Il regime fascista introdusse la legislazione antiebraica nelle colonie? Fra il 1938 e il 1943 gli ebrei stranieri entrarono in Italia e nei territori da lei controllati? Mussolini seppe, nel 1942, dello sterminio in atto nel continente? Come rispose alle richieste tedesche di consegna e che provvedimenti prese verso gli ebrei italiani residenti nei paesi dominati dal Terzo Reich? Sulla base di una ricerca archivistica molto estesa, questo volume illustra politiche e iniziative attuate al di là del confine nazionale o proprio intorno a esso, evidenziando il ruolo decisionale di Mussolini. La ricostruzione del trattamento riservato agli ebrei italiani, locali e stranieri fuori della penisola completa le conoscenze su quanto accadde nel Paese in quegli stessi anni e offre ulteriori elementi per comprendere l'articolazione fra politiche e ideologia nel regime fascista.
Il nome e l'attività antifascista di Lucia Sarzi sono ben noti a chi ha letto "I miei sette figli" di Alcide Cervi o ha visto "I sette fratelli Cervi" di Gianni Puccini. A lei si deve molto del radicamento della rete clandestina che, tra case di latitanza, antifascisti e partigiani, rese possibile la Resistenza in Emilia. Attrice itinerante, giovanissima (era nata l'8 novembre 1920) entrò in contatto con i comunisti di Parma nell'estate 1940; nel novembre 1941 la famiglia Cervi scoprì lei e il suo pensiero antifascista grazie, appunto, al Teatro in cui recitava; nel 1943 accompagnava Giorgio Amendola nel suo percorso clandestino nel nord Italia e collaborava alla stampa e alla diffusione de «l'Unità». Le lettere che Lucia si scambiò con un gruppo di giovani di Lentate sul Seveso fra la fine del 1938 e l'inizio del 1940, conservate all'Archivio centrale dello Stato perché sequestrate dalla polizia, ci aiutano a comprendere la formazione culturale e politica di una ragazza di 18-19 anni e a collocare in quei mesi le radici del suo antifascismo e della sua attività clandestina.
Il filo conduttore che lega i saggi raccolti in questo volume è l’analisi della diffusione del razzismo nell’Italia degli anni Trenta, ma anche dei vuoti di memoria dell’elaborazione italiana di questo momento decisivo della nostra storia, quando la cittadinanza è stata tolta ad una parte degli italiani e contro di loro si è attuata una persecuzione basata su criteri razziali e biologici. Le leggi del 1938 si inseriscono infatti in una cultura della razza che ha profonde radici nella cultura europea ed italiana, dalla seconda metà dell’Ottocento in avanti. Una cultura fondata sul razzismo biologico, sia pur mescolato a motivazioni «spirituali»: l’idea della supremazia della «razza bianca», l’ideologia coloniale, la misoginia, il darwinismo sociale, l’eugenetica. Una cultura che si fonda su un presupposto scientificamente falso, quello dell’esistenza delle razze.
A fronte di questo, la difficoltà ad avere memoria delle leggi del 1938 - emerse all’attenzione degli storici solo nel 1988, in occasione del loro cinquantesimo anniversario - ha fatto sì che la narrazione della legislazione razzista e della sua applicazione manchi tuttora quasi interamente nella riflessione degli storici dell’arte, delle scienze e della letteratura, ma soprattutto nella divulgazione e nella manualistica. Le radici di questo silenzio nascono dalla rimozione delle responsabilità, caratteristica dell’Italia del dopoguerra: una riflessione sui vuoti della nostra memoria e del nostro senso comune ci riporta oggi alla necessità di fare infine un bilancio dei danni provocati dal razzismo nella nostra cultura e nella nostra società.
Marina Beer insegna Letteratura italiana presso la Sapienza, Università di Roma.
Anna Foa insegna Storia moderna presso la Sapienza, Università di Roma.
Isabella Iannuzzi collabora con il Dipartimento di Storia moderna e contemporanea della Sapienza, Università di Roma.