«Caro Pier Paolo, ho in mente una bellissima fotografia di te, solitario come al solito, che cammini, no forse corri, sui dossi di Sabaudia, con il vento che ti fa svolazzare un cappotto leggero sulle gambe. Il volto serio, pensoso, gli occhi accesi. Il tuo corpo esprimeva qualcosa di risoluto e di doloroso. Eri tu, in tutta la tua terribile solitudine e profondità di pensiero. Ecco io ti immagino ora così, in corsa sulle dune di un cielo che non ti è più ostile». (Dacia Maraini). Pier Paolo Pasolini è un autore di culto anche per i più giovani. La sua è stata una vita fuori dagli schemi: per la forza delle sue argomentazioni, l'anticonformismo, l'omosessualità, la passione per il cinema, la sua militanza e quella morte violenta e oscura. Sono passati cento anni dalla sua nascita, e quasi cinquanta dalla sua scomparsa. Eppure è ancora vivo, nitido, tra noi, ancora capace di dividere e di appassionare. Di quel mondo perduto, degli amici che lo hanno frequentato, della società letteraria di cui ha fatto parte, c'è un'unica protagonista, che oggi ha deciso di ricordare e raccontare: Dacia Maraini. Dacia Maraini è stata una delle amiche più vicine a Pier Paolo. E in queste pagine la scrittrice intesse un dialogo intimo e sincero capace di prolungare e ravvivare un affetto profondo, nutrito di stima, esperienze artistiche e cinematografiche, idee e viaggi condivisi con Alberto Moravia e Maria Callas alla scoperta del mondo e in particolare dell'Africa. Maraini costruisce questa confessione delicata come una corrispondenza senza tempo, in cui tutto è presente e vivo. Nelle lettere a Pier Paolo che definiscono l'architettura narrativa del libro hanno un ruolo centrale i sogni che si manifestano come uno spazio di confronto, dove affiorano con energia i ricordi e si uniscono alle riflessioni che la vita, il pensiero e il mistero sospeso della morte di Pasolini ispirano ancora oggi all'autrice. Lo stile intessuto di grazia e dolcezza, ma anche di quella componente razionale e ferma, caratteristica della scrittura di Dacia, fanno di questo disegno della memoria che unisce passato, presente e futuro non solo l'opera piú significativa, ma l'unica voce possibile per capire oggi chi è stato davvero un uomo che ha fatto la storia della cultura del Novecento.
«L'unica cosa importante in questo tipo di ritratti scritti e cercare la distanza giusta, che è lo stile dell'unicità». Così scrive Emanuele Trevi in un brano di questo libro che, all'apparenza, si presenta come il racconto di due vite, quella di Rocco Carbone e Pia Pera, scrittori prematuramente scomparsi qualche tempo fa e legati, durante la loro breve esistenza, da profonda amicizia. Trevi ne delinea le differenti nature: incline a infliggere colpi quella di Rocco Carbone per le Furie che lo braccavano senza tregua; incline a riceverli quella di Pia Pera, per la sua anima prensile e sensibile, cosi propensa alle illusioni. Ne ridisegna i tratti: la fisionomia spigolosa, i lineamenti marcati del primo; l'aspetto da incantevole signorina inglese della seconda, così seducente da non suggerire alcun rimpianto per la bellezza che le mancava. Ne mostra anche le differenti condotte: l'ossessione della semplificazione di Rocco Carbone, impigliato nel groviglio di segni generato dalle sue Furie; la timida sfrontatezza di Pia Pera che, negli anni della malattia, si muta in coraggio e pulizia interiore. Tuttavia, la distanza giusta, lo stile dell'unicità di questo libro non stanno nell'impossibile tentativo di restituire esistenze che gli anni trasformano in muri scrostati dal tempo e dalle intemperie. Stanno attorno a uno di quegli eventi ineffabili attorno a cui ruota la letteratura: l'amicizia. Nutrendo ossessioni diverse e inconciliabili, Rocco Carbone e Pia Pera appaiono, in queste pagine, come uniti da un legame fino all'ultimo trasparente e felice, quel legame che accade quando «Eros, quell'ozioso infame, non ci mette lo zampino».
A fine novembre, con il cielo di Lisbona carico di pioggia, Vasco Dos Santos chiude la sua galleria in Travessa dos Fieis de Deus sempre più tardi. Non ha alcuna voglia di tornare a casa da sua sorella Rita, divenuta ormai intrattabile. Nata deforme e, grazie al coraggio e alla tenacia della madre Maria do Ceu, «ricostruita» attraverso una lunga e dolorosa serie di operazioni, Rita è ormai costantemente in preda all'ira. La morte di sua madre, dell'unica persona capace di preservare l'armonia familiare, ha inasprito oltre ogni misura i suoi rapporti non soltanto con Vasco, ma anche con la sorella Joana, la cui bellezza è così abbagliante da risultare dolorosa, e con il padre Tiago, che anni prima, per sfuggire alla tragedia della figlia, ha abbandonato la famiglia e si è legato a Marta, una donna rancorosa che lo spinge a recidere ogni legame con il suo passato. Tuttavia, da uomo pragmatico quale è, Tiago ha trovato un modo per mantenere un, seppur fragile, contatto con i figli: la domenica, ogni domenica della sua vita, la dedica al pranzo con loro. Una cosa frettolosa, niente di troppo familiare. Un flebile omaggio alla volontà di Maria do Ceu di tenere uniti i figli. È in uno di questi pranzi che i tre fratelli si ritrovano a condividere una scoperta sorprendente: nessuno di loro conserva ricordi del passato. Perché hanno rimosso tutto? La loro vita è stata infelice al punto da volerla dimenticare quasi completamente? Spetterà a Rita ricostruire la storia della famiglia attraverso i documenti ufficiali emersi dagli archivi di Stato, scoprendo una realtà ben diversa da quella che Maria do Ceu aveva raccontato. Nel frattempo, a turbare ulteriormente gli «squilibri» di questa complicata famiglia portoghese sarà l'arrivo di Luciana Albertini, un'eccentrica, visionaria pittrice italiana che farà breccia nel cuore di Vasco.
Dalla collina di Capodimonte, la «Posillipo povera», Rosa guarda Napoli e parla al corpo di Vincenzina, la madre morta. Le parla per riparare al guasto che le ha unite oltre il legame di sangue e ha marchiato irrimediabilmente la vita di entrambe. Immergendosi «nelle viscere di un purgatorio pubblico e privato», Rosa rivive la storia di sua madre: l'infanzia povera in un'arida campagna alle porte della città; l'incontro, tra le macerie del dopoguerra, con Rafele, il suo futuro padre, erede di un casato recluso nella cupa vastità di un grande appartamento in via Duomo; il prestito a usura praticato nel formicolante intrico dei vicoli, dove il rumore dei mercati e della violenza sembra appartenere a un furore cosmico. E una narrazione di soprusi subiti e inferti, di fragilità e di ferocia. Ed è la messinscena corale di molte altre storie, di «anime finte» che popolano i vicoli e, come attori di un medesimo dramma, entrano sulla ribalta della memoria: Annarella, amica e demone dell'infanzia e dell'adolescenza, Emilia, la ragazzina che «ride a scroscio» e torna un giorno dal bosco con le gambe insanguinate, il maestro Nunziata, utopico e incandescente, Marioma-ria, «la creatura che ha dentro di sé una preghiera rovesciata», Iolanda, la sorella «bella e stupetiata»... «Anime finte» che, nelle profondità ipogee di una città millenaria, attendono, come Vincenzina e come la stessa Rosa, una riparazione. Arriverà, sorprendente e inaspettata, nelle pagine finali del libro ad accomunare madre e figlia in un medesimo destino.
I libri sui padri sono sempre una resa dei conti col morto che, in quanto tale, non parla. Non così questo libro, per metà puro romanzo e per l'altra metà memoir familiare, che parte invece dal giorno in cui il futuro padre nasce e ne reinventa la storia. Romana Petri racconta così i sessantatré anni di vita di un uomo, dal 1922 al 1985, ma anche quelli italiani, dal fascismo alla guerra alla ricostruzione al boom economico e oltre. C'è l'infanzia nell'Italia rurale nella campagna vicino a Perugia, e poi l'adolescenza condivisa con una banda di scavezzacollo in quella città allora poco più grande di un paese, tra serenate notturne al balcone della bella di turno ed esuberanti scazzottate coi soldati alleati giunti dopo la liberazione. E poi c'è una Roma carica di promesse, in anni in cui nessuna meta è preclusa: il benessere, le auto sportive, le villeggiature, le conquiste amorose, un successo che pare senza limiti. Infine, la realtà che cancella l'illusione di non poter mai più tornare indietro: la caduta, le crisi, le difficoltà da cui riemergere con la tenacia degli anni formativi. Mario Petri detto "Ciclone" è un padre ingombrante. È grande e grosso ma capace di coltivare una sua fine sensibilità. Ha l'animo di un cavaliere antico, e il suo futuro sarà quello di un uomo di spettacolo nato per vestire i panni di personaggi eroici tanto nell'opera lirica quanto nel cinema. Intorno a Mario e Lena e ai figli nati dal loro grande amore s'incontrano tanti personaggi famosi...
In una mite sera d'autunno, Natalia e Martin tornano in bicicletta da una cena al loro solito ristorante greco di Erlangen, in Germania. Ha piovuto e la strada è bagnata e buia. La ciclabile è troppo stretta per viaggiare affiancati. Martin, che ha bevuto tre ouzo, pedala forte e ogni tanto si mette a cantare. Natalia resta indietro, impacciata sulla bicicletta dell'ex fidanzata di Martin, troppo grande per lei. Nel buio, nota una sagoma scura sulla sua destra, un uomo incappucciato, avvolto in un cappotto nero, che saltella sul marciapiede. Continuando a saltellare, l'uomo la raggiunge, le taglia la strada e si allontana. Poco prima di frenare e poggiare i piedi per terra, Natalia si rende conto di avere una sostanza appiccicosa sulla faccia: uno sputo. Ore dopo, sotto shock, la ragazza ricorda agli inquirenti il tragico succedersi degli eventi: lei che urla a Martin di raggiungerla e, indignata, lo ragguaglia sull'offesa ricevuta, Martin che si lancia rabbiosamente all'inseguimento dell'uomo nero, Martin e l'incappucciato che lottano, Martin che si accascia al suolo, colpito mortalmente da numerose coltellate, l'incappucciato che fugge. Articoli a pagina piena sui giornali, servizi in tv, con i residenti della zona che piangono o mostrano flaconi di spray al pepe, e cani che annusano il punto in cui è avvenuto il crimine, il caso desta uno scalpore enorme in Germania...
Il 9 aprile 1953, in un'aula della corte d'assise di Milano, Emanuele Almansi, libraio-antiquario, compare davanti ai suoi giudici con l'imputazione di aver tentato di uccidere il proprio figlio Federico. Con la sua figura dimessa e antica nel suo abito scuro e lo sguardo distaccato e del tutto privo di vergogna, in quella fredda aula di tribunale Almansi non solo ammette ogni addebito, ma riconosce persino la premeditazione del suo tentato omicidio. Lo fa ricordando innanzi tutto la fatalità che sovrastava da tempo immemorabile la sua famiglia: il male che aveva offuscato l'esistenza di suo nonno e di suo padre, morto in manicomio; aveva ammantato periodicamente la sua vita di malinconia e depressione e si era, infine, crudelmente manifestato in Federico, il figlio amato, il precoce poeta quindicenne, amico di uno dei più grandi poeti italiani, Umberto Saba, diventato totalmente inabile al lavoro dopo i primi segni di schizofrenia. Il pensiero di Federico destinato a vivere in povertà, e a consumare i suoi giorni in un manicomio, era diventato così disperante e ossessivo per il libraio-antiquario che la decisione di uccidere se stesso e il figlio gli era apparsa come la sola, unica possibilità. Una possibilità restata tale, visto che l'omicidio non era stato portato a compimento, ma che, nell'aula della corte d'assise di Milano, attraversò la mente di ognuno nell'istante in cui fece la sua apparizione tra i testimoni Federico Almansi in persona...
"Il genio dell'abbandono" racconta la vita del più grande scultore italiano fra Otto e Novecento: Vincenzo Gemito. È il romanzo di un'avventura eversiva e donchisciottesca, sullo sfondo di una Napoli vissuta come "un paese imprecisato che stava diventando la sua frontiera di malato", a contatto coi protagonisti della cultura del tempo. Wanda Marasco prende le mosse dalla fuga dell'artista dalla clinica psichiatrica in cui è ricoverato, e da lì ricostruisce la storia agitata di un "enne-enne", un figlio di nessuno abbandonato sulla ruota dell'Annunziata. Il marchio del reietto, beffardamente impresso nel suo stesso nome che è il risultato di un errore di trascrizione, lo accompagnerà per sempre. Il suo apprendistato lo farà nei vicoli, al fianco di un altro futuro grande artista, il pittore Antonio Mancini, suo inseparabile amico che diventerà anche coscienza di Gemito, suo complice totale e infine suo nemico. Vedremo così "Vicienzo" entrare nelle botteghe in cerca di maestri, avido di imparare. Lo seguiremo a Parigi, tra stenti da bohème e sogni di celebrità, e lo ritroveremo a Napoli, artista ambito da mercanti e da re. Vivremo il suo folle amore per la modella Mathilde Duffaud, che ne segna la vita come un sistema dell'erotismo e del dolore, un impasto di eccessi e delusioni che sfociano in una follia tutta "napoletana": intelligenza alla berlina, incandescenza e passioni spesso arrese a un destino malato di cui il "vuoto" di Napoli voracemente si nutre.
Uno scrittore cileno dell'Ottocento ha detto una volta che gli europei in visita nell'America del Sud parlano sempre di vulcani, selve amazzoniche, tempeste di Capo Horn, poiché non possono fare a meno di celebrarne la natura selvaggia. Anche Malatesta parla della natura del continente australe, ma i veri protagonisti di questo libro sono gli indios della Terra del Fuoco considerati da Darwin l'anello mancante tra la scimmia e l'uomo, mentre avevano un vocabolario con oltre cinquanta parole per dire "mangiare il pesce"; megalomani come Popper che, proclamatosi re e imperatore della Terra del Fuoco, batteva moneta d'oro con la sua effige; sindacalisti contadini che, come Facon Grande, lavoravano nelle grandi aziende della Patagonia e venivano passati per le armi dai militari argentini; scrittori come Francisco Coloane, grande cantore del mondo australe con i suoi personaggi: cercatori d'oro, allevatori di cavalli, briganti che danno la caccia agli indios per incassare la taglia messa sul loro capo. Malatesta è stato ovunque, con tutti i mezzi possibili e anche impossibili. Ma questo non è un libro semplicemente deambulatorio. I racconti che lo compongono cominciano sempre con un viaggio ma finiscono altrove: nella storia, nella geografia, nell'antropologia, nella letteratura. Il risultato è un corpus romanzesco estremamente compatto sotto l'apparente divisione dei capitoli. Un romanzo dell'America latina che si muove secondo una direzione sud-nord, da Capo Horn fino al Messico...
"Per anni... ho vissuto con l'orecchio destro schiacciato contro una parete sottile". Fin dall'età di tre anni, il giovane protagonista di queste pagine abita con la madre in un bilocale del centro storico di una città di provincia nel nord Italia. Una casa modesta, che è la frazione di un appartamento ben più vasto e nobile nel quale vive una famiglia numerosa, due genitori e quattro figli che sembrano il ritratto dell'esistenza armoniosa. Dal sottile tramezzo che divide le due abitazioni, e che passa proprio per la sua stanza, il ragazzo sente le voci e i rumori della truppa chiassosa e felice che gli vive accanto: le grida dei saluti, del gioco e dei dispetti delle sorelline, le cartelle sbattute, le corse nel lungo corridoio, e poi gli scambi fra i due genitori, che sembrano costanti confidenze, parole sussurrate da vicino. Ma sono soprattutto le note del pianoforte, magistralmente suonato dalla madre dei quattro ragazzi, una signora bionda che per la famiglia ha rinunciato alla carriera di concertista, a invadere la stanza e il tempo del ragazzo. Lui, che è un tipo solitario, legge molto ma non sa nulla di musica, e quell'ascolto involontario lo emoziona e lo turba fino a sconvolgerlo. Quando poi, per un'improvvisa malattia del marito, la pianista resterà vedova e affronterà gli anni del lutto chiedendo aiuto al suo strumento, il giovane sarà costretto a seguirla in un viaggio attraverso il dolore che gli apparirà tanto irresistibile quanto incomprensibile...
I festeggiamenti per la vittoria dell'Italia ai mondiali di calcio impazzano ancora nel torrido pomeriggio del 1982 in cui Aldo Fantini riceve la visita della polizia. Sessant'anni appena toccati, Fantini si stava preparando il suo caffè pomeridiano con la meticolosa cura di chi è da due mesi in pensione, quando si ritrova al cospetto di un poliziotto alto e magro che, con una voce che suona lontana come in un incubo, gli annuncia che Bruna Fantini, sua figlia, è deceduta in compagnia di un amico in un incidente d'auto lungo un grande viale di Milano. Con lo stesso tono, il poliziotto aggiunge poi che nell'appartamento di Bruna Fantini è stata ritrovata sola, e naturalmente ignara dell'accaduto, la figlia della giovane donna, una bambina di nome Marta. Sono dieci anni che Aldo Fantini non ha più notizie di Bruna, precisamente dal momento in cui la scomparsa della moglie ha significato anche l'allontanamento di casa della figlia. Ignorava così tutto della vita di Bruna, in primo luogo che avesse a sua volta una figlia e che lui fosse diventato nonno. Dolore e compassione cancellano tuttavia le colpe e i torti degli anni, e così l'uomo non esita a prendersi totalmente cura della nipote. Ne chiede l'affidamento e, dopo essersi recato a casa della figlia, recupera vestiti, bambole, scatole di perline, cassette di lacca rossa per cercare di alleviare sofferenza e solitudine della bambina. Ma è un nonno che Marta non ha mai conosciuto, un estraneo per la ragazzina...
"Chi ha rivelato Roma ai romani è stato un non romano, un veneto, Silvio Negro, capo della redazione romana del Corriere della Sera e vaticanista di fama europea", scrive Stefano Malatesta nell'introduzione a questa nuova edizione di "Roma, non basta una vita", l'opera più nota del giornalista e scrittore considerato il creatore della nuova informazione vaticana, l'inventore del vaticanismo moderno. Volume postumo, pubblicato per la prima volta dopo due anni dalla morte di Negro - il titolo si deve a Dino Buzzati, grande amico dell'autore -, il libro segna una svolta rilevante tra i cultori della "romanità". Prima di Negro imperavano, come scrive Malatesta, "romanisti, cultori e retori di una romanità medio-borghese, che avevano come numi tutelari non il grandissimo Belli ma Trilussa e Pascarella". Con Negro, scrittore che aveva vinto il Premio Bagutta nel '36, dopo Gadda, Palazzeschi e Comisso, l'aneddotica romanesca assurge a genere letterario in grado di illuminare, più di numerosi e ponderosi saggi, l'arte e la storia autentica della capitale. Come il flâneur di benjaminiana memoria, Negro conduce il lettore negli angoli più riposti della capitale, là dove "l'anima e il corpo" della Città eterna possono offrirsi davvero allo sguardo. Non soltanto, dunque, il Colosseo, San Pietro, i Fori, il Campidoglio e così via, ma la piazzetta che si schiude inaspettata, con la sua luce insolita, tra i palazzi. Prefazione di Emilio Cecchi.