L'illuminismo ha conosciuto tante facce diverse. Prima di approdare ai suoi esiti rivoluzionari sul piano ideologico e politico, è emerso dall'interno di un grande movimento intellettuale di riscoperta della dignità e dei diritti della persona umana, portatore di una spinta riformatrice che ha investito la realtà sociale nel suo insieme. Un contributo decisivo, in questo senso, è venuto anche dalle forze più vive e dinamiche del cristianesimo della prima età moderna. Riaffiora un filone fin qui trascurato di "illuminismo cattolico", animato da apporti e sensibilità eterogenei, che nella scia di un lungo percorso ha favorito la riscoperta del valore della libertà di scelta degli individui, la difesa della famiglia e del ruolo della donna, lo sviluppo dell'educazione, la lotta contro le superstizioni, il rifiuto della schiavitù e dell'esercizio abusivo del potere. Seguendo le tracce di maestri e pensatori spesso di frontiera e anticonformisti, si disegna un fenomeno dai contorni "globali", esteso dal Vecchio Mondo europeo fino ai nuovi spazi di una disseminazione culturale planetaria.
Il volume si apre con un'agile indagine sulla vita di Thomas More e di altri umanisti come Erasmo da Rotterdam, Lutero e Pico della Mirandola. Lo studio sull'Utopia evidenzia poi gli aspetti sociali, politici e religiosi del tempo tra l'Umanesimo e il Rinascimento. In particolare il diritto penale, che echeggia, tre secoli prima, le conquiste sociali di Beccaria e Verri; poi la monarchia parlamentare contro l'assolutismo regio, le guerre (soltanto di difesa), la colonizzazione, i beni in comune, il lavoro per tutti comprese le donne, la solidarietà con le altre nazioni, il matrimonio, il divorzio, l'eugenetica, l'eutanasia, l'educazione continua e controllata dallo Stato, la sicurezza senile, gli ospedali, il pluralismo religioso, l'ecologia, tutte cose attuali per la nostra civiltà.
Sulla scorta di una pluralità di fonti archivistiche e a stampa, l'Autore approfondisce il ruolo esercitato dalla Santa Sede in materia di assistenza e cura pastorale dell'emigrazione italiana all'estero nel periodo che, dalla seconda metà dell'Ottocento, giunge fino al Concilio Ecumenico Vaticano II e alla stagione postconciliare. L'Autore documenta come, almeno fino alla seconda metà degli anni Ottanta dell'Ottocento, gli interventi promossi dalla Chiesa italiana per la tutela degli emigranti furono assai limitati e rivestirono, nel complesso, un carattere episodico e marginale. La situazione mutò sensibilmente nel corso dei pontificati di Leone XIII e di Pio X. Quest'ultimo, in particolare, s'impegnò tanto sul fronte dell'intensificazione delle iniziative ed opere di assistenza e nella centralizzazione delle politiche a sostegno della cura pastorale dei migranti, quanto su quello - altrettanto decisivo - del reclutamento e della formazione culturale e spirituale del clero destinato ad animare la vita religiosa delle comunità di emigrati italiani all'estero. L'impegno in favore dei profughi e dei prigionieri di guerra esercitato dalla Santa Sede negli anni della seconda guerra mondiale contribuì a far maturare all'interno della Chiesa una sensibilità più larga e a spostare progressivamente l'attenzione dal problema dell'emigrazione italiana a quello, più complessivo e di portata universale, di tutti coloro che, non solamente per motivi economici, ma anche per cause legate ai conflitti armati, alle catastrofi naturali e alle persecuzioni, erano - e sono ancora oggi - costretti ad abbandonare i luoghi d'origine e a vivere lontano dal proprio paese (profughi, prigionieri di guerra, rifugiati ecc.).
L'amicizia fra Alcide Gasperi e Stefano Jacini, nata durante il ventennio fascista, divenne uno dei legami più significativi mantenuti dal politico trentino con la passata esperienza del Partito Popolare. Questo volume ne ripercorre l'itinerario attraverso il dialogo intrapreso dai due cattolici antifascisti nel comune «esilio in patria». La solidarietà dimostrata dal cattolico-liberale lombardo nei confronti del futuro presidente del Consiglio - incarcerato dal regime nel 1927 e, dal 1929, bibliotecario vaticano - si trasformò in una collaborazione culturale che diede origine a riflessioni e pubblicazioni storiche di ampio respiro sui rapporti fra cattolicesimo e libertà nella contemporaneità otto-novecentesca. Costretti a vivere «nella storia» dalla forzata inattività politica, De Gasperi e Jacini riemersero dall'isolamento con il ripensamento autocritico della tradizione popolare culminato nella fondazione della Democrazia Cristiana postfascista. Il volume è arricchito dal carteggio degasperiano con Jacini, in larga parte inedito, fra il 1923 e il 1943.
Dal 1976 al 2015 i cinque Convegni ecclesiali nazionali scandiscono la vita della Chiesa in Italia, attraverso cinque pontificati, due Repubbliche e profondi cambiamenti sociali. La storia istituzionale dei Convegni, dall'immediata attuazione del Concilio al "cambiamento d'epoca" in atto, è anche quella di un tessuto ricco, vivace, dialettico, da cui emerge il carattere profondo, sempre da aggiornare, di una Chiesa di popolo, in costante rapporto con le vicende di una Italia europea.
Il libro evidenzia nel profilo biografico di Pastore (1902-1969) uno dei temi centrali e permanenti del suo impegno civile: assicurare l’emancipazione delle lavoratrici e dei lavoratori rendendoli partecipi protagonisti dei processi di formazione delle decisioni socio-economiche. Il maturare di questa aspirazione accompagnò l’itinerario di Pastore, uomo del Novecento,
nelle sue principali esperienze pubbliche: giovane operaio autodidatta, militante del cattolicesimo sociale, attivista del PPI, giornalista antifascista, organizzatore della Gioventù cattolica, leader sociale nella DC, innovatore del sindacato italiano e internazionale, ministro per il Mezzogiorno e per le aree depresse del Paese. Come fondatore della CISL egli promosse una rappresentanza sindacale in grado di dare un apporto positivo allo sviluppo della democrazia in Italia e come uomo di governo della giovane Repubblica Italiana sostenne il pieno riconoscimento del sindacato quale attore sociale di fronte al sistema dei partiti. Per consentire di ripercorrere agevolmente la riflessione di Giulio Pastore intorno alle relazioni tra rappresentanza sociale e rappresentanza politica in uno Stato democratico, il volume offre ai lettori un’ampia scelta di interventi e di articoli proposti in diverse occasioni tra il 1925 e il 1969.
Questo lavoro di ricerca prende avvio da una constatazione e da una curiosità. Partiamo dalla constatazione. Studiando la produzione cinematografica realizzata dal nazionalsocialismo tra il 1933 e il 1945, il confronto - estetico produttivo, comunicativo e ideologico - con un film si rivela imprescindibile: Süss, l'ebreo (Jud Süss, 1940) di Veit Harlan. Lo è per l'evidente qualità formale dell'opera, ma, soprattutto, per l'altrettanto evidente, quanto radicale, carica antisemita. Ed essendo l'antisemitismo uno snodo imprescindibile dell'ideologia nazionalsocialista, studiare Süss, l'ebreo significa, in fondo, studiare il totalitarismo hitleriano attraverso il punto di vista di un'«opera mondo» (un film di finzione), universo visivo di significati che racchiude l'essenza di un'epoca: la lotta tra l'elemento ariano minacciato dal suo nemico storico, l'ebreo. Quando oggi vediamo Süss, l'ebreo in realtà ci troviamo davanti a due differenti rappresentazioni del passato: la storia settecentesca di Süss, manipolata nella finzione cinematografica; e la storia del 1939-1941, quando la risoluzione della «questione ebraica» imboccò la strada che condusse alla «soluzione finale», prima con l'invasione della Polonia e poi con l'invasione dell'Unione Sovietica. L'interpretazione di Süss, l'ebreo è sin troppo semplice: i tedeschi hanno un solo modo per liberarsi dell'eterna minaccia ebraica. Il finale del film è la risposta. Per quanto riguarda invece la curiosità, è racchiusa in una domanda: cosa ne scrissero i critici italiani quando il film fu presentato in anteprima a Venezia nel settembre 1940 e uscì nel circuito nazionale nell'ottobre del 1941?
Gli antichi romani pensavano che, grazie alla qualità ideale del loro ordinamento giuridico, potessero mirare a realizzare una comunità umana universale. Anche i cristiani, avendo ricevuto un mandato da parte di Dio di riunire tutti gli uomini in un solo popolo, si trovavano con una missione universale in questo mondo. Come coordinare queste concorrenti pretese di universalità da parte dell’Impero e della Chiesa? In questo libro, il bizantinista Endre von Ivánka affronta questa domanda esaminando differenti concezioni di “impero” e di “popolo di Dio” in tre epoche storiche: la prima dall’ascesa dell’imperatore Augusto fino alla caduta dell’Impero d’Occidente nel 476; la seconda dall’affermarsi dell’Impero Bizantino fino alla sua caduta nel 1453. L’ultima considera gli sviluppi all’interno dell’ortodossia russa fino alla Rivoluzione d’ottobre. Secondo von Ivánka, le importanti differenze tra cattolici e ortodossi nella concezione del rapporto tra Chiesa e Stato sono da ricondurre più a fattori storici che a eventuali influssi culturali sui bizantini, estranei alla tradizione europea. Alcuni importanti eventi storici degli ultimi due secoli potrebbero inoltre accendere la speranza di un riavvicinamento dei due ambiti culturali e religiosi.
Il Sessantotto fu certamente una festa, un anno multicolore, come i vestiti indossati dai ragazzi e dalle ragazze che nelle scuole superiori abbandonarono cravatte e grembiuli, e come le appartenenze che nelle università si mescolarono e si confusero allo stesso modo di striscioni e bandiere. Fu un anno sfacciato e divertente, ma anche acidamente irriverente, un anno irrispettoso come le scritte sui muri e gli slogan dei cortei. Molti giovani provenienti dalle parrocchie e dalle associazioni cattoliche si immersero come i loro coetanei in quella marea inaspettata, vivendo un'esperienza di liberazione e di autonomia, di impegno totalizzante e di soggettività creativa. I saggi raccolti in questo libro ricostruiscono in modo originale e documentato il ruolo dei cattolici europei nelle contestazioni studentesche. Il volume si inserisce così nel dibattito pubblico sul Sessantotto, chiarendo le scelte dei cattolici che parteciparono alle manifestazioni e le reazioni degli ambienti politici ed ecclesiastici di fronte all'imprevista ondata di proteste.
Scritta nell'estate del 1943, ma pubblicata postuma nel 1946, dopo il suo assassinio, Genesi e struttura della società è l'opera-testamento di giovanni gentile. essa porta a compimento, con una linearità e continuità di esiti, il pensiero non soltanto filosofico del principale esponente del neoidealismo italiano. Un posto centrale, in questo compimento, occupa il tema del lavoro, in particolare del senso del lavoro manuale e intellettuale, letto nella relazione inevitabile con lo Spirito Assoluto. Il volume ordina studi e ricerche dei principali studiosi del tema, ne vuole indagare la natura, l'origine e gli effetti, chiarendo il legame inscindibile tra riflessione filosofica e prospettiva pedagogica. L'umanesimo del lavoro gentiliano è sottoposto ad analisi come categoria che ha avuto un ruolo fondamentale nella costruzione dei "corpi intermedi" del secolo scorso e può continuare ad avere un valore metodologico e critico per ricomprendere l'inevitabile valore formativo dell'agire lavorativo anche e soprattutto oggi, quando, su questo fondamentale snodo antropologico, sociale e filosofico, sembrano prevalere altre logiche e, purtroppo, altre "leggerezze" di pensiero.
In questo numero un'analisi dei genocidi nella storia.
Nell'età moderna, dopo la data fatidica del 1492, la mondializzazione è stata in massima parte un'europeizzazione e in seguito un'occidentalizzazione del mondo intero. La globalizzazione dei nostri giorni, negli ultimi decenni, è l'esito finale di questi eventi. Ma questa stessa globalizzazione ha mutato la collocazione e il ruolo dell'Europa: ormai essa non è più il centro, bensì una semplice provincia del mondo. E tuttavia, proprio in questa sua nuova condizione di apparente debolezza, l'Europa può trovare nuove possibilità per il suo futuro: divenire un laboratorio di creatività, di innovazione, di convivenza, di messa in relazione del- le diversità culturali, nazionali, etniche, religiose. Solo in questo modo l'Europa, diventata provinciale, può diventare davvero globale, perché può offrire al mondo la sua esperienza particolare: proprio perché è passata attraverso i peggiori conflitti e le peggiori catastrofi l'Europa ha iniziato a scoprire la democrazia, i diritti umani, la libertà religiosa, la valorizzazione dell'altro. È un contributo che deve essere a tutt'oggi difeso, approfondito e reso patrimonio della "Terra patria" tutta intera.