«Queste e tant'altre cose ebbero origine quasi settant'anni fa in una città siciliana di provincia, in una città distrutta, in una comunità traumatizzata e isolata dai grandi centri. Ma Palermo non era, come la Spagna nel suo torpore franchista, una casa di morti. Giuseppe Lampedusa o Lucio Piccolo erano dei dilettanti, ma rientravano anche nella categoria dei sapienti appartati, erano l'humus di un mondo civile». Poiché il principe che scrisse Il Gattopardo fu il creatore di un mito, di un modo di dire, di una concezione del mondo (gattopardesco, appunto), questo suo ritratto, che si allarga a una città vissuta e a una classe sociale al tramonto, cerca di introdurre nel suo modo di leggere i libri degli altri e di assimilarli a se stesso, nel suo modo di specchiare nelle proprie le altre immagini letterarie, nel suo modo di guardare con il massimo ingrandimento i meccanismi delle narrazioni. Gioacchino Lanza Tomasi, suo figlio adottivo, fu per anni anche l'allievo della piccola accademia di lettura che Tomasi di Lampedusa teneva per alcuni giovani; ed è stato anche nel tempo l'artefice di un'opera filologica che «ha così propiziato - spiega Silvano Nigro nella Nota al volume - la rilettura critica del Gattopardo». «Gioitto» - così era chiamato nelle lettere del principe - inizia i suoi ricordi, dettati poco prima di morire, dalla biblioteca della madre spagnola. Testi spagnoli classici di grandi narratori e poeti: Tomasi di Lampedusa vi poteva esercitare ariosamente la sua arte «di indagatore del comportamento umano e di narratologo». «Asciutto e fascinoso racconto critico. È il ritratto intimo della Palermo negli anni di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Ma è anche il romanzo di formazione di un giovane che arriverà a guardarsi nello specchio delle pagine scritte dal padre adottivo» (Salvatore Silvano Nigro).
Quante sono le città della nostra vita, e che cosa rappresentano? Questo libro è un viaggio nel tempo e nello spazio: dagli angeli sulle rovine di Bruxelles al sole elettrico di Battipaglia, dalla stanza dei bottoni di Washington alla madre dell'Italia infeconda di Veio, dai tizzoni bruciati di Volgograd alle sapienze perdute di Atene. Eraldo Affinati è un maestro della toponomastica lirica. Ha raccolto trecento città del mondo: conosciute, sognate, inventate, tutte descritte ed evocate in brevi ritratti di grande concisione fantastica e affettuosa adesione sentimentale, nei quali i lettori potranno riconoscere le proprie stesse preferenze e idiosincrasie, in un gioco di riflessi capace di favorire e moltiplicare le connessioni interiori. Ogni descrizione di città è un romanzo in miniatura. Ogni sezione è introdotta da un corsivo che racconta una città-guida: Charkiv, sconvolta dal recente conflitto russo-ucraino, nel fantasma della Seconda guerra mondiale; Venezia, segnata dal dolore della bellezza; Roma, caput mundi. Ci si può perdere nella polvere mesopotamica di Babilonia, tra le galline senza cresta di Acchiappa-citrulli, sulle tracce di Anguilla a Yuma, nei promontori di Rosberg a Fulgor. Il prologo è a New York, matrice urbana della modernità sfregiata e ricostruita, città simbolo con una costante vocazione alla decadenza; l'epilogo invece è a Gerusalemme, in grado di riassumere, nella sua storia splendida e drammatica, tutti i grovigli irrisolti del mondo. Le città del mondo è un libro che appassiona sin dalle prime righe, un labirinto magico nel quale si è felici di perdersi.
"In posti lontani abbiamo condiviso notti con le briciole di stelle cadenti, abbiamo respirato i loro pulviscoli incendiati dall'attrito con l'aria. Nel sonno abbiamo sentito la giravolta delle costellazioni con la Stella Polare fissa al centro, a pirolino di roulette. Abbiamo scippato certe notti così alla vita dei giorni. Distanti da candele, lampadine, fari e torri di guardia, abbiamo fissato nelle pupille la distesa dei puntini luce." Sono pagine di commozione trattenuta, e per questo tanto più commoventi e vivide, queste che Erri De Luca dedica alla guida alpina Diego Zanesco, che ha perso la vita nell'estate del 2023 sulla Tofana di Rozes: amico seguito sui saliscendi in Ecuador o sulle Dolomiti. Nell'indagare la causa della sua caduta, cercando il punto preciso del suo distacco dalla roccia, De Luca gli restituisce corpo e voce, riporta pagine dei suoi taccuini e passi dalle lettere che negli anni si sono scritti, tracciandone un ritratto concreto e poetico. E restituisce al contempo, facendoci sentire la roccia sotto le dita, anche il suono degli zoccoli dello stambecco che fugge, il peso del corpo sugli appigli, la ragione stessa di scalare. L'amicizia, la montagna e i libri si intrecciano in questo "Discorso per un amico" con dolcezza, gratitudine e dolore: "Per me rimani Diego, per me insisti, prosegui e io continuo a seguirti". Una serie di fotografie a colori segue passo passo le parole. Questo è per me il racconto di un'amicizia tra due uomini che si sono incontrati per due coincidenze: i libri e le montagne.
Nelle terre di confine del Popolo degli Uomini martoriato dagli Orchi si muove un ragazzo con un marchio sulla fronte. È nato in un lebbrosario, figlio di una lebbrosa e di un uomo sano che l'ha seguita nel luogo più disperato mondo. E nell'amore di una madre e di un padre è stato cresciuto restando, miracolosamente, indenne dalla malattia. Uscirà dal lebbrosario come «Melmoso», nome dato ai figli sani di lebbrosi. Le umiliazioni subite lo porteranno a infierire su chi, in quel momento, è considerato perfino più abietto di lui: gli Elfi, il popolo alleato degli uomini che, dopo averli protetti per secoli, non è riuscito a salvarli dalle ultime invasioni e a cui viene ora attribuita la colpa di tutto, anche dell'acqua che sta trasformando la terra in una palude. Dal fango dell'ignominia Yorsh saprà riscattarsi, ponendo le basi per la salvezza del mondo.
Milano, 1965. La famiglia di Costantino lascia la Valcamonica per un lavoro in fabbrica. L'impatto con la città è una ferita per il ragazzino che a 10 anni sogna di compiere gesta eroiche. Il suo compagno di banco napoletano, Salvatore, e il "borghese" Lorenzo, lo aiutano ad ambientarsi. Al liceo Beccaria, si fa coinvolgere da Piero nel collettivo studentesco e nel circolo del nuovo professore di filosofia. Vorrebbe cambiare il mondo, ma non ha il coraggio di dichiararsi a Sara.
Arrivato alla soglia dei novant'anni, dopo aver affascinato i suoi lettori con i segreti della Storia, della musica e della religione, Corrado Augias racconta l'avventura di una vita, la sua. E con grande talento di narratore, evoca l'infanzia in Libia, il ritorno a Roma, l'incubo dell'occupazione tedesca, il collegio cattolico, i primi passi nel giornalismo, e poi «Telefono giallo» e «la Repubblica». È un racconto che ha il calore e l'empatia della conversazione tra amici: la vita s'impara, ci dice Augias - soprattutto se non si perdono mai la curiosità intellettuale e la passione civile. A quasi novant'anni, Corrado Augias è un prezioso testimone del cambiamento. L'Italia di oggi - esclusi gli eterni vizi nazionali - assomiglia poco a quella di ieri. Augias ci racconta l'infanzia passata in Libia al seguito del padre ufficiale della Regia Aeronautica; la guerra e i bombardamenti; l'incubo di una feroce e lugubre occupazione; gli anni in un collegio cattolico, per lui che oggi si confessa ateo. E poi la vita professionale, il giornalismo, i libri, le fortunate circostanze che lo hanno reso partecipe di tre eventi importanti nella vita culturale del paese: la nascita della Direzione centrale programmi culturali della Rai; la fondazione del giornale «la Repubblica» nel 1976, il rilancio di RaiTre nel 1987. L'invenzione di alcuni fortunati programmi televisivi da «Telefono giallo» a «Babele», da «Città segrete» alla più recente creatura «La gioia della musica», ultimo programma ideato per la Rai prima del passaggio a La7 ancora una volta con un fortunato programma di cultura: «La Torre di Babele». Accadimenti che sono però solo la parte pubblica di un percorso che ha una componente intima ancora più interessante: il lungo apprendistato a una matura dimensione d'intellettuale. Agli eventi che hanno scandito la sua vita, Augias affianca le letture di cui s'è nutrito e dalle quali ha «imparato a vivere». Da Tito Lucrezio Caro a Renan, da Feuerbach a Freud e poi Spinoza, Manzoni, Beethoven, Nietzsche, Leopardi, i suoi maestri sono pensatori, poeti, narratori, musicisti: una costellazione ampia che non esita a chiamare il suo pantheon, figure che hanno arricchito il suo percorso professionale e, insieme, la sua consapevolezza di cittadino.
La viva voce dell'intellettuale più lucida e appassionata del nostro tempo torna a visitarci per una formidabile resa dei conti sul potere, il femminismo, la fede, la letteratura. Ma soprattutto sulle dieci vite che ha vissuto con incantata sfacciataggine, senza paura, ripercorse oralmente nell'unica autobiografia organica possibile per una che ha attraversato il mondo correndo scalza, bruciando luminosamente ogni tappa. Alla vigilia di una morte che l'ha vista gioiosa come una martire capace di cantare mentre avanza verso i leoni, Michela Murgia ha trascorso una settimana a raccontarsi a Beppe Cottafavi, suo editor e amico. Le registrazioni di quella sua ultima estate, ancora piena di storie come lo erano state le cinquanta precedenti, danno sostanza a questo suo libro straordinario, arricchito da quattro splendidi racconti ritrovati e da altri testi perduti che l'autrice ha scelto e indicato tra un ricordo e l'altro. Da un simile stagno brulicante di vita, come quello sulle cui rive è cresciuta, affiora un arcipelago di dettagli intimi: innamoramenti e parentele queer, matriarche oristanesi che sgranano rosari di cinque colori per salvare ogni continente, madonne con la parrucca, uomini violenti e maestri sognanti, lezioni di lingua sarda e cultura coreana, di esegesi biblica e di scrittura magica, di politica attiva e di militanza culturale. Franca e visionaria, antifascista e immune dai compromessi, Murgia ci rivela com'è che una ragazza di provincia, addestrata a leggere il Vangelo e ad accontentarsi di sopravvivere, si sia messa in testa di cambiare il mondo invece, affidandosi a un'irriducibile aspirazione alla felicità.
Doveva avere sette anni, forse nove, non lo ricorda con esattezza Neige quando il suo patrigno ha cominciato ad abusare di lei. A parte il momento esatto in cui tutto ha avuto inizio (il trauma ha alterato per sempre la cronologia dei fatti), i ricordi sono perfettamente incisi nella mente e nel corpo della donna che Neige è diventata. La decisione a diciannove anni di rompere il silenzio, la denuncia, il processo pubblico, il carcere per lo stupratore, la vita nuova molto lontano dalla Francia. E quella donna si è interrogata a lungo se scrivere il libro che stringete tra le mani, perché trovava solo motivi per non farlo. Fino al giorno in cui il passato l'ha raggiunta e l'impossibilità di scrivere è diventata impossibilità di non scrivere. Questa che leggerete non è «soltanto» la storia di una bambina che è stata violentata per anni da un adulto; è la ricerca pervicace degli strumenti per dire di quell'altro luogo, il paese delle tenebre dove vivono tutti quelli come Neige; è il rifiuto netto della retorica delle vittime (nessuna resilienza, nessun oblio, nessun perdono); è la necessità di trovare semplici parole precise che dichiarino l'irreparabilità del danno; è l'urgenza di rendere testimonianza, sì, ma collettiva. Perché l'abuso si consuma in una dimensione separata di omertà e solitudine, una dimensione che è fisicamente la stessa in cui si svolge il resto della vita, ma che si sovrappone come un doppio di intollerabile nitore. Triste tigre è il viaggio in questa dimensione, è il dialogo necessario con i grandi della letteratura che questa dimensione l'hanno interrogata, e che hanno fornito all'autrice gli strumenti per tutto questo. Un libro, che usa la scrittura come un martello, attraversato da una domanda: colui che ha creato l'agnello ha creato anche la tigre?
Aveva quattordici anni Smita quando con la sua famiglia ha dovuto lasciare l'India in circostanze drammatiche. Una volta al sicuro in America, ha scacciato dal cuore la nostalgia per i crepuscoli aranciati e il profumo inebriante dei cibi che il padre le comprava dai venditori ambulanti e giurato a se stessa che mai più sarebbe tornata in quei luoghi che l’avevano così profondamente ferita. Ma anni dopo si ritrova a dover accettare con riluttanza l'incarico di coprire una storia di cronaca a Mumbai, per il suo giornale. Seguendo il caso di Meena, una giovane donna sfigurata brutalmente dai suoi fratelli e dai membri del suo villaggio per aver sposato un uomo di un'altra religione, Smita si ritrova di nuovo faccia a faccia con una società che appena fuori dallo skyline luccicante delle metropoli le pare cristallizzata in un eterno Medioevo, in cui le tradizioni hanno più valore del cuore del singolo, e con una storia che minaccia di portare alla luce tutti i dolorosi segreti del suo passato. Eppure, a poco a poco le sue difese cominciano a vacillare, i ricordi a riaffiorare e la passione a fare nuovamente breccia in lei. Sullo sfondo di un meraviglioso Paese sospeso tra modernità e oscurantismo, in un crescendo di tensione, due donne coraggiose e diversamente ribelli si confrontano con le conseguenze di due opposti concetti di onore e di libertà, in una storia indimenticabile di tradimento, sacrificio, devozione, speranza e invincibile amore.
Agosto 1471. Esausto dal lungo viaggio, un giovane frate attraversa le antiche mura che difendono la città, passa accanto alle vestigia diroccate di un passato ormai dimenticato, s'inoltra in un intrico di vicoli bui e puzzolenti. E infine sbuca in una piazza enorme, davanti alla basilica più importante della cristianità, dove si unisce al resto della popolazione. Ma lui non è una persona qualunque. Non più. È il nipote del nuovo papa, Sisto IV. È Giuliano della Rovere. E quello è il primo giorno della sua nuova vita, un giorno che segnerà il suo destino: dopo aver assistito alla solenne incoronazione dello zio, Giuliano viene coinvolto dai suoi cugini, Girolamo e Pietro Riario, in una folle girandola di festeggiamenti nelle bettole della città, per poi rischiare la morte in un agguato e ritrovarsi al sicuro tra le braccia di una fanciulla dal fascino irresistibile. È il benvenuto di Roma a quell'umile fraticello, che subito impara la lezione. Solo i più forti, i più determinati, i più smaliziati sopravvivono in quel pantano che è la curia romana. Inizia così la scalata di Giuliano, che scopre di avere dentro di sé un'ambizione bruciante, pari solo all'attrazione per Lucrezia Normanni, la donna che lo aveva salvato quel fatidico, primo giorno, e che rimarrà al suo fianco per gli anni successivi, dandogli pure una figlia. Anni passati a fronteggiare con ogni mezzo sia le oscure manovre del suo grande avversario, il cardinale Rodrigo Borgia, sia i tradimenti dei suoi stessi parenti, i Riario. Anni passati sui campi di battaglia, a imparare l'arte della guerra, e a tramare in segreto contro i Medici di Firenze, nonostante il disastroso esito della congiura dei Pazzi. E tutto per prepararsi a un evento ineluttabile: la morte di suo zio, il papa, e l'apertura del conclave. Ecco la grande occasione di conquistare il potere assoluto. Ma Giuliano scoprirà che il destino, per il momento, ha altri piani per lui...
Come l'Apocalisse ricorda più volte, un agnello fu ucciso «prima della costituzione del mondo». Quell'agnello sarebbe stato una presenza ricorrente nella Bibbia e il suo sangue sarebbe servito a riscattare temporaneamente gli Ebrei, come accadde con la fuga dall'Egitto, per riapparire un giorno davanti agli occhi di Giovanni Battista nella figura di Gesù - e questa volta il suo sangue avrebbe riscattato tutti per sempre. «Dall'animale muto per il terrore si giungeva al Logos, alla Parola vivente. Era questa la storia sacra». Ma chi era quell'essere candido e ferito che Iahvè aveva posto all'inizio di tutto? Per mano di chi era stato ucciso e perché alla fine del Nuovo Testamento, proprio nell'Apocalisse, faceva ritorno? Non bastava che Gesù, con la sua morte, avesse riscattato l'umanità intera? Nessuno ha saputo rispondere. Ma i suoi occhi - quegli occhi distanti e impenetrabili che van Eyck una volta osò raffigurare nel Polittico di Gand - sembrano guardarci ancora attraverso le pagine di questo libro, che con voce pacata e definitiva ci obbliga a ripensare una delle figure più misteriose e sconcertanti della Bibbia e del cristianesimo.