Nessun fiume al mondo ha visto scorrere tanta Storia, assistito a eventi così determinanti per i destini dell'umanità intera. Lungo le sue sponde si è generato ciò che siamo. Era un Padre, il Tevere. Addirittura un dio. Eppure è abbandonato, scartato, invisibile, come tutto quello che non è utile alla modernità. È un fiume sconosciuto; percorrerlo oggi, dalla foce di Ostia alle sorgenti in Romagna, è come esplorare una regione esotica, viaggiare tra le rovine d'una civiltà perduta che ha smarrito il contatto con il passato, la terra, il senso del divino. È ancora il fiume simbolo della nazione - forse dell'Occidente -, Storia fatta d'acqua, che custodisce il mito, l'identità, la bellezza e il capolavoro; ma anche via maestra da cui osservare la decadenza dell'Italia, di Roma, degli Appennini che si spopolano, dei borghi passati dal misticismo al materialismo. Risalendo alla sacra fonte, in compagnia di Enea, dei Borgia, di San Francesco e di tutte le figure che hanno segnato la biografia del Tevere, ma anche insieme a personaggi di oggi dal fascino romanzesco, Marzio G. Mian fa confluire nella narrazione altri corsi d'acqua che attraversano territori lontani. Come nello scorrere della vita, paesaggi, incontri e voci si mescolano a formare un'intima geografia, poiché, scriveva T. S. Eliot, il fiume è dentro di noi, il mare tutt'intorno a noi.
Un nuovo diritto non previsto né codificato da alcuna legge si è prepotentemente affacciato, nel nostro tempo, sulla scena: il diritto al figlio. Per molti è un semplice passo in avanti sul piano della libertà individuale, reso possibile dall’inarrestabile progresso delle tecnoscienze. Per l’autrice di queste pagine è il segno di una trasformazione antropologica di vasta portata in cui sono in questione i punti nevralgici della condizione umana, a cominciare dalla generazione.
Nulla più delle modificazioni linguistiche e giuridiche è in grado di mostrare la profondità di questa trasformazione. In molti paesi i termini stessi di «madre» e «padre» vengono cancellati; la frase «nato da...» viene sostituita da «figlio di..»; la «parentela» sparisce e si affermano nuovi termini sessualmente neutri, quali «genitorialità», «progetto genitoriale» ecc. Infine, una nuova formula giuridica, il contratto di affitto dell’utero, rende giuridicamente disponibile ciò che in tutte le legislazioni occidentali è sempre stato giudicato indisponibile: il corpo umano. Il risultato è che la scena della generazione muta radicalmente.
Comprende ora, oltre ai due genitori, i donatori o la donna che affitta l’utero, i medici addetti alle operazioni necessarie, le istituzioni che mediano i rapporti fra i cosiddetti «donatori» con gli aspiranti genitori; i legali, indispensabili per definire la «proprietà» del bambino e l’eventuale anonimato del donatore.
Un teatro in cui scompare un’unica figura: la madre, quale detentrice unica, secondo Lucetta Scaraffia, di quella capacità di procreare che da sempre gli uomini hanno invidiato alle donne.
Il giorno in cui, per la prima volta, parlarono a Domenico Quirico del califfato fu un pomeriggio, un pomeriggio di battaglia ad al-Quesser, in Siria. Domenico Quirico era prigioniero degli uomini di Jabhat al-Nusra, al-Qaida in terra siriana. Abu Omar, il capo del drappello jihadista, fu categorico: "Costruiremo, sia grazia a Dio Grande Misericordioso, il califfato di Siria... Ma il nostro compito è solo all'inizio... Alla fine il Grande Califfato rinascerà, da al-Andalus fino all'Asia". Tornato in Italia, Quirico rivelò ciò che anche altri comandanti delle formazioni islamiste gli avevano ribadito: il Grande Califfato non era affatto un velleitario sogno jihadista, ma un preciso progetto strategico cui attenersi e collegare i piani di battaglia. Non vi fu alcuna eco a queste rivelazioni. Molti polemizzarono sgarbatamente: erano sciocchezze di qualche emiro di paese, suvvia il califfato, roba di secoli fa. Nel giro di qualche mese tutto è cambiato, e il Grande Califfato è ora una realtà politica e militare con cui i governi e i popoli di tutto il mondo sono drammaticamente costretti a misurarsi. Questo libro non è un trattato sull'Islam, poiché si tiene opportunamente lontano da dispute ed esegesi religiose. È soltanto un viaggio, un viaggio vero, con città, villaggi, strade e deserti, nei luoghi del Grande Califfato.
La mattina del 26 dicembre 2004, Sonali è a Yala, un parco nazionale lungo la costa sudo-rientale dello Sri Lanka, con tutta la sua famiglia: Steve, il marito, i due figli e i vecchi genitori. Sono arrivati da Londra da quattro giorni, entusiasti all'idea di trascorrere le vacanze in un luogo dove abbondano le aquile pescatrici. Vikram, il figlio di otto anni, le adora a tal punto che se ne sta seduto ore e ore sulla sponda della laguna che confina con l'albergo, nella speranza di vederle. Sulla soglia della camera, Sonali chiacchiera con Orlantha, una giovane amica che ha fondato a Colombo un'orchestra di bambini, quando quest'ultima sussurra: "Oh, mio Dio, il mare sta entrando". Sull'oceano avanza la cresta bianca di un'onda. Un fenomeno insolito, poiché dalla stanza il mare è di solito soltanto un luccichio azzurro al di sopra dell'ampia distesa di sabbia che scende ripida verso l'acqua. "Nulla di allarmante", pensa Sonali e chiama Steve a contemplare lo spettacolo, mentre Vikram, seduto accanto all'uscita sul retro, legge la prima pagina di un libro, "Lo Hobbit". Tutto, però, precipita in un attimo. La spuma raggiunge la battigia, scala un pendio e si tramuta in onde che sciabordano sul crinale dove termina la spiaggia e non tornano indietro, anzi si fanno più vicine. Marroni o grigie, superano veloci le alte conifere e, minacciose, si dirigono verso la loro camera. Sonali e Steve capiscono che è ora di fuggire.
Questo libro è un breviario delle citazioni sull'Italia e sugli italiani e, a un tempo, una inconfutabile conferma dell'esistenza di uno stereotipo dell'Italia e degli italiani. Il luogo comune che vuole il nostro Paese, visto dall'estero, tutto pizza, spaghetti, mandolino, mafia, mammismo, inaffidabilità, e visto dal di dentro, da noi stessi che lo abitiamo, tutto furbizia, menefreghismo, individualismo, familismo amorale, disamore per le istituzioni, e chi più ne ha più ne metta, trova bizzarre, affascinanti e fulminee formulazioni in queste pagine. "Si va - com'è scritto nell'introduzione - dalla "marmaglia miserabile" (Paul Klee) e dal "popolo senza sensibilità o immaginazione" (Shelley), dagli italiani che "passano il loro tempo a deridersi scambievolmente, a pungersi fino al sangue" (Leopardi) e per i quali è normale "il cambiar facilmente bandiera, la servilità verso i grandi, la mendicità di pensioni e premi" (Prezzolini), al "popolo impressionante", "primogenitura dell'Europa" (Burckhardt), di cui si deve "lodare la naturalezza, l'animo schietto, le belle maniere" (Goethe), con il "numero di geni, innovatori, santi, eroi" sempre "notoriamente superiore alle nostre necessità nazionali" (Barzini) e dotato dell'"allegria di passeggiare sullo spettacolo dell'esistenza come primi attori o trionfali comparse" (Citati).
In teoria, esiste un'identità napoletana forte, sedimentata nel corso di oltre due millenni, irrobustita da una grande tradizione culturale, contaminata dagli apporti più vari, fissata in una lingua ricchissima, in una copiosa letteratura e in migliaia di famose canzoni. In pratica, esistono i napoletani di oggi, afflitti da tanti problemi annosi e irrisolti, e animati da incrollabili speranze di riscatto. Hanno conservato una buona parte del loro retaggio storico e culturale, e sono in fondo "antichi" come la loro città, però tendono sempre più rapidamente a conformare i loro comportamenti e desideri, il loro immaginario e perfino il loro modo di esprimersi a quelli degli abitanti di qualsiasi altra città del mondo. Francesco Durante divide il suo libro in due parti intitolate per l'appunto "Teoria" e "Pratica", sforzandosi di farle dialogare, di mostrare come la seconda riesca ancora a esibire qualche elemento di originalità inequivocabilmente partenopea. Ne nasce un libro vivace e curioso, fondato su una ricchissima documentazione che disegna percorsi sorprendenti nella storia e nella cronaca di Napoli. Un libro che riesce a tenersi a distanza di sicurezza dal luogo comune e che continuamente sollecita e appaga la curiosità del lettore intorno al "mistero" della napoletanità che, nonostante tutto, nonostante la sua possibile riduzione a una condizione puramente spirituale o fantasmatica, ancora sa parlarci con accenti di profonda umanità.
In "Astrologia per intellettuali" Marco Pesatori lascia la parola ai poeti, ai filosofi, ai grandi scrittori: sono direttamente loro a farci conoscere lo stile, il modo d'essere, il pensiero e il desiderio dei dodici segni dello Zodiaco. Dalla passione bollente e travolgente dell'Ariete, espressa da Baudelaire e Verlaine, da Corso e Ferlinghetti, alla lenta e rigorosa analisi taurina, tra Kant, Marx e Freud. L'essere "nel mondo" dei Gemelli, spiegato da Sartre, e le visioni interiori e intime del Cancro, raccontate da Kafka, Proust e Giacomo Leopardi. La regalità alchemica del Leone, tra Marcel Duchamp e Mick Jagger, e lo sguardo preciso della disincantata Vergine, rappresentata da Hegel e Adorno. La forma perfetta della Bilancia di Nietzsche e Montale e l'azzardo fatale dello Scorpione, con Dostoevskij e Camus. L'avventura della sperimentazione del Sagittario, tra Flaubert e Frank Zappa, il fascino e il pragmatismo del Capricorno, da Moliére a David Bowie, il genio e la libertà dell'Aquario, tra Mozart e James Joyce, fino all'emozione e al sacrificio dei Pesci, con Kerouac e Pasolini.
La memoria della Shoah ha reso Israele indifferente alle sofferenze altrui. Il paese nella sua instabilità è ormai simile alla Germania degli anni Trenta. Il sogno e l'ideologia sionista hanno fallito. È il momento di abbandonare l'antica mentalità del ghetto accerchiato e di rivalutare la figura universalistica dell'ebreo della diaspora. Sono tesi molto provocatorie, che hanno suscitato un enorme dibattito e innumerevoli polemiche a partire dalla pubblicazione di "Sconfiggere Hitler" in Israele, nel 2007. L'autore, notissima figura pubblica israeliana, ex presidente del Parlamento, figlio di un uomo politico di grande influenza, ha avviato una critica radicale ai fondamenti attuali dello Stato di Israele, alla sua identità collettiva definita, sessant'anni dopo Auschwitz, quasi esclusivamente in rapporto con l'Olocausto.
Chi è Carl Schmitt? Il giurista conservatore divenuto teorico del nazismo, o il filosofo che ha pensato in modo nuovo le categorie del politico? Il pensatore geniale che ha incrociato le personalità più significative del suo tempo, da Benjamin a Heidegger, da Taubes a Ernst Jünger, o il consigliere di stato opportunista, che ha cercato di dare legittimità giuridica al nazismo? Il teorico convinto del decisionismo o piuttosto, come lo definì Karl Löwith, un occasionalista incerto e privo tanto di convinzioni che di scrupoli? I testi e le interviste qui raccolti cercano di dare una risposta a queste domande, proponendo una nuova immagine di una delle personalità più discusse e attuali del pensiero politico-giuridico del xx secolo.