Nel suo paese natale, Fratta Polesine, Giacomo Matteotti, ucciso dal fascismo, è stato per oltre sessant'anni ricordato con una iscrizione censurata. Nel 1950, con Mario Scelba ministro dell'Interno, non fu permesso di scrivere che «senza pace attende il giorno della giustizia riparatrice». Solo da un decennio la frase è riapparsa in piazza, ma quel desiderio di giustizia resta in attesa, perché nell'Italia repubblicana Matteotti è ancora solo il nome di una via. E invece la sua vita, per noi oggi, è più importante della sua morte. Per questo Concetto Vecchio si è messo sulle sue tracce, leggendo le carte degli interventi parlamentari e le lettere d'amore alla moglie Velia, ma anche viaggiando attraverso l'Italia, dalla casa natale nel Polesine alla tomba, dal palazzo del quartiere Flaminio da cui uscì per l'ultima volta alle aule del parlamento in cui viene discussa la proposta di Liliana Segre per le celebrazioni del centenario della morte. In questa vera e propria inchiesta giornalistica emerge il ritratto psicologico di un uomo intransigente, risoluto, ma anche inquieto, modernissimo, dalla parte degli ultimi, che affronta Benito Mussolini a viso aperto. Con l'occhio al presente e il cuore rivolto alle giovani generazioni, Vecchio ripercorre non solo la biografia di Matteotti, ma anche la lotta di coloro che, a volte difficoltosamente, hanno cercato di salvaguardare la sua memoria: dalla coppia romana che senza chiedere niente a nessuno ha deciso di ricordarlo con una targa commemorativa, agli studiosi che hanno curato i suoi scritti, da Franco Nero che lo interpretò al cinema fino al toccante incontro con la nipote Laura Matteotti nella Roma di oggi. Io vi accuso è uno scavo nella ferita pubblica e privata del più grave delitto politico del Ventennio: una storia che ci interpella anche adesso.
Più di 2300 anni fa veniva edificata la biblioteca di Alessandria, pronta a raccogliere in un unico luogo migliaia di papiri. Questa concentrazione mai vista prima di opere pose dei problemi pratici: come orientarsi tra file e file di rotoli all'apparenza tutti uguali senza doverli srotolare uno per uno? Come dividerli tra gli scaffali, come raggrupparli? Fu il poeta Callimaco a trovare una soluzione semplice ma geniale: catalogare alfabeticamente le casse contenenti i rotoli e stilare a parte un volume che raccogliesse l'elenco delle opere presenti nella biblioteca. Man mano che la produzione di testi scritti aumentava, il libro stesso iniziò a cambiare, per rispondere alla domanda che tormentava già Callimaco: com'è possibile trarre velocemente un'informazione in questa selva di pagine? I libri iniziarono così a essere divisi in capitoli che scandivano i temi tenendo conto del tempo effettivo di una singola sessione di lettura, mentre la divisione dei paragrafi sorse insieme alle prime università, per fornire agli studenti una scansione visiva più rapida ed efficace. A partire dalle concordanze delle bibbie medievali, questo inesausto processo di affinamento tecnologico del libro si raddensò intorno a uno strumento oggi spesso sottovalutato, nascosto com'è nelle ultime pagine di ogni volume: l'indice analitico. Pochi lo sanno, infatti, ma è per rendere efficienti gli indici che sono nati i moderni numeri di pagina. E questa centralità segreta dell'indice nell'ecosistema del sapere arriva fino a oggi: ogni volta che sfruttiamo la barra di ricerca di Google stiamo solo accedendo a una forma avanzatissima di indice analitico, non poi troppo diverso da quelli che con l'invenzione della stampa presero a corredare la moltitudine di copie che affollavano le biblioteche del mondo. Dennis Duncan ci racconta l'avventurosa storia dell'indice analitico, di come abbia salvato eretici dai roghi, influenzato la politica e provocato risse tra scrittori. Scopriremo un regno di improbabile ossessione e piacere che accomunò nei secoli tipografi tedeschi e monaci medievali, Virginia Woolf e Vladimir Nabokov, filosofi illuministi e ingegneri informatici della Silicon Valley. Perché "Indice, Storia dell'" è in fin dei conti la storia di come abbiamo imparato con fatica e ostinazione a rendere leggibile il grande e vitale caos di conoscenza che ogni giorno produciamo.
Il lockdown è stato una forzata, lunga pausa, in cui per legge sono state sospese attività produttive, incontri sociali, manifestazioni culturali. "Sospendere" non è di certo un'idea estranea alle società umane: per esempio, la vediamo teorizzata dagli scettici del mondo antico in contatto con l'India, applicata nella cultura ebraica, praticata dai BaNande del Congo. La differenza è però notevole tra le sospensioni programmate, il cui scopo è di arrestare periodicamente le più importanti attività economiche, obbligando le società a ripartire da zero, e il nostro recente lockdown, un'esperienza straniante e inattesa, del tutto estranea al nostro modo di pensare. Una parentesi che si vorrebbe chiudere definitivamente per riprendere il cammino interrotto, quel "progresso infinito" con cui la civiltà occidentale ha voluto segnare la sua storia e la sua presenza nel mondo. In questa situazione, che cos'ha da offrire il pensiero antropologico? Deve salire sul carro del progresso o, al contrario, lavorare "contro" l'accecamento prodotto da questo mito? L'antropologia si fa portatrice di testimonianze spesso lontane nel tempo e nello spazio, in grado di mettere in luce le "vie di fuga" tracciate da ogni cultura, le sospensioni, anche traumatiche, con cui si pongono domande cruciali sul presente e sul futuro. Non è vero che le società da noi definite "tradizionali" e "premoderne" abbiano lo sguardo rivolto soltanto al passato: al contrario, non è raro trovare al loro interno un confronto esplicito tra generazioni allo scopo di garantire ai giovani un futuro vivibile. Dall'osservazione partecipante del lockdown e dalle riflessioni sulla "cultura dell'Antropocene" in cui siamo invischiati, emerge drammaticamente il "furto di futuro", l'impressionante debito economico ed ecologico che gettiamo sulle spalle delle nuove generazioni. Come venirne fuori, se non ideando un altro modo di vivere, una rivoluzione che abbia come obiettivo quello di rifondare la convivenza tra noi e gli altri abitanti della Terra, tra noi e la natura?
Il coronavirus ha smascherato tutta la fragilità del modello di società, economia, politica che sembrava dominare incontrastato il mondo. Al di là delle considerazioni strettamente mediche, tutti ci siamo chiesti: come è potuto accadere? Cosa abbiamo fatto per metterci nelle condizioni di terribile vulnerabilità in cui ci siamo trovati? E da quali basi si può ripartire? Francesco Borgonovo, caporedattore de "La verità" e volto noto in televisione, affronta questi temi epocali senza paura di volare alto, ma anche con il piglio polemico di chi denuncia da anni gli errori dei modelli culturali dominanti. In un percorso affascinante, che si snoda dalla hybris della tragedia greca e arriva fino alla filosofia politica di Carl Schmitt, ma si confronta costantemente con l'attualità, Borgonovo propone una diagnosi della malattia che ha assalito il nostro mondo, al di là e oltre alla diffusione di un micro-organismo fatto di poche proteine e qualche filamento di RNA. E delinea anche quali strade possono portare a un futuro diverso, migliore e più sicuro del passato recente, che sembra già, in qualche modo, lontanissimo.
Nell'estate 2019 Amazon ha presentato una flotta di droni autopilotati per consegnare gli ordini in mezz'ora. Nei due anni precedenti, il robot cinese Xiaoyi superava l'esame di abilitazione alla professione medica e l'androide Sophia otteneva la cittadinanza saudita dopo difficili test linguistici. Le professioni intellettuali sono a rischio quanto il lavoro di operai e impiegati: sofisticati algoritmi eseguono transazioni finanziarie senza trader, scrivono articoli al posto dei giornalisti, analizzano contratti più rapidamente dei legali, formulano diagnosi più accurate dei medici. Come sempre nella storia, le macchine sostituiscono l'uomo e le innovazioni aumentano la produttività. Ma stavolta, in un mondo globalizzato e iperconnesso, c'è il timore di una crescita senza lavoro e non rispettosa dei vincoli ambientali, sociali, demografici, alimentari, energetici. "Fatti non foste a viver come robot" è una profonda riflessione sul concetto di sostenibilità. L'economista Marco Magnani ritiene possibile una crescita più bilanciata e disinnesca l'allarmismo apocalittico sul destino del lavoro: identifica le mansioni a rischio ma anche i nuovi mestieri; analizza i modelli di crescita alternativi - economia circolare e civile, sharing economy, decrescita felice - e mette a confronto diverse strategie socioeconomiche, dalla riduzione dell'orario di lavoro alla robot tax, dal lavoro di cittadinanza al reddito universale; formula le innovative proposte di capitale di dotazione e dividendo sociale, che faranno molto discutere. Per evitare la crescita insostenibile e il lacerante conflitto uomo-macchina bisogna utilizzare le innovazioni per migliorare la vita dell'uomo, investire senza paura in scuola e formazione, riscoprire la valenza identitaria e sociale del lavoro, soddisfare i bisogni delle generazioni presenti senza gravare su quelle future, preservare la salute del pianeta, far sì che in molti possano beneficiare della ricchezza prodotta. Redistribuendola, ma ancor più creando meccanismi di pre-distribuzione dei mezzi che la generano. L'obiettivo è governare il cambiamento epocale instaurando una convivenza intelligente con le macchine. Fra i "nuovi mestieri" potrebbe essercene soprattutto uno, antichissimo: l'uomo-pastore. Dei robot.
Secondo il Talmud ogni generazione conosce trentasei zaddiqim nistarim, i “giusti nascosti” che impediscono la distruzione del mondo.
«Santi ed eroi esistono solo nella nostra fantasia, mentre è stimolante scoprire che uomini normali, con gli stessi nostri difetti, sono stati capaci di compiere atti di coraggio in modo sorprendente e inaspettato» - Gabriele Nissim
Ci capita spesso di aderire a passeggeri moti di indignazione collettivi; in fondo è facile, e non ci costa nulla. Ben più difficile sembra invece schierarsi davvero. Che cosa può fare, allora, chi vuole concretamente cambiare le cose? Secondo il Talmud ogni generazione conosce trentasei zaddiqim nistarim, i “giusti nascosti” che impediscono la distruzione del mondo. Con la memoria dei fatti del Novecento e lo sguardo rivolto al nostro presente, possiamo dire che per fortuna sono molti di più: non solo chi si oppose all’Olocausto, ma anche il colonnello sovietico Stanislav Petrov, che scongiurò una guerra atomica con gli Stati Uniti a costo di inimicarsi il suo stesso paese, o Hamadi ben Abdesslem, la guida tunisina che nel 2015, durante un attacco terroristico, ha scortato verso l’uscita del Museo del Bardo quarantacinque turisti italiani.
Gabriele Nissim ci racconta queste e molte altre storie esemplari, con sapienza affabulatoria e persino una punta di ironia.
Mai come negli ultimi anni la parola cultura è sembrata tanto opaca e fuori fuoco. Ostaggio delle istituzioni e dei ministeri, comodo bersaglio dei paladini del “popolo”, passe-partout di una promozione sociale tutt’altro che garantita e perfino categoria del marketing.
Eppure, niente come la produzione di cultura caratterizza la specie umana; è la cultura a dare forma, insieme alla biologia, sia alla traiettoria evolutiva di Homo sia alle nostre esistenze individuali. Cultura è, citando Max Weber, la rete di significati in cui siamo immersi, una rete che ha preso forma ben prima dell’avvento del web.
Se è vero che la cultura non salva nessuno, resta essenziale che la costruzione di persone più libere e società sostenibili passi attraverso un confronto col nostro variegato patrimonio culturale: certo questo comporta fatica, ma è proprio al verbo latino colere, “coltivare”, che va ricondotta l’etimologia della parola.
In questo libro, otto autori di varie discipline si misurano con le sfumature, le contraddizioni, la rilevanza della cultura. O meglio, delle culture. Otto diversi sguardi sul mondo che l’uomo ha plasmato: dai nuovi paradisi museali di Abu Dhabi sotto la lente di Jean-Loup Amselle al racconto di John Eskenazi sull’origine dell’arte del Gandhara, passando per le questioni di genere e di discriminazione sessuale affrontate da Vittorio Lingiardi e le sfide che attendono la scuola del futuro secondo Paola Mastrocola.
Scopriamo così, insieme a Edoardo Albinati, che si può leggere Dante a dei detenuti stranieri e percepire il lampo della loro intelligenza. Con Adriano Favole, che la cultura ha un peso: 50 kg per metro quadrato di crosta terrestre – l’ammasso dei manufatti umani degli ultimi undicimila anni. Che nella nostra storia mescolanze e migrazioni sono la regola, e non l’eccezione, come scrive Marta Mosca. E che da quando esistiamo non facciamo che modificare, incidere, produrre segni: «Non sono una capra», risponde un vecchio Mangbetu alla domanda di Stefano Allovio sul significato dei suoi tatuaggi. Come a dire: finché posso plasmarmi, sono un essere umano.
«La civiltà umana», spiega Johan Huizinga nel celebre Homo ludens, «sorge e si sviluppa nel gioco.» Ogni giorno partecipiamo a un gioco: quando ci muoviamo in società, quando facciamo sport, quando leggiamo un libro; momenti ludici in cui cambiamo identità, recitiamo una parte o riproduciamo situazioni simboliche. Un'attività complessa ma naturale che permea, spesso in modo inconsapevole, le nostre vite. In questo volume otto studiosi ci mostrano come il gioco sia un momento di crescita, capace di strutturare relazioni, creare luoghi di incontro e di sperimentazione educativa, definire legami sociali, affettività e appartenenze. Dai giochi dell'infanzia studiati da Anna Oliverio Ferraris alle partite di calcio di Christian Bromberger, il gioco infatti non ha solo valenza ludica, ma sa creare comunità, come per esempio nelle kondey, le compagnie africane studiate da Marco Aime; costruire legami, facilitando l'accoglienza e l'integrazione dell'Altro, come rivela Davide Zoletto; oppure far convergere e attraversare le culture, come dimostrano gli studi di Adriano Favole in Oceania. Il gioco può dar vita a opere meravigliose: dalla fantasiosa creatività alle origini del linguaggio esplorata da Alberto Nocentini ai "giochi vertiginosi" di Vladimir Nabokov a cui ci introduce Alessandro Piperno. Completano il quadro, a render conto di questa sfaccettata molteplicità, le "istruzioni per l'uso" di Pier Aldo Rovatti. Otto saggi, otto diversi sguardi su regole ed eccezioni, caso e logica, abilità e azzardo, fortuna e strategia: perché nel gioco è possibile scorgere, come in un microscopio, figure e promesse di ogni possibile umanità.
Perché devo diventare grande, ricevere un’educazione, obbedire alle regole che la società mi impone? Sono domande che ci facciamo tutti, da bambini o da adolescenti, e che poi tendiamo a dimenticare, come se la crescita fosse un dato di fatto e non un delicatissimo processo che coinvolge ogni aspetto della vita, materiale o psicologico che sia, nel lungo cammino verso l’ambita e al contempo temuta “maturità”.
Chiamando a raccolta le opere e le esperienze di pensatori antichi e moderni, da Platone a Hannah Arendt, da William Shakespeare a Jean-Jacques Rousseau, la filosofa e scrittrice Susan Neiman ribalta l’idea diffusissima per cui crescere sarebbe soltanto un percorso di inevitabile declino. Le esperienze fondamentali della crescita, come l’ingresso nel mondo del lavoro, i viaggi e l’incontro con culture diverse, sono invece una grande conquista personale, ancora più importante e dirompente perché ci permette di affermare noi stessi e liberarci da una condizione di minorità. «Noi eravamo fatti per essere uomini; le leggi e la società ci hanno rituffati nell’infanzia.» Così scriveva Jean-Jacques Rousseau duecentocinquanta anni fa, ma il suo insegnamento è più che mai attuale, in un’epoca come la nostra che mitizza l’infanzia.
Ma allora, perché diventare grandi? Perché è nell’età adulta che impariamo a scegliere cosa fare delle nostre vite, a rendere reali le nostre aspirazioni, a partecipare alla società in modo più profondo e responsabile di quanto non vorrebbero, spesso, coloro che esercitano il potere. Chi sceglie di non crescere, di non pensare con la propria testa, non è un cittadino ma un suddito. Un consumatore famelico di gadget tecnologici confezionati come giocattoli. Un Peter Pan che preferisce delegare ad altri le proprie decisioni pur di non aprire gli occhi sulla realtà.
Un protagonista della prima repubblica, democristiano di lungo corso, ripercorre con sgomento e preoccupazione, ma anche con humour e intelligenza pungente, le vicende politiche ed economiche degli ultimi vent'anni, in Italia e all'estero. Senza negare errori e senza rinunciare alla doverosa autocritica, Pomicino deplora lo scadimento e il dilettantismo del legislatore e dei governi, a cominciare dai tecnici dell'economia che presidiano ininterrottamente il potente e unificato ministero dell'Economia e delle Finanze.
Il debito pubblico, in genere descritto come un'eredità del passato, è in realtà triplicato dal 1991 e ha battuto ogni record nel giugno 2015 raggiungendo i 2200 miliardi di euro. Smantellata per via giudiziaria la prima repubblica, la politica ha rinunciato alle idee, ha annacquato e ridotto al silenzio le proprie culture di riferimento, e ha smembrato il sistema di partecipazioni e investimenti pubblici, svenduti alle multinazionali e ai fondi di investimento. Le famiglie industriali italiane riunite nei "salotti buoni" hanno assecondato la spoliazione delle imprese e dei grandi settori produttivi, traendo ottime plusvalenze dalle loro cessioni. Contemporaneamente è cresciuto il mostruoso capitalismo finanziario, un inarrestabile contagio internazionale che divora l'economia reale e prepara il disastro economico e sociale su scala planetaria, con impoverimento di massa, bassa crescita, ricchezza concentrata e disuguaglianze crescenti.
L'avvento di un antico democristiano come Sergio Mattarella alla presidenza della Repubblica e di un post democristiano come lo scout Matteo Renzi al governo avrebbero potuto essere di ottimo auspicio per rilanciare il primato della politica nel nostro paese. Ma le speranze sono presto sfumate: l'Italia in cui viviamo si sta rivelando una Repubblica delle Giovani Marmotte.
L'analisi sui comportamenti e le scelte di Renzi e dei post-democristiani è severa, la loro inadeguatezza sul piano istituzionale e internazionale è palese: proprio quando le culture politiche oggi largamente disperse sarebbero utilissime all'Italia e all'Occidente, per comprendere e affrontare i giganteschi squilibri economici, le migrazioni bibliche e i conflitti che infiammano il Medio Oriente e il continente africano.
Migliaia di vite "senza sponda": sono quelle dei migranti che cercano rifugio nel nostro Paese, in fuga da bombardamenti e carestie, da cambi di regime, guerre intestine e povertà, che si tratti della Nigeria di Boko Haram, della Libia in preda all'instabilità politica, dell'Egitto sconvolto dalle conseguenze dolorose della sua "primavera" mancata o della Siria ora in balia dell'Isis. Migliaia di esistenze travolte dalle onde del mare o spezzate dalla fatica del deserto: profughi in viaggio per raggiungere una parte del mondo che sognavano migliore, una sponda dove credevano di essere accolti. Ma così non accade. In un'Italia dalla memoria troppo corta, che volentieri dimentica il suo stesso passato di migrazione, è facile identificare nei profughi dei nuovi barbari, colpevoli di invadere le nostre coste per impoverirle, se non per depredarle. Una reazione diversa è possibile, però, proprio ricordando le nostre radici: imparando ad accogliere umanamente chi cerca rifugio sulle sponde italiane, per non cadere in quella che papa Francesco a Lampedusa ha chiamato "globalizzazione dell'indifferenza". È ciò che propone lo scrittore e studioso Marco Aime in questo pamphlet, agile e provocatorio, che getta una luce nuova sui casi più tragici della nostra attualità grazie agli strumenti dell'antropologia.
"Esiste un'altra Italia, è sempre esistita. Nostra intenzione non è riproporla con analisi sociologiche o antropologiche, che spettano ad altri, ma semplicemente dare voce, attraverso documenti in prevalenza privati, a un "carattere" italiano poco rappresentato, mentre dilagano i ritratti, spesso grotteschi, dei difetti nazionali: la cialtroneria, la tendenza ad accodarsi al vincitore, lo scarso senso dello stato e della collettività, l'individualismo sregolato, il familismo, il cinismo gaudente, il lamento perenne. Un "carattere" che non solo nel passato, glorioso e irripetibile, ma anche nel presente rivela una diversa tempra morale, una serietà e una tenacia che non di rado si trasforma in abnegazione, nel lavoro, negli affetti, nell'impegno politico, nei gravi momenti dell'emergenza ma anche della quotidianità. Non abbiamo certo voluto riscrivere la storia d'Italia, né raccogliere testimonianze esaustive: a questo lavoro ci ha spinto il desiderio di opporci alla diffusa rassegnazione, o peggio, e insieme la convinzione che in questi tempi di babele delle lingue, e non solo quelle della politica, sia ancora possibile fare affidamento sulla tenuta di un popolo migliore di quello che crede (o vogliono fargli credere) di essere."