"Secondo l'esempio del beatissimo padre Francesco, anch'io, peccatore indegno in tutto, che viene dopo di lui come settimo ministro generale dei frati, mi affannavo nell'inseguire questa pace. Così, a trentatré anni dalla sua scomparsa, mi ritirai, per volere di Dio, sul monte della Verna, un luogo di quiete dove desideravo cercare la pace dello spirito. Là, riflettendo su alcune ascensioni della mente in Dio, tra gli altri casi mi si presentò alla memoria il miracolo che si era manifestato al beato Francesco in quello stesso luogo, cioè la visione del serafino alato in forma di Crocifisso. Meditando su quella visione, mi sembrò subito che essa rivelasse l'innalzamento in croce, durante la contemplazione, del nostro padre Francesco e la via per raggiungerlo." Inizia così, il celebre "Itinerario della mente in Dio" di Bonaventura da Bagnoregio. Un trattato esemplarmente breve di teologia mistica che costituisce una guida per mostrare come l'uomo possa innalzarsi fino a conoscere veramente Dio: e anzi a Dio possa unirsi. Ispirandosi a Dionigi pseudo-Areopagita e ad Agostino, e soprattutto alla vita e all'esperienza mistica di Francesco d'Assisi, e alla Passione di Cristo, Bonaventura disegna nel suo libro la perfezione cristiana: come un cammino attraverso sei illuminazioni che con Francesco e il serafino si aprono e si chiudono, e che alle sei ali di quell'essere celeste corrispondono. Commento di Daniele Solvi.
Il secondo volume, a cura di uno storico delle origini cristiane e di un medievalista, ricostruisce quello che è forse il più grande mito dell'Occidente medievale: l'Anticristo, che per quasi tredici secoli ha dominato i pensieri, le immaginazioni, le visioni e i deliri della gente cristiana. Attraverso un puntuale esame dei testi che hanno parlato di "anticristo", l'opera mostra quale sia stata l'evoluzione in campo semantico, politico, teologico del termine, come si sia trasformata nel tempo l'idea dell'Anticristo stesso. Il primo volume, edito nel 2005, ha presentato testi scritti tra il II e il IV secolo. In questo secondo volume l'arco di tempo abbracciato è più vasto, si arriva fino al XII secolo, come più vasto è il panorama delle voci prese in esame. La figura dell'Anticristo, il Nemico, l'Avversario dei tempi ultimi, che si è ormai delineata e continuamente muta forma aspetto e significato, turba, tormenta, ossessiona tutti gli scrittori cristiani
"È bello tramontare dal mondo a Dio, perché in lui io possa sorgere" scrive Ignazio di Antiochia ai Romani, avviandosi verso il martirio nelle fauci delle belve. E la testimonianza ultima della sequela di Cristo. "Seguendo Gesù" indica, infatti, i documenti che vengono dopo i Vangeli; ma allude anche al seguire Cristo che i suoi discepoli più antichi si raccomandano l'un l'altro. In questo primo dei due volumi che la Fondazione Valla dedica alla letteratura cristiana delle origini troviamo allora alcuni degli scritti che risalgono agli anni fra il 70 d.C. e i primi due decenni del II secolo, lo stesso periodo in cui furono composte la maggior parte delle opere che poi entrarono nel canone del Nuovo Testamento. Rappresentano una generazione successiva a quella dei testimoni oculari del Cristo, ma certo a qualcuno di questi autori sarà capitato di incontrare e ascoltare un discepolo diretto di Gesù. Le sue parole risuonano in essi per essere state apprese per via orale o grazie a brevi raccolte per noi perdute, anche se già alcuni vangeli erano stati composti. Il termine "cristiano" non è ancora comune, eppure il messaggio di Gesù è già radicato: a Roma, a Corinto, in Asia Minore. Impregnato spesso di giudaismo, talvolta debitore nei confronti della tradizione greco-romana, o cristianesimo prende corpo e vigore fra contrapposizioni, conflitti, e ricomposizioni. Le comunità si organizzano, meditano e discutono la Buona Novella e i modi migliori per seguirla.
I due volumi dei "Trattati d'amore" cristiani offrono al pubblico una raccolta di testi che indagano il problema dell'amore nel pensiero cristiano del XII secolo. Il XII è infatti, in Europa, il secolo dell'amore: i trovatori celebrano l'amor cortese, i romanzi narrano la passione di Tristano e Isotta o di Lancillotto, Abelardo ed Eloisa vivono un'infuocata relazione. I religiosi non sono da meno: elaborano, impiegando un linguaggio appassionato e immagini meravigliose, affascinanti teorie sull'amore mistico. Se Dio, come proclama il Vangelo di Giovanni, è carità, cioè amore, l'uomo, fatto a sua immagine e somiglianza, è dominato da quello stesso sentimento e al suo Creatore deve rivolgerlo per poter raggiungere l'unione con Dio. È il momento che Dante celebrerà al termine del Paradiso, quando l'"amor che move il sole e l'altre stelle" volge la sua volontà e il suo desiderio "sì come rota ch'igualmente è mossa".
I trovatori celebrano l'amor cortese. I romanzi narrano la passione di Tristano e Isotta o di Lancillotto. Abelardo ed Eloisa vivono un'infuocata relazione. Il XII è, in Europa, il secolo dell'amore. I religiosi non sono da meno ed elaborano affascinanti teorie sull'amore mistico. Se Dio è, come proclama Giovanni amore, l'uomo, che è fatto a sua immagine e somiglianza, è dominato da quel sentimento e al suo Creatore deve rivolgerlo. Dall'"abisso della dissomiglianza" l'"anima curva" si "converte" tendendo a lui la propria volontà. La ragione "può vedere Dio soltanto in ciò che egli non è; l'amore è l'unica conoscenza che si avvicini alla divinità, il vero "intelletto". La stessa teologia negativa viene superata. Attraverso quattro "gradi" di carità, o tre "visite", tre "sabati", l'uomo progredisce verso l'"unità dello spirito", l'"eccesso della mente", l'"abbraccio"; l'unione con Dio. Il volume segue il cammino di Guglielmo di Saint-Thierry e Bernardo di Clairvaux, i due amici che, combattendo il razionalismo di Abelardo, hanno costruito una teologia dell'amore che influenzò anche alcuni trovatori. Guglielmo, contemplando "ogni angolo ed estremità" della propria coscienza, guarda al Volto ed esclama: "O volto, o volto! Quanto beato il volto che, vedendoti, merita di essere trasformato da te". Per Bernardo, provare l'amore vuol dire essere "deificati", e al culmine dell'esperienza mistica ogni sentimento umano si dissolve e si riversa nel fondo della volontà di Dio.
I "Dialogi" di Gregorio Magno, composti in latino in quattro libri, furono tra i più amabili, drammatici e insieme divertenti testi del Medioevo. In un'Italia invasa dai goti e longobardi, visitata dalle pestilenze e dalla carestia, tutto era caos e tenebra. Restavano solo i monaci a compiere prodigi: resuscitavano i morti, liberavano gli ossessi, moltiplicavano olio e vino. Il testo, composto per un pubblico vasto e popolare, è riproposto con la cura di Manlio Simonetti e Salvatore Pricoco.
Il "Cantico dei cantici" è uno dei grandi misteri dell'Antico Testamento. Non sappiamo se sia un canto d'amore, quale appare a chi legge, o se abbia un significato simbolico, che allude all'amore tra Dio e Israele; né sappiamo quando sia stato scritto, se nel V o nel I sec. a.C. Certo, Israele lo comprese nel canone dei libri divinamente ispirati, e più tardi i cristiani lo accolsero tra i libri dell'Antico Testamento. Ma il "Cantito dei cantici" deve la sua immensa fortuna proprio a Origene, che gli dedicò attorno al 245 le due "Omelie" presentate in questo volume, che ci sono giunte nella traduzione latina di san Girolamo.
Prendendo l'avvio dal primo versetto della Genesi, la trattazione si amplia sino ad abbracciare tutta l'opera, in una esegesi appassionata e appassionante che introduce al mistero della creazione.
Con il decimo e undecimo libro delle "Confessioni", che la Fondazione Lorenzo Valla presenta nella traduzione di Gioacchino Chiarini e nel commento di Aimé Solignac e di Marta Cristiani, il racconto della vita di Agostino è ormai terminato. Agostino affronta l'altro tema della sua confessio: la memoria, il tempo, l'universo, il mistero di Dio, in pagine di vertiginosa e angosciosa interrogazione filosofica. Chi ama Dio, ama le sue opere visibili: "quando amo il mio Dio, amo una certa luce e una certa voce e un certo profumo...". Quindi Agostino si avanza nelle "distese e nei vasti palazzi della memoria": lì stanno le immagini nate dalla percezione delle cose, i pensieri nati dai sensi. Ci sono immagini che si presentano immediatamente, altre che si fanno desiderare più a lungo, come se le dovessimo cavar fuori da ripostigli segreti: altre ancora irrompono in massa e balzano in prima fila con l'aria di dire: "Non siamo noi, per caso?". Altre ancora sopraggiungono docilmente e in bell'ordine come uno le chiama. La memoria è il vero miracolo della vita inferiore, "mentre gli uomini vanno ad ammirare le vette dei monti, le onde enormi del mare, le vaste correnti dei fiumi". "Grande è la potenza della memoria, qualcosa di terrificante, mio Dio, la sua profonda e infinita complessità; e tutto questo è la mente, tutto questo sono io. Cosa sono io dunque, mio Dio?"
Le riflessioni sul tempo segnano l'inizio della meditazione sulla realtà divina, che è l'oggetto degli ultimi tre libri. "Non c'è stato un tempo in cui Tu non abbia fatto qualcosa, perché il tempo stesso è opera Tua. E non c'è tempo che Ti sia coeterno, poiché Tu permani; e se il tempo permanesse, non sarebbe più il tempo."
Indice - Sommario
TESTO E TRADUZIONE
Conspectus siglorum
Libro X
Libro XI
COMMENTO
Abbreviazioni e sigle
Libro X
Libro XI
San Benedetto, di cui Salvatore Pricoco pubblica la Regola insieme ad altri testi monastici medioevali, non è stato un legislatore rivoluzionario: ma l'accorto e sapiente erede, insieme rigoroso e moderato, della tradizione monastica occidentale. Egli aveva davanti agli occhi un modello antico e meraviglioso: gli eremiti orientali come sant'Antonio, che da soli lottavano con il diavolo nel deserto. Ma egli credeva che questo miracolo fosse ormai irraggiungibile. Voleva fondare qualcosa di più modesto: la vita dei monaci chiusi in una collettività guidata da un superiore; vita che doveva tenere lontana ogni influenza del mondo esterno, ogni viaggio, ogni rapporto con i congiunti. "Nessuno osi riferire ad un altro qualcosa di ciò che ha visto o sentito fuori del monastero, perché sarebbe un'enorme rovina." Tutto era calcolato e previsto dalla regola e dalla sapienza del superiore: ma ogni gesto della vita comune doveva essere impregnato dalle parole della Scrittura, imbevuto dallo sguardo luminoso di Dio, che contemplava i suoi fedeli dall'alto dei cieli. Con i suoi minuziosi suggerimenti, la Regola di san Benedetto ci informa con straordinaria efficacia sulla vita quotidiana dei monaci nel Medioevo, rievocando le mense, i lavori, i sonni, le preghiere, le letture comuni, e l'esempio di un amore reciproco senza limiti. "Se un monaco ha la sensazione che un anziano abbia verso di lui sentimenti d'ira o anche una lieve irritazione, subito, senza indugio, si prostri a terra davanti ai suoi piedi e rimanga disteso a far penitenza fino a quando questa irritazione sia placata e si risolva in una benedizione."
Indice - Sommario
Introduzione
Abbreviazioni e sigle
Bibliografia
TESTO E TRADUZIONE
- Regola dei Quattro Padri
- Seconda Regola dei Padri
- Regola di Macario
- Regola Orientale
- Terza Regola dei Padri
- Regola di san Benedetto
COMMENTO
- Regola dei Quattro Padri
- Seconda Regola dei Padri
- Regola di Macario
- Regola Orientale
- Terza Regola dei Padri
- Regola di san Benedetto
Indice dei passi
Prefazione / Introduzione
Le regole monastiche antiche
L'immagine di un Medioevo monastico interamente benedettino è un luogo comune, tanto inveterato quanto storicamente falso. Essa ha lusingato in particolare la storiografia italiana, che ha alimentato a lungo il mito di san Benedetto padre del monachesimo occidentale, della civiltà religiosa medievale, dell'Europa tout court. In realtà, l'osservanza benedettina trovò diffusione largamente europea solo a partire dall'età carolingia, per l'opera riformatrice di un patrizio visigoto, Benedetto abate di Aniane, che ridusse i monasteri dell'Impero a unità legislativa applicando le direttive politiche di Carlo Magno e Ludovico il Pio. Prima di allora, tra il V e l'VIII secolo, numerose regole circolarono nell'Occidente. Una trentina di esse sono pervenute sino a noi.
Non vanno catalogati tra le regole, anche se talvolta ne portano il nome, scritti di carattere parenetico o didattico o descrittivo. Per esempio non sono regole, com'è evidente, il de laude eremi o il de contemptu munii, due opuscoli scritti tra il 418 e il 430 da Eucherio, monaco di Lérins e poi vescovo di Lione, sebbene contengano non pochi spunti sulla spiritualità e la condotta degli asceti; ma non lo sono neanche talune lettere di Girolamo, come la 2.2., la 58, la 12.5 e altre ancora, che sono dei veri e propri manuali di direzione spirituale, o la lettera di Leandro di Siviglia alla sorella Fiorentina, ne lo sono i libri de institutis coenobiorum di Cassiano, che descrivono i vizi contro i quali il monaco deve lottare e gli indicano i rimedi da adottare.
Tra lo scadere del IV secolo e i primi anni del V si colloca la prima generazione di regole latine. Più precisamente, si tratta in un caso di due testi originali, composti uno, l'Ordo monasterii, intorno al 395 nella cerchia di Sant'Agostino (forse dall'amico Alipio per i monaci di Tagaste), l'altro, il Praeceptum, dallo stesso
Agostino, verso il 397, per il monastero di Ippona, e dalla tradizione trasmessi insieme come "Regula Augustini"; in altri due casi si tratta, invece, di versioni di un testo greco, la Regola di Basilio, e di uno copto, la Regola di Pacomio. La prima fu tradotta da Rufino, che nel 397, su richiesta dell'abate del monastero di Pinete, vicino a Roma, volse in latino una redazione della quale non c'è rimasto l'originale greco, più breve rispetto all'altra, conservataci in greco. La seconda è costituita da quattro gruppi di precetti monastici dettati dal grande fondatore del cenobitismo egiziano, che Girolamo tradusse in latino, nel 404, da una precedente traduzione greca, assieme ad alcune lettere dello stesso Pacomio e del suo primo successore, Teodoro, e assieme al testamento spirituale di Orsiesi, successore di Teodoro.
Direttamente o per il tramite di testi intermedi, queste regole della prima generazione influenzarono le successive, con un fitto intrecciarsi di rapporti, che oggi, grazie soprattutto alle indagini di dom Adalbert de Vogüé, riusciamo a ricostruire abbastanza compiutamente. Tracce delle regole di Agostino e di Pacomio si rinvengono largamente sia nell'area gallo-iberica che in quella italiana e nel monachesimo iro-franco di Colombano; la Regola di Basilio sembra essere stata più presente nelle regole italiane, meno in quelle iberiche e provenzali.
Una seconda fioritura di grandi regole si ebbe a circa un secolo e mezzo dalle prime. Tra le due generazioni stanno - ma ne parleremo partitamente in seguito - le cosiddette Regole dei Santi Padri. I centri creativi di questa seconda stagione legislativa furono la Gallia meridionale e l'Italia centro-meridionale.
In Gallia, lungo la prima metà del VI secolo, svolse un'opera costante di sostegno e di regolamentazione della prassi monastica Cesario, prima monaco a Lérins e poi vescovo di Arse. Il testo più importante è la "Regula ad virgines", la prima regola femminile dell'Occidente, che Cesario compilò per il monastero di san Giovanni in Arles, retto dalla sorella Cesaria, ma che trascese subito l'ambito locale ed esercitò duratura influenza sul monachesimo sia provenzale che italiano, e non solamente femminile. Cesario vi si dedicò a più riprese, tra il 511 e il 534, e vi trasferì, con le opportune correzioni, le norme dell'ascesi e della vita comunitaria maschile, mettendo a profitto non solo i testi monastici più illustri, da Pacomio a Cassiano, ma anche l'esperienza personale, maturata negli anni del soggiorno monastico a Lérins e nella pratica pastorale. Successivamente (e non prima, come si è creduto a lungo), tra il 534 e il 541, Cesario stilò una "Regula monachorum", che di fatto non è che un compendio della regola femminile.
In Italia, tra Roma e Cassino, nella prima metà del VI secolo, a distanza di qualche decennio l'una dall'altra, vedono la luce le due maggiori regole dell'Occidente, quella del Maestro e quella di Benedetto. La questione dei loro rapporti ha dato origine negli ultimi cinquant'anni a una controversia serratissima e feconda di proposte storiografiche rinnovatrici. Oggi è largamente prevalente l'opinione che ammette la priorità e riconosce il valore e l'originalità dell'anonima "Regula Magistri", la più ampia delle Regole latine e la più sistematica. Anche di questi due testi tratteremo a parte.
Un nutrito gruppo di regole - più della metà di quelle che complessivamente ci sono rimaste - furono redatte nell'età successiva, tra la metà del VI secolo e gli ultimi decenni del VII. Sono scritti di modeste dimensioni e quasi sempre di scarsa originalità, che non superarono se non raramente i confini del monastero per il quale furono composti o, al più, i limiti regionali. Unica personalità di statura europea fu Colombano (+ 615), il fondatore di Luxeuil e di Bobbio, al quale, tuttavia, si devono regole di carattere limitato: una "Regula monachorum", contenente una serie di precetti spirituali e una descrizione dell'ufficio liturgico, e una "Regula coenobialis", che è sostanzialmente un codice disciplinare con norme punitive di tipo irlandese, comprendenti anche le percosse. Gli altri legislatori furono vescovi o abati galli, iberici, italici; alcuni testi sono anonimi e talvolta solo il confronto con altre regole meglio note ne lascia sospettare il luogo di provenienza.