Collana Bloom
L’affermazione che apre questo innovativo e provocatorio saggio è di quelle ardite: l’età moderna è l’età degli ebrei e, in particolare, il XX secolo è stato il secolo ebraico per eccellenza.
Una tale affermazione presuppone naturalmente che tra l’essere ebreo e lo spirito della modernità vi sia una profonda affinità, se non una sostanziale identità. Ma che cosa significa essere ebrei? Facendo propria una divisione antropologica del mondo in «apollinei» e «mercuriani», vale a dire in contadini e mercanti, in stanziali e nomadi, in locali e stranieri, l’autore di queste pagine offre una risposta inequivocabile: gli ebrei sono i piú grandi «mercuriani» della Storia. Un popolo senza patria, dedito alle lucrose attività del terziario, colto, eccentrico per aspetto, lingua, religione, tradizioni. E oggetto dell’odio e dell’invidia degli «apollinei» circostanti.
Alla luce di tali categorie, la stessa storia dell’umanità si rivela come la storia di una progressiva «mercurianizzazione» dell’uomo. E l’età moderna come quel punto di svolta in cui l’uomo diventa universalmente mobile, professionalmente duttile, erudito, ricco per prestigio acquisito e non per natali; diventa, insomma, ebreo.
Cruciali, come emblema stesso della modernizzazione, appaiono soprattutto gli ultimi cento anni di storia ebraica e l’esito delle tre grandi migrazioni: verso l’America, verso il nuovo Stato di Israele, verso Mosca e le altre grandi città dell’Unione Sovietica.
Nel ventennio successivo alla rivoluzione bolscevica del 1917, questa terza diaspora si rivela come quella di maggior successo. In tutta la prima metà del XX secolo, gli ebrei, ancor piú che negli Stati Uniti, prosperarono in URSS, grazie alla promessa di una società nuova che osava combattere il nazionalismo, il capitalismo e l’antisemitismo che di lí a poco avrebbe partorito l’orrore nazista. Per una delle tragiche ironie della Storia, questa promessa si rivelò una crudele chimera. E, all’alba del XXI secolo, di terre promesse per il popolo ebraico non ne sono restate che due: Israele con tutti i pericoli e la precarietà della sua esistenza, e l’America, il paese moderno, competitivo e volto al successo economico. E dunque ebraico piú che mai.
La maggioranza degli ebrei vive oggi in una società «mercuriana» per eccellenza sia per fede ufficiale sia – sempre piú – per appartenenza, una società in cui non vi sono nativi riconosciuti, una società di «nomadi terziari».
Denso di intuizioni illuminanti e trasgressive, scorrevole nell’esposizione e audace nell’analisi, Il secolo ebraico è un’opera che «mira non soltanto a riformulare la nostra comprensione della questione ebraica, ma della questione moderna nel suo complesso» (Daniel Lazare).
All'interno della cultura ebraica, la "Porta del Cielo" occupa una posizione unica. Scritta in spagnolo nei primi decenni del Seicento, essa è infatti il solo esempio di opera, fra quelle che ancora appartengono al periodo di formazione del canone classico cabbalistico, composta in una lingua "profana": non nella lingua santa ebraica, né nell'arcaizzante aramaico dello Zohar, né nello yiddish al quale anche sarebbe ricorsa la letteratura chassidica. Questa caratteristica rispecchia l'intento di Abraham Cohen de Herrera (il mercante di origine spagnola, vissuto in Italia e morto ad Amsterdam, le cui vicende personali e familiari vengono ricostruite nell'introduzione anche grazie a documenti d'archivio rimasti finora inediti): scrivere un'opera di introduzione alle dottrine cabbalistiche che fosse accessibile al maggior numero possibile di lettori eliminando l'ostacolo linguistico che ne aveva fino ad allora ristretto la conoscenza diretta a ebrei ed ebraisti. Altri elementi concorrono poi a giustificare quel ruolo di vera e propria mediazione fra cultura ebraica e contesto europeo che si propone la Porta: non solo la lingua ma anche il linguaggio, lineare e razionalizzante, nella quale è composta; il discorso sistematico con cui procede, richiamandosi al modello della Scolastica latina; e il costante riferimento e paragone con il pensiero filosofico, da Platone e Aristotele ai neoplatonici alla cultura italiana rinascimentale.
Fiabe umoristiche e sentimentali trasmesse in occasioni e in luoghi diversissimi fra loro, i racconti ci svelano un mondo in cui madri e nonne intrattenevano i bambini con storie di magia, vite di patriarchi e di profeti; i rabbini si affidavano a semplici parabole per illustrare grandi verità; cucitrici e sarti, venditori ambulanti e carrettieri si narravano favole antichissime per ingannare il tempo e rendere più piacevole la vita.