Nel dicembre del 1977 apparve in alcune librerie milanesi un modesto fascicolo, con pagine ciclostilate e pinzate, senza neppure dorso. Era il primo numero di una rivista chiamata "Un'ambigua utopia", che sarebbe durata sino al 1982, prodotta da un collettivo di ex militanti di organizzazioni dell'estrema sinistra e si proponeva di "colmare la lacuna che esisteva nella cultura di sinistra nei confronti della fantascienza". Si trattò di una delle tante esperienze di cui fu ricca la diaspora politico-culturale nata dal cosiddetto "movimento del 77", una delle più bizzarre forse, ma anche, paradossalmente, delle più fertili. Tentando infatti una rivalutazione ma anche una lettura critica di un genere letterario e cinematografico tradizionalmente considerato "d'evasione", e quindi guardato con sospetto tanto dagli intellettuali "impegnati" quanto dagli accademici, quella rivista si trovò a incrociare, con molte ingenuità ma anche con qualche insospettabile intuizione, molte delle strade del rinnovamento culturale italiano, a sinistra, di quel periodo. Se oggi è scontato, nelle Università e sui media, trattare la fantascienza come un genere "adulto", se non è più scandalo considerare Philip K.Dick e James G.Ballard come grandi scrittori, lo si deve certamente a Umberto Eco e a intellettuali come lui, ma in parte anche a questo collettivo di (allora) trentenni.
Perché alle infinite interpretazioni dei primi capitoli del Genesi aggiungerne un'altra? Perché in essi non si tratta della creazione dal nulla dell'universo e dell'uomo, e della spiegazione della tendenza al male della specie umana, come la tradizione cristiana ha da sempre sostenuto, ma della creazione o del progetto da fare di un mondo morale nuovo rispetto a quelli già esistenti, composto di "cieli", cioè di giusti, e di "terra" cioè di nazioni, in cui si formano i giusti, e di un uomo nuovo, chiamato Adamo, destinato da polvere a diventare anima vivente, progetto di alcune Divinità mesopotamiche, fra la quali emerge YHWH, Dio di Israele. L'autore raggiunge una tale proposta di senso tornando all'esegesi dell'Israele al tempo di Gesù, interrogando le Scritture con le Scritture, il Libro con il Libro.
La gratitudine è stata concepita per secoli come un obbligo da rispettare, all'interno di un ordine naturale orientato alla giustizia. Dall'antica Grecia al medioevo, attorno a questa idea è fiorita una ricca produzione teorica tesa a regolare tanto i comportamenti individuali e collettivi, quanto le scelte di politica interna ed estera. Attraverso un'analisi storico-critica sistematica, la ricerca condotta nel presente volume rivela la forte interdipendenza tra vincoli di gratitudine e politica. Le riflessioni di autori quali Platone, Aristotele, Tucidide, Polibio, Cicerone, Seneca, Livio, Agostino d'Ippona, Tommaso d'Aquino e Marsilio da Padova sono ripercorse lasciando emergere il profilo di un vero e proprio paradigma di gratitudine che ha storicamente dato forma teorica e pratica alla politica. Dagli onori pubblici tributati in memoria dei salvatori della patria alle relazioni internazionali rette dai vincoli di gratitudine, dallo scambio di favori e rapporti clientelari fino al potere di mediazione della Chiesa retto sul dovere di rendere correttamente grazia a Dio, la gratitudine politica si rivela essere una categoria interpretativa inedita ed efficace con cui leggere i rapporti di potere e una dimensione personalistica della politica fortemente radicata in Occidente.
Nel lungo tratto di tempo che dall'apparizione in Egitto dei primi rotoli di papiro si spinge fino alla produzione dei libri a stampa nel XV secolo, la lettura ha conosciuto in Occidente una delle sue svolte principali nel diverso modo di accostarsi ai testi introdotto dal cristianesimo rispetto all'antichità tra quarto e quinto secolo. Le Confessioni di sant'Agostino ne costituiscono la chiave di volta. Nel tratto di strada percorso da questo primo volume - dal terzo millennio avanti Cristo ai primi del Cinquecento - si dipana la lunga storia del libro, visto come specchio della mente e strumento dì lettura, cioè di dialogo tra gli uomini. Un manufatto che nel corso del tempo, pur mantenendo la sua identità dialogica, ha conosciuto molte metamorfosi nella configurazione testuale e nell'abito esterno: dalla forma di rotolo a quella di codice; dal papiro alla pergamena e dalla pergamena alla carta; dalla scrittura manuale a quella stampata. È in seguito approdato al libro industriale del XIX secolo e al libro elettronico di questi ultimi decenni, con forme testuali e modalità di lettura affatto nuove.
Insieme al Mahabharata, il Ramayana è non solo una delle più antiche epopee della mitologia indiana, ma anche uno dei testi sacri più importanti della tradizione religiosa e filosofica del subcontinente. In India è considerato un'opera degna di devozione e rispetto, alla stregua della Bibbia in Occidente. Il nucleo originario del poema è databile tra il VI e il III secolo a.C. e narra l'epopea del principe Rama, ingiustamente esiliato dalla sua patria e privato della sua sposa. Condotta a partire dalla storica edizione di Gaspare Gorresio, fondatore nell'Ottocento dell'indologia italiana, questa traduzione si presenta in tre volumi con note critiche e glossario curati da alcuni dei più autorevoli indologi contemporanei. Introduzione di John Brockington.
Per Matteo, che compila il "libro della genealogia di Gesù Cristo", figlio di David, figlio di Abramo e lo pone in capo al suo evangelo, la generazione di Gesù, detto il Cristo, delie generazioni di Israele, è la quarantatreesima, viene dopo sette per due per tre generazioni, a partire da Abramo. Anche questa generazione, come tutte le altre che la precedono, ma anche dopo tutte le generazioni delle genealogie di Israele, è generazione adamica, cioè fa il mondo di YHWH e di Israele attraverso fatti e parole adamiche. L'evangelista sceglie i fatti e le parole adamici di Giuseppe, dì Maria, dei maghi mesopotamici e dei fanciulli di Bethleem, che hanno dato inizio alla "generazione" di Gesù e del paidivon, il Gesù Cristo, l'Uomo finale del mondo di YHWH.
Gli scritti teorici di Paul Klee raccolti nel primo volume della Teoria della forma e della figurazione rispettando il piano tracciato dall'artista, rappresentano per il lettore contemporaneo un imprescindibile punto d'accesso al laboratorio creativo del grande pittore. Intuizione poetica ed esperienza didattica si fecondano qui vicendevolmente: la prima parte del volume comprende infatti undici brevi saggi - tra cui la famosa Confessione creatrice - in cui Klee delinea i motivi essenziali delle sue ricerche teoriche; nella seconda, che riproduce un corso di lezioni tenute tra il 1921 e il 1922 al Bauhaus di Weimar, la riflessione dell'artista si concentra invece sul problema della genesi della forma e delle sue potenziali metamorfosi nelle arti figurative. Si tratta quindi di un testo davvero fondamentale, passaggio obbligato per chiunque intenda penetrare a fondo le complesse trasformazioni che inaugurano l'arte del Novecento. Una vera pietra miliare il cui ruolo è forse paragonabile a quello giocato dalla teoria della pittura di Leonardo per l'arte del Rinascimento.