Un giorno James Clifford, uno dei più noti antropologi contemporanei, fu invitato dal suo amico Jean-Marie Tjibaou, un Kanak della Nuova Caledonia, a visitare la sua tribù natale. A un certo punto, dalla sommità della collina, Clifford vide alcune abitazioni in mezzo a una radura nella foresta. «Dov'è casa tua?», gli chiese. Tjibaou lo guardò, aprì il palmo della mano muovendolo a 360 gradi, invitandolo a osservare l'insieme del paesaggio e gli disse in francese: «C'est ça la maison!» (È questa la casa!). 'Casa' è fuori di noi, è l'insieme delle relazioni che abbiamo con gli umani e con gli altri esseri che vivono con noi qui sulla Terra. Dobbiamo la vita a forze ed esseri 'selvatici', 'incolti', che vivono cioè fuori dai confini delle culture intese come spazi simbolici. L'incolto è la nozione di cui abbiamo bisogno per uscire da quella contrapposizione tra natura e cultura che continua a colonizzare le nostre menti. L'incolto non è il caos: è la vita che si organizza, che germoglia, che si stratifica come i coralli, che si incontra e si scontra, la vita che rinasce continuamente nei dintorni di quella organizzazione che chiamiamo 'cultura'. L'incolto è un aspetto del mondo che viviamo e della condizione umana. Non è un caso che alcune società lo abbiano 'sacralizzato' e spesso posto al centro di rituali, proteggendolo dall'invasività e dall'avidità umana con norme e divieti. È in gran parte nell'incolto o nel semi-colto delle foreste e degli oceani che si produce l'ossigeno che respiriamo; è nei greti dei torrenti e nelle forre sotterranee che si accumula l'acqua che beviamo. Gli dobbiamo l'esistenza e, anche se non sempre lo riconosciamo, l'incolto ha una sua vita, è un assemblaggio di progettualità che prescindono da noi; l'incolto si cura di noi. Noi siamo incolto.
Il lockdown è stato una forzata, lunga pausa, in cui per legge sono state sospese attività produttive, incontri sociali, manifestazioni culturali. "Sospendere" non è di certo un'idea estranea alle società umane: per esempio, la vediamo teorizzata dagli scettici del mondo antico in contatto con l'India, applicata nella cultura ebraica, praticata dai BaNande del Congo. La differenza è però notevole tra le sospensioni programmate, il cui scopo è di arrestare periodicamente le più importanti attività economiche, obbligando le società a ripartire da zero, e il nostro recente lockdown, un'esperienza straniante e inattesa, del tutto estranea al nostro modo di pensare. Una parentesi che si vorrebbe chiudere definitivamente per riprendere il cammino interrotto, quel "progresso infinito" con cui la civiltà occidentale ha voluto segnare la sua storia e la sua presenza nel mondo. In questa situazione, che cos'ha da offrire il pensiero antropologico? Deve salire sul carro del progresso o, al contrario, lavorare "contro" l'accecamento prodotto da questo mito? L'antropologia si fa portatrice di testimonianze spesso lontane nel tempo e nello spazio, in grado di mettere in luce le "vie di fuga" tracciate da ogni cultura, le sospensioni, anche traumatiche, con cui si pongono domande cruciali sul presente e sul futuro. Non è vero che le società da noi definite "tradizionali" e "premoderne" abbiano lo sguardo rivolto soltanto al passato: al contrario, non è raro trovare al loro interno un confronto esplicito tra generazioni allo scopo di garantire ai giovani un futuro vivibile. Dall'osservazione partecipante del lockdown e dalle riflessioni sulla "cultura dell'Antropocene" in cui siamo invischiati, emerge drammaticamente il "furto di futuro", l'impressionante debito economico ed ecologico che gettiamo sulle spalle delle nuove generazioni. Come venirne fuori, se non ideando un altro modo di vivere, una rivoluzione che abbia come obiettivo quello di rifondare la convivenza tra noi e gli altri abitanti della Terra, tra noi e la natura?
Che ne è del corpo dopo la morte? Perché le società umane non si limitano a sbarazzarsi dei corpi, come se si trattasse di rifiuti organici? E come spiegare l'avidità con cui gli occidentali hanno raccolto e collezionato i resti di altre forme di umanità? Partendo da una sistematica esplorazione della letteratura antropologica sulla morte, questo libro si interroga sull'importanza che alcune categorie di resti umani hanno assunto in numerose epoche e culture. Il primo capitolo introduce il lettore ai temi dell'antropologia della morte. Il secondo fornisce un'esplorazione delle differenti modalità di trattamento del cadavere. I capitoli successivi analizzano la vita sociale di particolari categorie di resti.