Il mondo cambia vertiginosamente, gli equilibri politici si rompono, lo sviluppo della tecnologia e il libero mercato hanno trasformato il pianeta in un villaggio globale ma bipolare, sempre meno dipendente dall'identità dei singoli governi. Eppure, dice Uri Savir in virtù della sua pluriennale esperienza di diplomatico, le strategie per creare e mantenere la pace sono vecchie, sprovvedute, e talvolta persino controproducenti, come è accaduto in Iraq. In questo libro appassionato e fuori dagli schemi - saggio, autobiografia e pamphlet politico contemporaneamente -, Savir elabora una nuova e articolata strategia per raggiungere la pace mondiale, i cui ingredienti sono "glocalizzazione", ecologia della pace, cooperazione internazionale e diplomazia creativa.
Quando ho cominciato a studiare poesia a Yale verso la fine degli anni Settanta, il primo nome di poeta che chiunque avrebbe nominato era John Ashbery. Era l’uomo del mo- mento, il poeta del quale bisognava aver letto i lavori più recenti se davvero si voleva conoscere lo stato dell’arte ed essere à la page. Quando qualche anno fa ebbi l’occasione di tornare a Yale, dopo un quarto di secolo, il poeta di cui più parlavano i giovani lettori, il cui ultimo libro era un passag- gio obbligatorio, il cui lavoro sembrava essere al centro del momento culturale, era ancora John Ashbery.
— Joseph Harrison, dall’introduzione
La grande innovazione delle poesie di Ashbery sta nel fatto che esse non spiegano né simbolizzano e nemmeno si riferi- scono a qualche esperienza che il poeta ha avuto, qualcosa che è fuori di loro e nel mondo, qualcosa di precedente. Le poesie non sono “su” nulla, sono loro a essere qualcosa, esse sono la loro stessa creazione, e sarebbe più giusto dire che il mondo è, invece, una loro chiosa, un saggio critico su di esse. Con tutta la sua modestia e amabilità, nondimeno questa è la grande asserzione simbolista di Ashbery: che il mondo esiste per finire in un libro.