Dopo la pubblicazione del saggio 'Romanzi. Leggerli, scriverli' (2007), l'autore torna a riflettere sul genere letterario romanzo e raccoglie una serie di considerazioni condotte sul duplice versante della lettura e della scrittura. I romanzi, questi oggetti di "sostanza immaginaria", non sono che "un movimento di parole": ogni testo è un movimento verbale, e il movimento specifico del testo romanzesco è narrativo; e dato che la narrazione è sempre narrazione di qualcosa, vi sarà sempre un oggetto fattuale (o piuttosto pseudofattuale) che viene narrato. Questo è l'unico, sottile legame del romanzo con la realtà, la quale, anche quando richiede il sostegno di un'immagine mentale, apre sul mondo "un occhio linguistico". "Nel romanzo tutto è parola, dal luogo della vicenda alla vicenda e al pensiero". Proprio per questo il romanzo è un luogo tutto verbale, che evoca ma non riproduce la realtà, e che per essere letto non richiede, anzi esclude ogni immedesimazione.
Jemolo: "Io penso, soprattutto, ai rapporti tra ceti diversi; quello che poteva essere la famiglia borghese di fronte a famiglie operaie, tante piccole, brutte storie che si leggono anche nella narrativa che erano perfettamente vere, oggi non sarebbero assolutamente più pensabili. (...) Anche in materia di violenza; quand'ero bambino a Roma se si vedevano due litigare si aveva subito paura di veder tirar fuori un coltello." Zincone: "O anche la spada, se erano aristocratici..." Jemolo: "Non sono così vecchio da ricordarmi i tempi del Manzoni e di Fra' Cristoforo..." Dal 1946 al 1990 il "Convegno dei Cinque" fu un vero e proprio simposio radiofonico, che una volta a settimana chiamava a discutere su temi di interesse generale cinque intellettuali di spicco della cultura italiana. Alla trasmissione partecipò per ben 87 volte (spesso in veste di moderatore) il grande giurista cattolico Arturo Carlo Jemolo, esercitandovi quel gusto per la discussione libera, argomentata e ironica, all'inglese, che, al di sotto dei temi politici del giorno, non ha mai smesso d'essere la vera grande assente del nostro dibattito pubblico.
L'antologia della lirica tedesca che Elio Gianturco preparò per la casa editrice di Gobetti e che uscì nel 1926 nelle Edizioni del Baretti rientrava in un programma politico-culturale di apertura verso le grandi letterature europee. La selezione offre una retrospettiva che si dipana dall'impressionismo e dal naturalismo passando per il simbolismo e il neoromanticismo, per arrivare fino all'espressionismo, dando voce a oltre quaranta poeti presentati nei testi esemplari della loro produzione. Non toglie valore al lavoro il fatto che alcuni giudizi critici, insieme ad alcune presenze e assenze, sono frutto del momento storico e appaiono oggi superati. Anche di fronte all'espressionismo e alla produzione poetica più recente, Gianturco non perde la capacità di giudizio e l'esigenza di "mantenere il rapporto tra letteratura e politica, cultura e società", in un'epoca in cui la società sta cambiando e la politica è in crisi.
Il volume pubblica l'edizione critica della Scienza nuova di Giambattista Vico secondo l'edizione postuma del 1744. L'opera è frutto di quel ponderoso lavorìo al quale Vico attende subito dopo la pubblicazione dell'edizione del 1730 e che, variamente sparso in numerosissimi esemplari postillati dei quali si è resa ragione nell'edizione critica della Scienza nuova 1730 (2004), fu redatto in maniera autografa nel codice XIII D 79 conservato presso la Biblioteca Nazionale di Napoli. I criteri di edizione critica sono quelli adottati dal piano generale dell'opera omnia portato avanti dall'Istituto per la storia del pensiero filosofico e scientifico moderno del CNR e pubblica l'ultima stesura della maggiore fatica vichiana liberandola finalmente da ingerenze volute dalla tradizione ecdotica novecentesca.
Il volumetto del giovanissimo Papafava, uscito nel 1923, offriva una ricostruzione attendibile sulla base della relazione della Commissione d'inchiesta su Caporetto e delle fonti allora disponibili. L'autore metteva in luce la responsabilità degli alti comandi e la confusione nella direzione delle operazioni, con le divergenze tra il Comando Supremo e il comandante della II Armata, per cui non riteneva giusto attribuire a Badoglio, che gli appariva la prima vittima del dualismo tra Cadorna e Capello, la maggiore responsabilità del disastro del 1917. Più in generale, per Papafava andava respinta la versione che imputava Caporetto a uno "sciopero militare" (uno slogan fortunato e diffuso per decenni) e al sabotaggio di socialisti, giolittiani e cattolici.