Per Thomas Merton la soluzione dei problemi politici e sociali della condizione dei neri d'America implicava, necessariamente, ascoltare la voce "pura e profetica" dell'uomo nero in quanto nero, in mezzo ai clamori dei falsi profeti "scettici e ridicoli" della modernità capitalistica. Perché solo nell'ascolto di quelle voci, nel rispondere al loro appello, il peccato originario della civiltà occidentale, il fatto di essersi costituita grazie alle ingiustizie perpetrate su razze considerate inferiori, poteva essere espiato e superato. Questo riconoscimento della funzione quasi provvidenziale dei neri, la loro vera rivoluzione, in realtà suona come l'ennesima conferma della condizione di peccato nella quale versa la società dei bianchi. Era la stessa battaglia che combatteva Martin Luther King e che nella sua lettera dal carcere diventa epitome di una condizione universale di ingiustizia e sopraffazione. Ma il latente e mai sopito conflitto razziale negli Stati Uniti ci dice molto più di quanto la semplice storicizzazione di quegli eventi potrebbe insegnarci. Viene in mente la chiusa del libro di Alasdair MacIntyre, "Dopo la virtù", nella quale viene evocato il momento in cui "uomini e donne di buona volontà si distolsero dal compito di puntellare l''imperium' romano e smisero di identificare la continuazione della civiltà e della comunità morale con la conservazione di tale 'imperium'". È la necessità che queste pagine indicano come un compito ancora irrealizzato, ma non irrealizzabile.
"Un grande testo non è solamente bello. Esso genera vita, ha un'influenza seminale. Così avviene per 'I miserabili' come per 'Le illuminazioni'. Fra le opere di Péguy, nessuna meglio del 'Portico del mistero della seconda virtù' ha esercitato questo ruolo fecondante. Innumerevoli lettori ne hanno beneficiato. Alcuni ne hanno attinto la forza per un'intima resurrezione", scrive Jean Bastaire nella postfazione a questa nuova traduzione di una delle opere poetiche più intense di Charles Péguy, del quale quest'anno, il 5 settembre, ricorre l'anniversario della morte (rimase ucciso durante la battaglia della Marna). Chi era Péguy? Un personaggio dai molti volti, ciascuno dei quali può avere una sua particolare forza d'attrazione. Un personaggio fuori dagli schemi, non solo perché scomodo o atipico nella sua stessa parabola esistenziale di "cattolico non come gli altri", ma anche perché singolare nel suo personale modo di comunicare la sua riflessione e la sua esperienza di fede.
Paradosso, scandalo, follia, ignominia, obbrobrio: tale apparve fin dall'inizio, nelle parole degli stessi testimoni e scrittori cristiani, la crocifissione. Se già il mondo pagano poteva concepire la manifestazione terrena della divinità, solo con il cristianesimo si afferma, prepotentemente, e in modo assolutamente nuovo, l'idea sorprendente di un Dio che si fa Uomo anche e proprio nel dolore, nella sofferenza, nell'umiliazione, nell'ingiustizia subita, per redimere l'umanità stessa dal peccato. Quest'opera di Jammes, ora tradotta in italiano per la prima volta, insiste proprio su tale aspetto: un Cristo umano, umiliato, sofferente, e proprio per questo vicino e compartecipe alle sofferenze che da sempre attanagliano l'uomo e il creato. La croce, simbolo universale tanto del dolore e della tortura, quanto dell'elevazione al cielo, dell'aspirazione spirituale, è, in quest'opera, anche emblema cosmico, Albero del Mondo, asse che innerva e sostiene il cosmo, e congiunge verticalmente la terra al cielo, la natura allo spirito. Proprio per questo, Jammes vede nella croce una speranza: quella di poter redimere il mondo moderno dalla deriva morale, dalla perdita di punti di riferimento, dalla cecità della violenza e dell'ingiustizia, facendogli ritrovare, proprio ai piedi della croce, il suo "centro di gravità". Prefazione di Matteo Veronesi. In appendice "Preghiera per andare in Paradiso con gli asini" e "Rosario". Con una nota di Giancarlo Pontiggia.
Formatosi nella Parigi di Huysmans, di Maritain, di Charles de Foucauld e di Claudel, è in Nord Africa e nel Vicino Oriente, dove giovanissimo realizzò le sue prime missioni geografiche e archeologiche, che Louis Massignon, uno dei maggiori orientalisti del secolo scorso, fece l'incontro decisivo con la parola araba e la spiritualità musulmana. A partire da queste esperienze il rapporto tra il mondo occidentale e quello musulmano verrà da lui interamente ripensato ponendo al centro di tutto l'itinerario mistico. Ma cogliere il destino comune della spiritualità islamica, ebraica e cristiana, implicava un cammino diverso da quello, per esempio, del sacerdote spagnolo Asín Palacios: si trattava anzitutto di apprezzare l'assoluta differenza di ciascuna storia, di distinguere la genesi spirituale dei simboli dell'islam e del cristianesimo, ma anche di cogliere le differenze fra l'ispirazione poetica e l'esperienza mistica, tra la filosofia e il misticismo. Ovvero, distinguere Dante da Ibn 'Arabi. Dai saggi raccolti in questo volume che esaminano i rapporti e le differenze fra mistica e poesia nell'islam e nel cristianesimo, emerge come per Massignon sia indispensabile riconoscere l'unicità delle diverse storie umane, individuali e collettive. Soltanto praticando questo discernimento spirituale, secondo il grande islamista, si può incontrare veramente l'Altro. E tale modo di conoscenza si scioglie, appunto, nell'esperienza mistica.
In questo volume sono raccolti due saggi di Michel de Certeau sul "credere" come pratica sociale, scritti agli inizi degli anni Ottanta del secolo scorso. Come spesso accade con i saggi di de Certeau, anche qui viene reso fruttuoso un metodo di lavoro che si colloca all'incrocio di discipline diverse, quali la storia, l'antropologia culturale e la linguistica storica. Lo scopo che de Certeau persegue è duplice: da un lato mostra come il credere si sia modificato grazie all'avvento della modernità, la quale ha reso inoperante il legame che il credere aveva con le relazioni tra individui concreti e ha trasformato il credere in una pratica discorsiva in cui ne va invece del rapporto che una comunità di "parlanti" intrattiene con un insieme di enunciati; dall'altro, de Certeau svolge un'analisi di come il credere non possa essere pensato al di fuori dei contesti istituzionali che sostengono un dato sistema di credenze, sia per confermarlo, sia per utilizzarlo a proprio vantaggio. Sullo sfondo, la resistenza che le credenze oppongono alla presa delle istituzioni: mobili e nomadi, legate a ciò che fornisce un significato non solo al legame sociale, ma anche alla vita degli individui, le credenze per de Certeau attestano la vitalità di una pratica sociale che per definizione non può lasciarsi amministrare interamente dal potere istituzionale.