"La vita di Mosè di Gregorio di Nissa, primo di una serie di testi teologici che la Fondazione Lorenzo Valla intende presentare al pubblico italiano, è uno dei massimi libri mistici d'ogni epoca e paese: il lettore d'oggi potrà disporlo nella sua biblioteca accanto a Rûmî o a san Giovanni della Croce. È stato scritto verso la fine del quarto secolo, in quel periodo straordinario in cui le nude verità dell'Antico e del Nuovo Testamento si avvolgevano negli splendidi colori, già lambiti da un'aura di tramonto, della fiorita retorica classica. La prima parte è un racconto, come desidererebbe averlo composto qualsiasi grande artista: la storia dell'Esodo viene trascritta con le immagini di Platone; Mosè diventa un visionario, accecato dalla Luce; i fenomeni naturali assumono un meraviglioso risalto, sconosciuto alle pagine della Bibbia. La seconda parte è un'interpretazione simbolica della vita di Mosè: dove l'eredità di Filone e di Origene rivive in una mente profonda e sottilissima, capace di tutti i raffronti, dotata di un potere analogico che non finisce mai di stupirci. Da questo testo discenderanno tutti i mistici cristiani: Dio come tenebra. Dio come inconoscibile, Dio come illimitato e infinito; e se Dio è infinito e illimitato, ugualmente infinito e illimitato è il nostro desiderio di Lui, che non può appagarsi di nessuna meta, giacché vogliamo conoscere Dio non attraverso specchi e riflessi ma faccia a faccia - e questo volto, luminoso e oscuro, ci è celato. Musil non lesse mai Gregorio di Nissa; ma avrebbe ammirato in lui quello che sognava, e non fu in grado, di fondare: non una mistica della stasi, ma una mistica dell'ininterrotto movimento.
Indice - Sommario
Introduzione
TESTO E TRADUZIONE
Conspectus siglomm
Libro primo
Libro secondo
COMMENTO
Elenco delle abbreviazioni
Libro primo
Libri secondo
Indice dei passi della Sacra Scrittura
Indice dei nomi e dei termini tecnici
Indice delle cose notevoli
Prefazione / Introduzione
Dall'introduzione
I. L'autore e il suo ambiente. La Cappadocia, regione interna della penisola anatolica, sebbene percorsa per tempo dai missionari cristiani e aperta largamente all'evangelizzazione, fu sempre nell'antichità cristiana, come del resto anche classica, un ambiente marginale rispetto ai centri culturalmente più vivi, quali Alessandria, Antiochia, la provincia d'Asia. Ma nel quarto secolo, dopo essersi illustrata come luogo d'origine di vari capiparte ariani, da Gregorio il Cappadoce ad Eunomio, ebbe negli ultimi decenni il suo grande momento di splendore grazie a Basilio, Gregorio di Nazianzo e Gregorio di Nissa, che per l'appunto vengono usualmente denominati come i Cappadoci. Legati l'uno all'altro da vincoli di parentela e di amicizia - Gregorio di Nissa fu fratello di Basilio, Gregorio di Nazianzo amico di entrambi -, dotati di personalità molto diverse fra loro, costituirono tutti insieme un possente blocco di energie e capacità che in ambito sia politico sia soprattutto culturale esercitò profonda influenza nelle tormentate vicende della vita cristiana del tempo, molto al di là del ristretto limite della loro regione natia, sia nel contrastare l'arianesimo e altre sette eretiche, sia nel propagandare e promuovere la diffusione del monachesimo, sia nell'elevare tono e spessore della cultura cristiana a livelli mai raggiunti prima d'allora e subito assurti a valore paradigmatico per i secoli a venire in tutta la cristianità orientale.
Basilio fu di questo trio il leader indiscusso. Unico fra i tre ad essere dotato anche di attitudini politiche, geniale nella riflessione teologica e ricco di doti di autentico scrittore, capeggiò in Oriente la lotta contro l'arianesimo e movimenti affini negli anni cruciali 370-8, imponendo in ambito sia politico sia teologico le soluzioni che, due anni dopo la sua morte prematura, avrebbero trionfato nel concilio di Costantinopoli del 381. Gregorio di Nazianzo, inabile luogotenente di Basilio nella lotta politica, eccelse per gli splendori della sua asiana eloquenza facendo assurgere la controversia teologica ai massimi livelli letterari. Inabile come il Nazianzeno in campo politico, meno geniale del fratello, meno dotato sia dell'uno sia dell'altro quanto a capacità di oratore e scrittore, Gregorio di Nissa trovò la sua specifica collocazione nella ricerca teologica, nella interpretazione delle Scritture, nella riflessione d'argomento ascetico e mistico.
Tutti e tre insieme, grazie all'omogeneità di una formazione culturale particolarmente approfondita anche in campo classico, rappresentarono nel variegato panorama culturale della cristianità orientale del loro tempo l'ala più aperta all'influsso delle lettere profane, ch'essi ritennero indispensabili per un efficace avviamento propedeutico all'istruzione specificamente cristiana, fondata sullo studio della sacra Scrittura. Tale ideale, che incontrava ostilità da più parti ad opera di chi era abituato a considerare incompatibile la presenza di una componente profana nella formazione cristiana, essi propugnarono sul piano teorico e realizzarono anche praticamente con la loro opera letteraria. Questa loro iniziativa assunse speciale rilievo in quanto tutti e tre i nostri personaggi ebbero tortissimo interesse per la vita monastica, che tutti e tre praticarono per vario tempo e il cui ideale rimase in loro vivissimo anche quando diverse esigenze li costrinsero ad assumere altri uffici. Usualmente, infatti, l'ideale della vita monastica veniva sentito come incompatibile con gl'ideali della cultura classica, e di fatto la grande maggioranza dei monaci del tempo era quasi del tutto illetterata e programmaticamente ostile ad ogni apertura alla paideia greca. Di contro, i Cappadoci avvertirono la possibilità di conciliare le contrastanti esigenze, e pur in una scalarità di valori che ovviamente privilegiava lo studio della sacra Scrittura rispetto a quello di Omero e Platone, riuscirono a dimostrare in teoria e in pratica che essere monaco non significava necessariamente essere rozzo e ignorante. Questa loro convinzione fu conquista perenne della cristianità orientale.
Gregorio di Nissa nacque in Cappadocia in data incerta che si colloca intorno al 355, da famiglia di condizione molto elevata la cui origine cristiana si faceva risalire all'azione missionaria di Gregorio Taumaturgo, l'evangelizzatore del Ponto allievo di Origene. Tra parecchi fratelli e sorelle, Gregorio fu legato soprattutto a Macrina e a Basilio, maggiore di lui di circa cinque anni e cui fu sempre devotissimo. Ricevuta accurata istruzione, come si conveniva a persona del suo rango, anche se non consta che abbia perfezionato la sua istruzione ad Atene, come aveva fatto Basilio, in un primo tempo si dedicò alla vita civile in qualità di maestro di retorica e si sposò. Ma successivamente, per influsso del fratello, abbandonò il mondo e si ritirò nel monastero che Basilio aveva fondato in un'amena località presso il fiume Iris.
Ma Gregorio non potè godere a lungo dei suoi ozi contemplativi, perché le esigenze della lotta contro gli ariani spinsero Basilio a richiedere l'impegno attivo anche di lui, sebbene avesse già avuto occasione di lamentarsi della sua imperizia nella vita pratica. Infatti, diventato vescovo di Cesarea di Cappadocia e metropolitano della Cappadocia, Basilio ritenne opportuno far occupare alcune sedi episcopali vacanti da persone di sua assoluta fiducia, per impedire manovre a suo danno da parte degli avversari. Nel contesto di tale politica, nell'autunno del 371 Gregorio fu consacrato vescovo di Nissa; ma l'importante ufficio portò in piena luce la sua inettitudine pratica, che il fratello ebbe occasione di rimproverargli più volte. Senza gran successo, dobbiamo pensare, se nel 576 un concilio di vescovi filoariani, riunito proprio a Nissa, lo mise sotto accusa a causa di irregolarità amministrative e lo depose. Gregorio fu perfino arrestato, ma il fratello provvide a farlo fuggire e a nasconderlo in un luogo sicuro.
Opera di Sulpicio Severo, la "Vita di Martino" ci trasporta nell'ambiente militare della Gallia del IV secolo. La "Vita di Ilarione" è un divertentissimo racconto di avventure, di viaggi, di fughe in luoghi sempre più lontani e di miracoli quasi umoristici. "In memoria di Paola" è la storia - narrata da Girolamo come la precedente vita - di una grande aristocratica romana, che abbandonò la sua città per vivere nei luoghi dove Cristo aveva vissuto. Edizione con testo a fronte.
Con le "Vite di Temistocle e di Camillo", a cura di Carlo Carena, Mario Manfredini e Luigi Piccirilli, la Fondazione Valla prosegue l'edizione di tutte le Vite di Plutarco, in un nuovo testo critico e con un ampio commento scientifico.
In Temistocle, Tucidide scorse un supremo leader politico, capace di trasformare Atene da piccola città agricola in impero marinaro; mentre i nemici videro in lui il simbolo di ogni vizio. Ai nostri occhi, Temistocle incarna nella sua figura tre singolari qualità umane: un'ambizione divorante, una bruciante passione per il potere e la gloria, che lo spinse a violare la "misura" raccomandata dai moralisti antichi; un'intelligenza astuta, duttile, tortuosa e labirintica, come quella di Ulisse (i Persiani lo definivano "una serpe greca dal dorso screziato") ; e un carisma visionario, che gli apportava le rivelazioni decisive in sogno. Raccontandone la vita, come sempre gli accade quando si tratta di eroi della "dismisura", Plutarco esibisce le sue eccelse doti narrative: nessun lettore di questo volume potrà facilmente dimenticare episodi come l'abbandono di Atene, l'invasione persiana, la battaglia di Salamina, gli ultimi anni di Temistocle.
Con la "Vita di Camillo", Plutarco compie un altro dei suoi scavi nell'enigma di Roma arcaica. Camillo dedica un tempio a Mater Matuta, dea dell'aurora: egli è colui che trionfa all'alba; e come Mercurio, di cui porta il nome, si serve del fuoco e del "furto" per avere il sopravvento sui nemici. Attorno a lui, una Roma tutta immersa nel prodigioso e nel sacro: laghi che straripano a causa di sacrilegi, statue che parlano e sudano, oracoli da interpretare, i segreti delle Vestali. Compaiono i Galli, minacciando Roma di irreparabile rovina: e Plutarco rappresenta la loro invasione come la storia della migrazione di gente del nord da luoghi ricchi d'ombra verso il caldo di un paese pianeggiante e insalubre.
Indice - Sommario
Introduzione
Appendice all'Introduzione
Bibliografia generale
TESTO E TRADUZIONE
Sigla
La vita di Temistocle
La vita di Camillo
Scoli
COMMENTO
La vita di Temistocle
La vita di Camillo
APPENDICE
Nota al testo
Addenda
Indice dei nomi
Prefazione / Introduzione
Dall'introduzione
La "Vita di Temistocle". Generalmente si ritiene che Temistocle sia un personaggio caratterizzato storicamente meglio di Solone; tuttavia, la cronologia degli avvenimenti della sua vita è quanto mai incerta e costituisce oggetto di discussione da parte degli studiosi moderni. Neppure del suo tradimento fu addotta mai una prova decisiva, nonostante le accuse dei suoi avversari. Per le sue non comuni doti di abilità e di scaltrezza, per la sua capacità di trarre profitto da ogni situazione, per il suo programma marittimo volto sia verso l'Oriente sia verso l'Occidente, Temistocle appare per un verso la prefigurazione di Alcibiade e per un altro quella di Pericle. Non è tutto : egli è stato definito a ragione "un type d'homme a métis"; e infatti, più d'ogni altro, pare incarnare quella forma d'intelligenza pratica, chiamata dai Greci metis e contraddistinta dall'inganno, dalla sorpresa e soprattutto dall'astuzia, che implica una permanente minaccia per ogni tipo di ordine costituito. E ciò in quanto la metis - si sa - opera nel dominio del mutevole e dell'imprevisto per meglio capovolgere situazioni e gerarchie già costituite, ricorrendo ad armi particolari, come reti, nasse, esche, lacci, trappole, trabocchetti, insomma a tutto ciò che è intessuto, ordito, macchinato. Temistocle presenta appunto una mente equivoca, tortuosa e complicata come i labirinti; è dotato d'intelligenza pratica; possiede la saggezza (sophia), cioè l'abilità politica (deinotes politike), e l'intelligenza che presiede all'azione (drasterios synesis: 2,6). Secondo la tradizione (2,6 sg.), egli aveva appreso tali qualità da Mnesifilo (una specie di "doppio" dell'intelligenza temistoclea), che gli suggerì un piano estremamente astuto, a cui Temistocle dovrà la sua fama: la trappola di Salamina, grazie alla quale i Greci riuscirono a mutare a proprio vantaggio una situazione di netta inferiorità. Lo stratagemma, seguito o ideato da Temistocle, pare ispirarsi a un procedimento in uso presso i pescatori, vale a dire all'accerchiamento con cui essi catturano alcuni pesci. A Salamina, il greco Temistocle manovrò come alla pesca del tonno: attirata con l'inganno (lo stratagemma di Sicinno: 12,5 sgg.) la flotta nemica, chiuse la rete e i Persiani si trovarono intrappolati come tonni. Proprio per tali qualità (raggiro, astuzia, dolo, ecc.), che gli valsero presso gli antichi e i moderni l'appellativo di Odisseo, Temistocle divenne oggetto di critiche e di lodi. Già il suo maestro - narra Plutarco (2,2) - soleva dirgli che sarebbe diventato grande in tutto, nel bene come nel male; e infatti il suo operato diede origine ben presto a due tradizioni storiografiche, l'una ostile e l'altra elogiativa.
La prima, che tendeva a metterne in rilievo l'astuzia, l'avidità e la corruttibilità, è testimoniata da Timocreonte ed Erodoto. Mentre, però, la polemica di Timocreonte, che rappresentò Temistocle come un uomo facile alla corruzione, privo di scrupoli e ambizioso (21,5 sgg.), ebbe carattere soprattutto personale senza alcuna (o con attenuata) implicazione politica, il ritratto erodoteo, poco lusinghiero, fu frutto dell'avversione nei confronti di Temistocle delle fonti d'informazione da cui attinse lo storico. Un esame, anche superficiale, dei passi di Erodoto rivela che Temistocle è sì la figura che domina la narrazione della guerra contro Serse, ma che la sua personalità viene presentata sotto una luce ambigua: è esaltata l'astuzia, mai la genialità; non è lui l'artefice del successo di Salamina, ma Mnesifilo (VIII 57 sg.); per soddisfare l'insaziabile pleonexia ("avidità"), si procura ricchezze all'insaputa degli altri comandanti, estorcendo denaro agli abitanti di Paro e di Caristo (VIII 112); sfruttando ogni occasione per il proprio tornaconto, cerca di cattivarsi le empatie dei Persiani (VIII 109 sg.). La descrizione erodotea evoca subito alla mente l'erma-ritratto di Temistocle, rinvenuta a Ostia nel 1959 e dalla quale pare sprigionarsi una forza fisica rattenuta, una violenza e un'ostinazione che può mutarsi in qualsiasi momento in furore. Il ritratto sembra adattarsi perfettamente a quel Temistocle che, esigendo denaro dagli Andri, affermava di essere giunto presso di loro in compagnia di due dee, la Persuasione e la Necessità (Erodoto, VIII 111). Gli elogi sono pochissimi (VII 144; VIII 110): solo una volta Erodoto, parlando di lui, afferma che "ebbe voce e fama" di essere di gran lunga il più saggio di tutti i Greci (VIII 124); ma questa connotazione di Temistocle quale sophotatos appare essere piuttosto opinione degli altri che dello storico, quasi egli intendesse scindere, in tale giudizio, la propria valutazione dalla communis opinio, La palese partigianeria, che evidenzia soprattutto i difetti di Temistocle, pare provenire a Erodoto dalla sua simpatia nei confronti degli Alcrneonidi (V 62-71; VI 121-51) e dei Cerici (gli "Araldi" dei misteri eleusini): ai primi apparteneva quel Leobote che presentò l'accusa di tradimento contro Temistocle (25,1; Mar, 605 e), ai secondi il suo avversario politico, Aristide (Arisi. 25,4 e 6), legato pure agli Alcrneonidi {Arisi. 2,1 ; Mor. 790 f; 805 f). E questo spiega anche la lode erodotea tributata ad Aristide, definito "l'uomo migliore e il più giusto di Atene" (Vili 79). Tuttavia, al tempo in cui Erodoto scriveva le Storie (450-20 circa), la "leggenda" di Temistocle s'era già formata, e il contrasto fra lui tutto scaltrezza (sophotatos) e Aristide tutto giustizia (dikaiotatos) difficilmente poteva passare in secondo piano: la disonestà dell'uno risultava evidente dalle accuse di Timocreonte, l'onestà dell'altro veniva esaltata quasi polemicamente dagli alleati di Atene, i quali, sottoposti dopo il 478/7 a contribuzioni sempre più gravose, provavano nostalgia per le fasi iniziali della lega delio-attica e vedevano in Aristide il realizzatore di un sistema più equanime di quello attuato da Pericle.