi. Esiste però un momento cruciale, la 'congiura per eccellenza': quella che, nell'aprile 1478, doveva mettere fine al dominio della famiglia su Firenze e sopprimerne la guida, Lorenzo il Magnifico. Lorenzo è all'apogeo della sua fortuna. Incontrastato signore di Firenze, anche se la città ama definirsi una repubblica, ben accolto in tutte le corti italiane, ha in attivo un matrimonio prolifico e prestigioso con Clarice Orsini, erede di una delle più antiche e illustri famiglie di Roma. Alcuni errori, però, minacciano la sua stabilità: l'ostilità del nuovo papa Sisto IV, che toglie ai Medici il lucroso incarico di banchieri pontifici. L'odio di Volterra, tiranneggiata per impadronirsi delle sue risorse naturali. La vendetta della famiglia Pazzi, cresciuta in potenza e ormai temibile concorrente. L'invidia verso un uomo che sembra costantemente baciato dalla fortuna cementa il legame dei nemici e li determina all'azione. L'epilogo fu tragico.
Protagonisti del Medioevo come sant'Agostino, Carlo Martello, Averroè, san Francesco d'Assisi e santa Chiara, Giotto, Marco Polo, Dante, Giovanna d'Arco, Cristoforo Colombo. Ma anche figure chiave dell'immaginario collettivo e popolare come re Artù, il mago Merlino, Robin Hood, Satana. Sono 112 le storie di uomini e donne del Medioevo raccontate in queste pagine lungo dieci secoli di storia, dall'affermazione del cristianesimo in Occidente fino alla scoperta del Nuovo Mondo. Storie di vita vera che smentiscono la vecchia concezione di un Medioevo immobile e oscuro e lo ridisegnano come un lungo periodo creativo e dinamico. Ma anche storie immaginarie perché in una società il fantastico e l'illusorio sono sicuramente tanto importanti quanto le condizioni reali di vita e di pensiero. Un viaggio appassionante tra storie e immagini straordinarie, al fianco del più noto medievista al mondo.
Lo Stato italiano celebra nel 2018 un doppio anniversario: i 170 anni dalla proclamazione dello Statuto albertino e i 70 anni dall’entrata in vigore della Costituzione repubblicana. È giunto il tempo di fare un bilancio, di analizzare quanto e come lo Stato abbia inciso nella storia italiana. Questo libro ha l’ambizione di tracciare, per la prima volta, una storia della costruzione dello Stato nelle sue strutture fondamentali: da quelle monarchico-liberali a quelle autoritario-fasciste; da quelle repubblicano-democratiche a quelle dello Stato decentrato. Nel contempo vengono delineati il consolidamento e la mutazione degli organi, degli enti e degli apparati politici, sociali e “imprenditoriali”. Al termine della lettura, ci saranno più chiare le ragioni che hanno reso lo Stato italiano così resistente alle riforme e incline allo sviluppo per giustapposizione delle proprie funzioni.
Parentesi luminosa fra il caos dell’anno Mille e un quattordicesimo secolo infestato dalla peste, dalle carestie e dalle guerre, gli anni che troveremo in queste pagine furono ricchi di possibilità e di speranza, di crescita e di conquiste. Dalle controversie Chiesa-Stato ai conflitti religiosi e ai movimenti riformatori, dalla crescita demografica alle straordinarie conquiste intellettuali come la nascita della letteratura in volgare, il fiorire delle grandi università inglesi, francesi e italiane e i capolavori dell’architettura gotica. William Chester Jordan ripercorre il cammino lungo il quale, con creatività e a passo sicuro, si sviluppò quello che può ben essere definito il primo vero Rinascimento europeo.
Nel momento in cui forze politiche oscurantiste prendono il sopravvento in Italia e in larga parte d’Europa, giova interrogarsi sul ‘moto storico’. Il suo andamento può sprofondarci in deprimenti bassure o innalzarci verso affrettate illusioni. Tra il cupo fatalismo persuaso dell’eterno ritorno e il pervicace ottimismo degli assertori di inarrestabili ‘sorti progressive’, la lezione che ci viene dalla storia è che, dopo l’esaurirsi di una ‘rivoluzione’, maturano immancabilmente le condizioni per una nuova scossa: di quelle che a don Abbondio apparivano salutari colpi di scopa.
«Sul letto di morte Mao avrebbe detto una parola che riassume il suo pensiero: “Raccomandate ai giovani cinesi di ricordarsi di Yu Kung”. È il protagonista di una favola contadina. Narra di un vecchio contadino che voleva spianare una montagna a colpi di zappa, lui e i figli. A chi vedendolo all’opera gli disse che sciocchezze state facendo, il vecchio rispose: “Io morirò ma rimarranno i miei figli. Moriranno i miei figli, ma resteranno i miei nipoti e così le generazioni si susseguiranno all’infinito. Le montagne sono alte, ma non possono diventare ancora più alte. A ogni colpo di zappa esse diventeranno più basse”. La logica di Mao si attaglia a quella del contadino. Le iniquità sociali sono alte e potenti, ma non è detto che non possano essere abbattute. E in effetti lo sono state anche se altre ingiustizie nel corso dei secoli, ed anche in quelli nostri, ne hanno occupato il posto. Ma anche queste cadranno sotto i colpi di zappa di una rivoluzione che per essere vera ha da essere permanente.» (Dal Diario di Pietro Nenni)
Le elezioni del 4 marzo 2018 si sono svolte nel segno delle divergenze. Fra il vecchio e il nuovo. Il popolo e l’establishment. Lega e M5s sono le due forze politiche uscite vincenti. Due soggetti e due identità divergenti che però viaggiano e muovono nella stessa direzione perché ‘divergono’ da nemici comuni. Non solo e non più la casta ma l’establishment politico, istituzionale, economico, finanziario. A loro basta distinguersi, distanziarsi, anzi: dissociarsi da tutti gli altri. Per questo è sufficiente un contratto che non delinei un sistema di valori, ma solo un accordo su temi e obiettivi specifici sui quali convergere, anzi divergere rispetto a ‘tutti gli altri’. Entrambi coesi nello sfidare la democrazia rappresentativa in nome della democrazia diretta. Anzi: immediata.
Non esistono guadagni senza perdite, e il sogno di una felicità per il guadagno, depurata del dispiacere per la perdita, è altrettanto vano della proverbiale speranza di un pranzo gratis. I guadagni e le perdite connessi a ognuno dei vari sistemi di convivenza umana vanno accuratamente conteggiati, per tentare di pareggiarli il più felicemente possibile. Ma non è mai esistito, e mai esisterà, un bilancio dove ci sia la voce dell''avere', ma non quella del 'dare'. La gioia della vita civile si ottiene solo insieme alla sofferenza, la soddisfazione va sottobraccio al disagio e l'obbedienza alla ribellione. La civiltà, quest'ordine artificiale imposto sul disordine naturale dell'umanità, è un baratto, un compromesso sempre rimesso in questione e volta a volta rinegoziato. "Il disagio della postmodernità" è uno dei libri fondamentali di Bauman. Una lettura imprescindibile per chiunque voglia capire il suo tempo in tutte le sue implicazioni e le sue contraddizioni.
Alle 17.30 del 26 gennaio 1994, Silvio Berlusconi fa la sua apparizione sugli schermi tv attraverso una delle tre grandi reti di sua proprietà. Esibendo un sorriso affabile, seduto dietro una scrivania, sullo sfondo una libreria con foto di famiglia, pronuncia un appello rivolto a tutti gli italiani. Il discorso dura circa 9 minuti e 30 secondi. Oltre 26 milioni di telespettatori sono raggiunti dal messaggio. È l'esordio di un terremoto politico. Di lì a poco l'imprenditore lombardo, proprietario di una mitica squadra di calcio e padrone di mezzo sistema televisivo, conquisterà la maggioranza parlamentare, divenendo capo del governo. Quella del 26 gennaio 1994 non è stata una battaglia campale, non la deposizione di un despota o una dichiarazione di guerra, un regicidio o il passaggio da una monarchia a una repubblica. Formalmente neppure un colpo di Stato. Nelle ore cruciali che qui ricostruiamo non si muovono truppe, non si decapitano condottieri, non si firmano patti: si definiscono gli sfondi di un set, i minuti e i secondi di un passaggio sugli schermi televisivi. Nondimeno, con quell'apparizione comincia una nuova era, che ha caratterizzato la storia dei sistemi politici. Una forma sfigurata e truccata di democrazia, che gli antichi chiamavano demagogia e taluni chiamano oggi populismo dell'audience: dominio di leader che pretendono di essere l'incarnazione del popolo e tendono all'esercizio di un potere affidato alla comunicazione semplificata e istantanea dei media di massa. Dalla tv ai social.