In questo numero:
- Non c'è prezzo
- Lettere: Tommaso, Luisa, Marta, Riccardo, Gianni, Francesca, Teresa, Cristina
- Immersi nel mondo
- Ciò che confuso non è
- Chi sono io?
- Il filo e il centuplo
- "Com'è successa la mostra"
- Il miracolo di esserci
- "Nessun dono di grazia più vi manca" (San Paolo)
- Scuola, il nuovo inizio
- L'educazione è innovazione
- Non chiedermi se sono felice
- Il tono dello stupore
- Blocknotes
- Sagacity
- David torna a scuola
Non vogliamo guardare al microscopio la famiglia e le sue dinamiche, ma aprire uno squarcio nell’orizzonte grande che la fa respirare. La famiglia, fragile e insostituibile. Il tentativo che denunciò Hannah Arendt di «proteggere gli affari umani dalla loro fragilità» oggi non è pensabile, perché l’onda lunga della pandemia li ha travolti. In questi mesi, tra le mura di casa è successo tutto: il lavoro, lo studio, una convivenza a cui non si era abituati. Si è abbracciato il dolore e raccolto le gioie, si sono scoperchiati i legami, consumati nella pretesa reciproca o ridonati. Le immagini più lievi sono quelle di papà e mamme in call di lavoro, ai fornelli, con un figlio in braccio. Mentre le fatiche più buie non sempre si vedono o si raccontano. Ci si è trovati «messi a nudo», «ridotti all’osso», come raccontano le testimonianze in questo numero, dedicato a un luogo che, per sua natura, è straordinario nell’ordinario.
Oggi vedere una famiglia lieta è un evento. Perché, ora più che mai, risalta la cruda alternativa di sempre: «Dalla natura, il terrore della morte. Dalla grazia, l’audacia», secondo l’espressione di san Tommaso, a cui seicento anni dopo fece eco Charles Péguy: «Per sperare bisogna essere molto felici, bisogna aver ottenuto, ricevuto una grande grazia».
Una grazia che non ha nulla di incantato. Quando si parla di famiglia o è una grazia concretissima, spudorata e paziente, oppure non è. Le storie che troverete non sono di famiglie eroiche, ma di famiglie che da sole non esisterebbero: sono generate da quell’orizzonte che è un amore più grande sperimentato nella comunità cristiana. Ne scorgiamo gli effetti: qualcuno che ha la quota di fiducia necessaria per decidere di “fare famiglia” – di sposarsi, mettere al mondo dei figli, addirittura accogliere quelli di altri –, che ha l’audacia non solo per cominciare, ma soprattutto per continuare, portare avanti, anche quando vengono meno i soldi, la salute o la routine diventa soffocante. Dal perdono quotidiano fino all’esperienza di una giovane coppia che non riesce ad avere bambini, eppure è aperta alla vita, e aiuta a cogliere il cuore anche della famiglia più numerosa: «L’incontro di un uomo e di una donna non può essere definito dallo scopo esclusivo di avere dei figli», dice Giussani: «Ma innanzitutto dall’essere compagnia al Destino».
È solo in questa prospettiva infuocata, della persona in cammino per il suo compimento, che si rigioca instancabilmente la partita anche per la famiglia: si cerca una compagnia oltre la propria casa per poter amare, le ferite non si chiudono ma aprono a un vivere più autentico, e tutto questo sfida i pensieri e le paure perché esiste, è possibile.
«È ragionevole rischiare? Dipende da quello che hai incontrato», diceva Julián Carrón agli Esercizi della Fraternità di CL che si sono appena svolti, trasmettendo una pienezza di vita che cresce se attraversa tutto: non ti nascondi e non censuri, perché affrontando quello che succede puoi verificare l’utilità della fede per vivere. Per il bisogno di andare oltre l’apparenza.
Di toccare con mano «se c’è il nulla o l’essere».
A un anno dall’inizio della pandemia, i dati che parlano della sofferenza dei bambini e dei ragazzi allarmano. Ma cosa accadrebbe se fossero pubblicati quelli sugli adulti? Il negazionismo oggi sarebbe ridurre il problema educativo alle aule e alle modalità didattiche, perché la grande prova che tocca i giovani riguarda tutti.
Generazione Covid. Dipende da ciascuno il significato di questa espressione diventata di moda: se è lo stagliarsi di una generazione traumatizzata dalle limitazioni, da un tempo “perduto”, o se è la grande occasione per verificare che cosa è in grado di generare il desiderio di vivere.
«Cosa possiamo fare?». Non c’è domanda più comprensibile oggi, soprattutto se fatta da un genitore. Ma la replica è netta: «Il senso della vita non si trasmette con il Dna» e il problema è innanzitutto nostro, ed è «la paura profonda che tutto finisca in nulla». È la risposta di Julián Carrón all’incontro del 30 gennaio, “Crescere e far crescere in tempo di pandemia”, nato dalla lettera di alcuni insegnanti di CL al Corriere della Sera e dal suo libro Educazione, comunicazione di sé, contributo al Patto globale voluto dal Papa per quella che definisce «una catastrofe educativa», davanti alla quale «non si può rimanere inerti».
Ma che cosa non ci lascia inerti? Quando ogni sforzo è sconfitto in partenza, solo fare una strada in prima persona. «In una società come questa non si può creare qualcosa di nuovo se non con la vita», diceva Giussani già nel 1978: «Non c’è struttura né organizzazione o iniziative che tengano. È solo una vita diversa e nuova che può rivoluzionare strutture, iniziative, rapporti, insomma tutto».
In questo numero trovate alcune storie di chi comunica ciò che lo sostiene, e risponde a quell’urgenza di significato, per sé e per l’altro, che sconfina dalle aule, dalle geografie, dal tipo di lavoro, da età e condizioni. Gli universitari portoghesi che nella pandemia scoprono se stessi al posto di vivere in trance; la presa che ha su adulti e ragazzi un’esperienza come il Donacibo; un sindaco che si chiede cosa ricostruisce il sentire comune. Perché si educa con tutto, nel modo di lavorare o di rientrare a casa, di vivere un dolore o di guardare un film.
L’educazione avviene sempre controvento, si è detto in questo tempo. Ma occorre che qualcosa si alzi più forte del vento: nell’apatia, ci muove solo qualcuno che dialoga con il nostro bisogno profondo di essere amati.
Come Antonio, che ha iniziato a insegnare a oltre cinquant’anni, esattamente un mese prima che il mondo fosse congelato dal Covid. Tante le difficoltà, eppure nel dialogo del 30 gennaio ha raccontato il rapporto sorprendente che è accaduto con i suoi studenti: loro sono stati investiti dallo sguardo che ha ricevuto lui nella vita, incontrando gente cristiana. «Se non siamo stati guardati in modo vero, non possiamo guardare l’altro in modo vero», concludeva Carrón quella sera: «Anzi, se non siamo guardati ora! Generati noi ora».