Il 3 settembre 1939, in risposta all'occupazione della Polonia da parte di Hitler, la Gran Bretagna dichiara guerra alla Germania, e l'intero paese si prepara ai bombardamenti e all'invasione naziste. Le istruzioni del governo, impartite alla popolazione, non smorzano affatto la gravità dell'ora: «Dove il nemico atterrerà» avvertono, «i combattimenti saranno violentissimi». Vengono smontati i segnali stradali, distribuite trentacinque milioni di maschere antigas ai civili, l'oscuramento è così totale che nelle notti senza luna i pedoni urtano contro i pali della luce e inciampano nei sacchi di sabbia. La paura di ritrovarsi i tedeschi nel giardino di casa è tale che persino gli alti vertici dello Stato si preparano a scelte estreme. Harold Nicolson, futuro segretario parlamentare al ministero dell'Informazione, e la moglie, Vita Sackville-West, mettono nel conto la possibilità di suicidarsi pur di non cadere in mano nemica. «Dovrà essere qualcosa di rapido, indolore e poco ingombrante» scrive Vita al marito. Nel maggio 1940 i bombardamenti cominciano realmente. Dapprima con attacchi apparentemente casuali, poi con un assalto in piena regola contro la città di Londra: cinquantasette notti consecutive di bombardamenti, seguiti nei sei mesi successivi da una serie sempre più intensa di raid notturni. Nel maggio 1940, alle prime incursioni aeree sul suolo britannico, il primo ministro Neville Chamberlain, sfiduciato di fatto dal parlamento, si dimette e re Giorgio vi nomina al suo posto Winston Churchill. Dal 10 maggio 1940 al 10 maggio 1941 si svolge l'anno decisivo delle sorti del Regno Unito, l'anno che si conclude con «sette giorni di violenza quasi fantascientifica, durante i quali realtà e immaginazione si fusero, segnando la prima grande vittoria della guerra contro i tedeschi». L'anno in cui «Churchill diventò Churchill - il bulldog con il sigaro in bocca che tutti noi crediamo di conoscere - e in cui tenne i suoi discorsi più memorabili, dimostrando al mondo intero che cosa fossero il coraggio e la leadership». Erik Larson lo narra in questo libro, cronaca dei giorni bui e di quelli luminosi di Churchill e della sua cerchia ristretta, e racconto dei «piccoli ma curiosi episodi che rivelano come fosse realmente la vita durante le tempeste d'acciaio di Hitler».
Silvio Negro concepì questo libro dopo aver letto numerose opere sulle vicende politiche dell'ultimissima Roma papale, quella del regno di Pio IX, fra gli anni della Repubblica Romana e la conquista piemontese. Anni singolari e inquieti, nei quali la città, benché fosse perfettamente consapevole della fine dello Stato Pontificio, cercò di continuare a vivere come se non vi fossero bersaglieri e garibaldini alle porte. Sbirciando in quelle trattazioni, che si occupavano prevalentemente di avvenimenti politici e militari, Negro scoprì "scorci di paesaggio e di costume così inaspettati, così profondamente ed irrevocabilmente diversi da quelli della Roma del nostro tempo" da decidere di dedicare un volume intero all'urbe papale prima della sua malinconica fine. È la storia di una città ancora odorosa, com'è stato detto, di campagna, di pascolo e di stalla oltre che di splendori barocchi e glorie del passato. Una città in cui l'aristocrazia vive in gran parte in maniera sobria, non attacca i cavalli alle carrozze che nelle grandi occasioni e si accontenta di esibire la magnificenza del nome in feste date per dovere sociale una volta l'anno. Un luogo dove "gli stracci stessi del mendicante conservano una certa maestà", e cortesia e urbanità albergano in un popolo in cui è totalmente assente il "tipo canaglia, che altrove è così appariscente, specialmente a Londra e a Parigi".
La Storia ha assegnato ad alcuni personaggi il compito, affascinante, crudele e immane, di liquidare o di scuotere dalle fondamenta costruzioni storiche secolari, possenti ideologie, imperi e regni che avevano quasi assorbito il mondo. Un compito tragico nel senso classico del termine: perché la maggioranza tra gli Ultimi si è caricata sulla schiena questo peso essendone pienamente consapevole. Tutti erano in qualche modo certi che, comunque avessero assolto l'impegno, sarebbero rimasti nella Storia con il marchio degli infami, dei vinti, di notai miserabili di una eredità dilapidata, di traditori di fedi che dovevano essere incrollabili. Non c'è riconoscenza per gli Ultimi che sono sempre dei vinti agli occhi dei posteri. Eppure il Mondo Nuovo, che sorge sulle ceneri del Vecchio, spesso è opera loro. Tanti i casi e le storie esemplari: da Dario, il fragile, umanissimo, disperato rivale di Alessandro, a Gorbaciov, tormentato e malaccorto affossatore dell'Impero rosso di Lenin e di Stalin; da Atahualpa, ultimo inca paralizzato dai presagi della fine a Pu Yi, che nacque imperatore nella città proibita e finì guardia rossa; da Romolo Augustolo, l'imperatore per conto di un padre che non voleva la porpora pur avendo il potere, a Benedetto XVI che scoprì all'improvviso che non si può guarire neppure la chiesa dall'ingiustizia e dalla stupida ferocia degli uomini.
"Questo libro parla soprattutto dell'esperienza umana": avverte Max Hastings nell'introduzione a questa imponente storia della Seconda guerra mondiale. L'esperienza, innanzi tutto, di milioni di individui, soldati in prima linea o civili che fossero, schiacciati dalla necessità di sopravvivere nel mondo devastato dalla violenza e dall'orrore. Attraverso una miriade di microstorie estrapolate dai più diversi scenari del mondo in guerra, e costellate di aneddoti e testimonianze pregnanti, Hastings ricostruisce il teatro di un "inferno" globale che non risparmiò alcun angolo del pianeta. Nel ripercorrere la Storia che va dall'invasione della Polonia alle atomiche su Hiroshima e Nagasaki, il libro elabora un quadro diverso, completo sul piano geografico considera per esempio i teatri di guerra di India e Cina, troppo spesso trascurati - e, per molti versi, sorprendente su quello statistico, con numeri che fanno pensare, come i circa trecentomila soldati russi uccisi dai propri comandanti - più del totale dei soldati inglesi uccisi per mano nemica durante l'intera guerra - o i quindici milioni di morti in Cina. Infine l'analisi storica propone interrogativi di non poco conto dal punto di vista storico. Quali strategie, quali fronti, quali divisioni, quali resistenze di massa hanno determinato l'esito storico del conflitto? Quale reale incisività hanno avuto gli USA e la Gran Bretagna? A chi, dati alla mano, è più giusto attribuire il merito di aver sconfitto Hitler e il nazismo?
Sottoporre a revisione la storia è il compito stesso degli studiosi, essendo la storiografia nient'altro che una costante riscrittura della storia. Perché, dunque, degli storici come gli autori di questo libro dovrebbero schierarsi contro il "revisionismo"? Perché sotto questo termine si è delineato, nel corso degli ultimi decenni in Italia e nel mondo, un "uso politico della storia" che ha poco a che fare con la ricerca storiografica. Un "uso politico" dalle molteplici diramazioni, ma che, soprattutto nella distorta ricostruzione della nostra storia nazionale, presenta alcune opinioni ossessivamente ripetute: l'idea che il Risorgimento sia stato una guerra di annessione e non un movimento di rinascita per l'unità nazionale; la concezione del fascismo come tentativo autoritario bonario, distinto dal totalitarismo nazista e volto all'edificazione di una patria che non sarebbe esistita prima; l'ipotesi della morte definitiva della patria sancita dall'8 Settembre e la conseguente rivalutazione dei combattenti di Salò come autentici patrioti. Tesi politiche che non hanno la benché minima serietà né il rigore dell'autentica indagine storica, ma che, raffigurando gli avversari come i difensori di una "vulgata resistenziale", di "verità di regime", mirano a distruggere i fondamenti stessi della nostra storia repubblicana e della nostra Costituzione. Contro questo "revisionismo" si schierano alcuni tra i migliori storici italiani.
Scritto a cavallo tra il XIV e il XV secolo da Cennino Cennini, un pittore di scuola fiorentina, nato a Colle di Val d'Elsa, allievo di Agnolo Gaddi e autore forse di una "Madonna col Bambino" conservata presso il Deposito degli Uffizi, "Il libro dell'arte" è certamente tra i più famosi trattati sulle tecniche artistiche che siano stati tramandati. La fortuna di quest'opera, che probabilmente nacque nell'ambito di una delle potenti corporazioni che regolamentavano e tutelavano l'attività dei pittori risale soprattutto agli ultimi due secoli, nei quali è diventata una sorta di totem, di manifesto della pittura a partire da Giotto, il gran maestro che secondo le parole di Cennino "rimutò l'arte del dipingere di grecho in latino e ridusse al moderno". Sin dai primi dell'Ottocento divenne un documento prezioso per la storia dell'arte e per quanti ne potevano cogliere i valori storici, stilistici o filologici. Con l'edizione curata da Franco Brunello nel 1971, fu definitivamente recepito come "il primo esempio di opera tecnologica rinascimentale, precorritrice di quella serie di trattati sulle diverse arti industriali, fioriti in Italia tra il XV e il XVI secolo". Questa edizione sottopone il testo cenniniano a un esame integrale e contestuale.
"Italiani, brava gente"? Non la pensa così lo storico Angelo Del Boca che ripercorre la storia nazionale dall'unità a oggi e compone una sorta di "libro nero" degli italiani, denunciando gli episodi più gravi, in gran parte poco noti o volutamente e testardamente taciuti e rimossi. Si va dalle ingiustificate stragi compiute durante la cosiddetta "guerra al brigantaggio" alla costruzione in Eritrea di un odioso universo carcerario. Dai massacri compiuti in Cina nella campagna contro i boxer alle deportazioni e agli eccidi in Libia a partire dal 1911. Dai centomila prigionieri italiani lasciati morire di fame in Austria, durante la Grande Guerra, al genocidio del popolo cirenaico fino alle bonifiche etniche sperimentate nei Balcani.
Il Novecento è stato un secolo denso di avvenimenti, per buona parte crudeli, come pochi altri. Un secolo che ha visto due guerre mondiali, con un centinaio di milioni di morti e l'impiego di armi nuove e devastanti. Ha visto l'Olocausto e la proliferazione del Gulag. Ha visto il massacro degli armeni, dei libici, degli etiopici, dei malgasci, dei vietnamiti, degli algerini. Ha visto la decimazione degli abitanti di Nanchino e lo sterminio di due milioni di cambogiani, di cui restano piramidi di teschi. Ha visto una serie quasi ininterrotta di guerre locali, di conflitti razziali, di "pulizie etniche". Ha visto i paesi dell'Occidente diventare sempre più ricchi e quelli del Terzo e Quarto mondo diventare sempre più poveri. Anche per l'Italia non è stato un secolo clemente. Un milione di morti nelle due guerre mondiali; venti anni di isolamento e di libertà calpestata dalla dittatura fascista; un paese da ricostruire interamente dopo il 1945. E poi il triste bilancio di fine secolo. L'Italia è al primo posto, in Europa, per il calo demografico e l'invecchiamento della popolazione, al decimo, nel mondo, fra i paesi che più inquinano. E ha un debito pubblico (70 miliardi di euro di interessi passivi ogni anno) che condiziona pesantemente l'attività di ogni governo. Il Novecento, tuttavia, è stato anche un secolo di eroismi e di grandi ideali che hanno dato luogo a gloriose pagine di storia, come la Resistenza.
Che cosa fa di Venezia Venezia? Qual è l'intenzione artistica, la forma che concede a Domenico Theotocopuli di Candia o ad Antonio Vassilachis di Milo, Giorgione di Castelfranco, Tiziano di Pieve di Cadore di sentirsi perfettamente veneziani e di parlare artisticamente in veneziano? Ritenuto il capolavoro di Sergio Bettini, "Venezia. Nascita di una città" costituisce certamente un unicum nella cultura italiana, oltre che il compendio dell'opera di uno studioso che appare oggi, nel centenario della nascita, come uno dei più originali pensatori del nostro Novecento. Mostrando come Venezia obbedisca attraverso i secoli a un suo Kunstwollen, a una sua propria intenzione artistica, Bettini illumina la città come una sola, coerente opera d'arte.
Fino a non molti anni fa per la maggioranza degli americani, i "dagos", come venivano chiamati gli emigrati italiani, erano più o meno tutti dei mafiosi. Qualsiasi cosa facessero, sembrava impossibile sfuggire a questa accusa. Frutto di anni di ricerche di uno dei più famosi giornalisti del "Time", questo volume è un'inchiesta sugli italoamericani a partire da Colombo e Verrazzano. Un'indagine che mostra il vero volto degli emigrati italiani che dall'industria alle banche, dallo sport allo spettacolo, hanno contribuito a fare dell'America un mito.
Eritrea, Somalia, Libia, Etiopia sono le terre su cui si sofferma lo storico Angelo Del Boca, terre che in settanta anni hanno visto operare, viaggiare, costruire, distruggere, amare e odiare due milioni di italiani sul loro suolo. Italiani che non erano soltanto spietati avventurieri e soldati di pochi scrupoli e di grandi appetiti, ma anche esploratori, viaggiatori, missionari, architetti, artisti, archeologi che hanno dato il meglio di loro stessi a contatto col Continente nero.