"La sezione prima degli 'Opera omnia' di Henri de Lubac si sostanzia di quattro scritti che, sotto il titolo 'L'uomo davanti a Dio', sono ricondotti dallo stesso autore a questo ordine: 1. 'Sulle vie di Dio'; 2. 'Il dramma dell'umanesimo ateo'; 3. 'Proudhon e il cristianesimo'; 4. 'Paradossi e nuovi paradossi'. L'intento non è stato quello di una proposizione cronologica, ma dell'articolazione dei nuclei tematici del lavoro e della riflessione teologici e storico-teologici dell'autore. [...] Dovessimo trovare, per quanto ci è dato osservare, un centro, non sistematico ma genetico, a questo plesso di opere, attorno a cui far gravitare l'impegno circoscritto da questa produzione letteraria, lo vedremmo in quel dialogo 'disarmato' tra due ventenni, un gesuita o meglio aspirante gesuita e un neo-insegnante non credente, nelle trincee della Grande Guerra. Ci pare che il fatto, insistentemente ricordato dal teologo, conferisca intensità al titolo stesso scelto per la sezione e alla sua problematicità. E ci pare che esso sia ciò che concretamente segna il fuoco o l'anima dell'impegno intellettuale di de Lubac, almeno per questa sezione. [...] Il carattere di quello che de Lubac chiama 'umanesimo ateo' non è assimilabile a quello dell'ateismo volgare e neppure a un 'ateismo puramente critico', 'incapace di sostituire ciò che vuole distruggere'; si tratta di un ateismo che 'vuole essere sempre più positivo, organico, costruttivo'; vuole un nuovo umanesimo, dopo aver agito, mediante una critica radicale perché l'umanità occidentale rinneghi 'le sue origini cristiane' e volti le spalle a Dio. Nella loro diversità questi umanesimi sono accomunati da un 'immanentismo di natura mistica' e da una 'lucida coscienza del divenire umano'. È 'molto più' di un a-teismo, la sua negazione è un anti-teismo, 'più precisamente un anticristianesimo'." (Dall'Introduzione di Costante Marabelli alla sezione prima dell'"Opera omnia")
«Un'incrollabile certezza caratterizza tutto il pensiero di de Lubac sul soprannaturale: contro ogni riduzione antropologica della teologia operata dall'ateismo è possibile al cristiano, partendo dalla sua fede, mostrare a se stesso e a chiunque altro che esiste effettivamente un legame intimo tra la religione del Dio fatto uomo e l'antropologia, senza con ciò aderire alla riduzione antropologica laicista e secolarizzata adottata dall'ateismo, anzi contestandola radicalmente. Infatti, per mezzo di Cristo e in Cristo, Dio, rivelando se stesso all'uomo, rivela anche l'uomo a se stesso, cioè conduce l'uomo a scoprire la sua più propria ed intima essenza e destinazione. Al tempo stesso, sulla scorta di tutti gli studi storici precedentemente svolti da de Lubac sul soprannaturale, si svela anche fino in fondo il facile malinteso circa un modo di intendere il dialogo e la collaborazione pratica con la contemporanea cultura atea. La Chiesa smarrirebbe infatti completamente il senso e la possibilità stessa della sua missione nel mondo, qualora pensasse di poter raggiungere una perfetta condivisione d'intenti con il mondo a partire da un concetto di "natura umana" concepita come pienamente autosufficiente e compiuta in se stessa. Sulla base di questa fragile e contestabile premessa sarebbe fin troppo facile condividere, con tutti i possibili interlocutori, i cosiddetti valori semplicemente umani, lasciando indefinitamente sullo sfondo il problema religioso che giunge a porre seriamente la questione del destino ultimo dell'uomo. In tal caso il "soprannaturale" apparirebbe semplicemente come quel "superfluo" che potrebbe essere messo tranquillamente tra parentesi e sospeso di fatto, senza che esso abbia incidenza alcuna sulla possibilità di individuare, a livello teorico e pratico, l'unico fine ultimo e vero, quello soprannaturale, cui l'uomo reale, creato da Dio, tende di fatto con tutte le sue forze». (Dall'Introduzione di Franco Buzzi alla Sezione quarta dell'Opera Omnia)
"Un'incrollabile certezza caratterizza tutto il pensiero di de Lubac sul soprannaturale: contro ogni riduzione antropologica della teologia operata dall'ateismo è possibile al cristiano, partendo dalla sua fede, mostrare a se stesso e a chiunque altro che esiste effettivamente un legame intimo tra la religione del Dio fatto uomo e l'antropologia, senza con ciò aderire alla riduzione antropologica laicista e secolarizzata adottata dall'ateismo, anzi contestandola radicalmente. Infatti, per mezzo di Cristo e in Cristo, Dio, rivelando se stesso all'uomo, rivela anche l'uomo a se stesso, cioè conduce l'uomo a scoprire la sua più propria ed intima essenza e destinazione. Al tempo stesso, sulla scorta di tutti gli studi storici precedentemente svolti da de Lubac sul soprannaturale, si svela anche fino in fondo il facile malinteso circa un modo di intendere il dialogo e la collaborazione pratica con la contemporanea cultura atea. La Chiesa smarrirebbe infatti completamente il senso e la possibilità stessa della sua missione nel mondo, qualora pensasse di poter raggiungere una perfetta condivisione d'intenti con il mondo a partire da un concetto di "natura umana" concepita come pienamente autosufficiente e compiuta in se stessa. Sulla base di questa fragile e contestabile premessa sarebbe fin troppo facile condividere, con tutti i possibili interlocutori, i cosiddetti valori semplicemente umani, lasciando indefinitamente sullo sfondo il problema religioso che giunge a porre seriamente la questione del destino ultimo dell'uomo. In tal caso il "soprannaturale" apparirebbe semplicemente come quel "superfluo" che potrebbe essere messo tranquillamente tra parentesi e sospeso di fatto, senza che esso abbia incidenza alcuna sulla possibilità di individuare, a livello teorico e pratico, l'unico fine ultimo e vero, quello soprannaturale, cui l'uomo reale, creato da Dio, tende di fatto con tutte le sue forze." (Dall'introduzione di Franco Buzzi alla Sezione quarta dell'"Opera Omnia")
"Tra il 1951 e il 1955 de Lubac pubblicava a Parigi le due opere principali dedicate al buddhismo: 'Aspects du Bouddhisme' e 'Amida', frutti di un ventennio di studi e d'insegnamento, poi edite nel 1979 nel volume 21 dell''Opera Omnia' in lingua italiana. A queste seguiranno, a breve distanza di tempo, 'La rencontre du Bouddhisme' et de l'Occident' (1952) e, dopo un trentennio, le ultime più mature riflessioni su questo tema nei tre saggi pubblicati in Appendice al tomo II, ventiduesimo volume dell''Opera Omnia' edita da Jaca Book nel 1987. Sono questi gli scritti che ora vengono ripubblicati, in un'epoca oggi segnata dalla globalizzazione e da flussi migratori di rilevanza mondiale, che ridanno piena attualità a questi scritti già fondamentali dal primo loro apparire. La prospettiva principale sotto la quale è esaminato il buddhismo è lontana tanto da pregiudizi negativi, quanto da irenismo o sincretismo. Convinto che l'uomo è un mistero a se stesso, e che il fenomeno universale del misticismo esprime l'agostiniana, inesauribile sete di Dio - 'inquietum est cor nostrum donec requiescat in Te' - l'Autore esplora le vette buddiche come un alpinista, attratto dalle vette delle varie religioni e filosofie, che però considera come 'tante cime separate da abissi'. Sempre vigile e attento nell'evitare 'l'orgoglio europeo' denunciato da Camus, e la dipendenza dalle 'teorie puramente occidentali' secondo l'ammonimento di Guénon, il Nostro c'introduce nel cuore del pensiero buddhista, traboccante di compassione e verità universali. La mistica buddhista e il suo intreccio filosofico ed etico vanno esaminati, ci raccomanda de Lubac, con il supporto di rigorose analisi storiche, filologiche e scientifiche, ponendo attenzione all'evoluzione plurimillenaria delle dottrine e al vario condizionamento geografico, culturale e sociale nel quale il buddhismo prende forma." (Dall'introduzione di Pier Francesco Fumagalli alla Sezione sesta dell'Opera Omnia)
«Tra il 1951 e il 1955 de Lubac pubblicava a Parigi le due opere principali dedicate al buddhismo: Aspects du Bouddhisme e Amida, frutti di un ventennio di studi e d'insegnamento, poi edite nel 1979 nel volume 21 dell'Opera Omnia in lingua italiana. A queste seguiranno, a breve distanza di tempo, ha rencontre du Bouddhisme et de l'Occident (1952) e, dopo un trentennio, le ultime più mature riflessioni su questo tema nei tre saggi pubblicati in Appendice al tomo il, ventiduesimo volume dell'Opera Omnia edita da Jaca Book nel 1987. Sono questi gli scritti che ora vengono ripubblicati, in un'epoca oggi segnata dalla globalizzazione e da flussi migratori di rilevanza mondiale, che ridanno piena attualità a questi scritti già fondamentali dal primo loro apparire. La prospettiva principale sotto la quale è esaminato il buddhismo è lontana tanto da pregiudizi negativi, quanto da irenismo o sincretismo. Convinto che l'uomo è un mistero a se stesso, e che il fenomeno universale del misticismo esprime l'agostiniana, inesauribile sete di Dio - inquietum est cor nostrum donec requiescat in Te - l'Autore esplora le vette buddiche come un alpinista, attratto dalle vette delle varie religioni e filosofie, che però considera come "tante cime separate da abissi". Sempre vigile e attento nell'evitare "l'orgoglio europeo" denunciato da Camus, e la dipendenza dalle "teorie puramente occidentali" secondo l'ammonimento di Guénon, il Nostro c'introduce nel cuore del pensiero buddhista, traboccante di compassione e verità universali. La mistica buddhista e il suo intreccio filosofico ed etico vanno esaminati, ci raccomanda de Lubac, con il supporto di rigorose analisi storiche, filologiche e scientifiche, ponendo attenzione all'evoluzione plurimillenaria delle dottrine e al vario condizionamento geografico, culturale e sociale nel quale il buddhismo prende forma». (Dall'Introduzione di Pier Francesco Fumagalli alla Sezione sesta dell'Opera Omnia)
«Un'incrollabile certezza caratterizza tutto il pensiero di de Lubac sul soprannaturale: contro ogni riduzione antropologica della teologia operata dall'ateismo è possibile al cristiano, partendo dalla sua fede, mostrare a se stesso e a chiunque altro che esiste effettivamente un legame intimo tra la religione del Dio fatto uomo e l'antropologia, senza con ciò aderire alla riduzione antropologica laicista e secolarizzata adottata dall'ateismo, anzi contestandola radicalmente. Infatti, per mezzo di Cristo e in Cristo, Dio, rivelando se stesso all'uomo, rivela anche l'uomo a se stesso, cioè conduce l'uomo a scoprire la sua più propria ed intima essenza e destinazione. Al tempo stesso, sulla scorta di tutti gli studi storici precedentemente svolti da de Lubac sul soprannaturale, si svela anche fino in fondo il facile malinteso circa un modo di intendere il dialogo e la collaborazione pratica con la contemporanea cultura atea. La Chiesa smarrirebbe infatti completamente il senso e la possibilità stessa della sua missione nel mondo, qualora pensasse di poter raggiungere una perfetta condivisione d'intenti con il mondo a partire da un concetto di "natura umana" concepita come pienamente autosufficiente e compiuta in se stessa. Sulla base di questa fragile e contestabile premessa sarebbe fin troppo facile condividere, con tutti i possibili interlocutori, i cosiddetti valori semplicemente umani, lasciando indefinitamente sullo sfondo il problema religioso che giunge a porre seriamente la questione del destino ultimo dell'uomo. In tal caso il "soprannaturale" apparirebbe semplicemente come quel "superfluo" che potrebbe essere messo tranquillamente tra parentesi e sospeso di fatto, senza che esso abbia incidenza alcuna sulla possibilità di individuare, a livello teorico e pratico, l'unico fine ultimo e vero, quello soprannaturale, cui l'uomo reale, creato da Dio, tende di fatto con tutte le sue forze.» (Dall'Introduzione di Franco Buzzi)
«Un'incrollabile certezza caratterizza tutto il pensiero di de Lubac sul soprannaturale: contro ogni riduzione antropologica della teologia operata dall'ateismo è possibile al cristiano, partendo dalla sua fede, mostrare a se stesso e a chiunque altro che esiste effettivamente un legame intimo tra la religione del Dio fatto uomo e l'antropologia, senza con ciò aderire alla riduzione antropologica laicista e secolarizzata adottata dall'ateismo, anzi contestandola radicalmente. Infatti, per mezzo di Cristo e in Cristo, Dio, rivelando se stesso all'uomo, rivela anche l'uomo a se stesso, cioè conduce l'uomo a scoprire la sua più propria ed intima essenza e destinazione. Al tempo stesso, sulla scorta di tutti gli studi storici precedentemente svolti da de Lubac sul soprannaturale, si svela anche fino in fondo il facile malinteso circa un modo di intendere il dialogo e la collaborazione pratica con la contemporanea cultura atea. La Chiesa smarrirebbe infatti completamente il senso e la possibilità stessa della sua missione nel mondo, qualora pensasse di poter raggiungere una perfetta condivisione d'intenti con il mondo a partire da un concetto di "natura umana" concepita come pienamente autosufficiente e compiuta in se stessa. Sulla base di questa fragile e contestabile premessa sarebbe fin troppo facile condividere, con tutti i possibili interlocutori, i cosiddetti valori semplicemente umani, lasciando indefinitamente sullo sfondo il problema religioso che giunge a porre seriamente la questione del destino ultimo dell'uomo. In tal caso il "soprannaturale" apparirebbe semplicemente come quel "superfluo" che potrebbe essere messo tranquillamente tra parentesi e sospeso di fatto, senza che esso abbia incidenza alcuna sulla possibilità di individuare, a livello teorico e pratico, l'unico fine ultimo e vero, quello soprannaturale, cui l'uomo reale, creato da Dio, tende di fatto con tutte le sue forze». (Dall'introduzione di Franco Buzzi)
«Il senso che la Chiesa, e l'appartenenza ad essa, riveste per il credente in Cristo, per il suo essere uomo e la sua salvezza è tutt'altro che scontato: verrebbe anzi da dire che è sempre meno scontato. Quale sia il motivo per cui, in altri termini, la salvezza si realizzi - pur in modo incipiente - in forma ecclesiale e perché il credere del cristiano sia strutturalmente un con-credere rimane quasi sempre questione inevasa. [...] La visione ecclesiologica di de Lubac resta a tutt'oggi, tra gli studi occidentali, una delle poche all'altezza di una tale fondamentale questione. Ciò è evidente quando si leggano i testi a carattere ecclesiologico del teologo di Lione in raffronto con gli altri suoi studi, soprattutto quelli sul soprannaturale: cosa assolutamente legittima e forse doverosa dal momento che, come ha notato un autorevole commentatore come Balthasar, in Cattolicismo c'era già in nuce tutto quanto si sarebbe sviluppato nella monumentale opera di de Lubac. In un tale orizzonte appare infatti evidente come esista, per così dire, un "aspetto sociale del soprannaturale": tanto più visibile quanto più si passi da una sua considerazione in termini formali a una sua lettura che ne rifletta la concretezza cristologica. L'uomo è creato non solo in una generica immagine di Dio, ma porta impressa in sé l'immagine del Viglio fatto uomo, dell'Unigenito che si è fatto il "primogenito di molti fratelli" (Rm 8,29): per questo non esiste altra vocazione umana che non sia quella alla filiazione divina e, dunque, alla fraternità con gli altri uomini. Il senso per il quale la Chiesa sia la forma incipiente della salvezza è rinvenibile quando si consideri che non esiste uomo se non in Cristo e, dunque, vocato alla filiazione divina e alla fraternità inter-umana. Per l'uomo essere è partecipare dell'essere di Cristo e dunque, co-essere con gli altri uomini, suoi fratelli. Si tratta di dimensioni fondamentali e in certo senso previe a qualunque altra riflessione ecclesiologica, su cui l'opera delubachiana può ancora beneficamente indirizzare.» (Dall'Introduzione di Roberto Repole alla Sezione terza dell'Opera Omnia)
«Il senso che la Chiesa, e l'appartenenza ad essa, riveste per il credente in Cristo, per il suo essere uomo e la sua salvezza è tutt'altro che scontato: verrebbe anzi da dire che è sempre meno scontato. Quale sia il motivo per cui, in altri termini, la salvezza si realizzi - pur in modo incipiente - in forma ecclesiale e perché il credere del cristiano sia strutturalmente un con-credere rimane quasi sempre questione inevasa. [...] La visione ecclesiologica di de Lubac resta a tutt'oggi, tra gli studi occidentali, una delle poche all'altezza di una tale fondamentale questione. Ciò è evidente quando si leggano i testi a carattere ecclesiologico del teologo di Lione in raffronto con gli altri suoi studi, soprattutto quelli sul soprannaturale: cosa assolutamente legittima e forse doverosa dal momento che, come ha notato un autorevole commentatore come Balthasar, in Cattolicismo c'era già in nuce tutto quanto si sarebbe sviluppato nella monumentale opera di de Lubac. In un tale orizzonte appare infatti evidente come esista, per così dire, un "aspetto sociale del soprannaturale": tanto più visibile quanto più si passi da una sua considerazione in termini formali a una sua lettura che ne rifletta la concretezza cristologica. L'uomo è creato non solo in una generica immagine di Dio, ma porta impressa in sé l'immagine del Figlio fatto uomo, dell'Unigenito che si è fatto il "primogenito di molti fratelli" (Rm 8,29): per questo non esiste altra vocazione umana che non sia quella alla filiazione divina e, dunque, alla fraternità con gli altri uomini. Il senso per il quale la Chiesa sia la forma incipiente della salvezza è rinvenibile quando si consideri che non esiste uomo se non in Cristo e, dunque, vocato alla filiazione divina e alla fraternità inter-umana. Per l'uomo essere è partecipare dell'essere di Cristo e dunque, co-essere con gli altri uomini, suoi fratelli. Si tratta di dimensioni fondamentali e in certo senso previe a qualunque altra riflessione ecclesiologica, su cui l'opera delubachiana può ancora beneficamente indirizzare». (Dall'Introduzione di Roberto Repole alla Sezione terza dell'Opera Omnia)
«Il senso che la Chiesa, e l'appartenenza ad essa, riveste per il credente in Cristo, per il suo essere uomo e la sua salvezza è tutt'altro che scontato: verrebbe anzi da dire che è sempre meno scontato. Quale sia il motivo per cui, in altri termini, la salvezza si realizzi - pur in modo incipiente - in forma ecclesiale e perché il credere del cristiano sia strutturalmente un con-credere rimane quasi sempre questione inevasa. La visione ecclesiologica di de Lubac resta a tutt'oggi, tra gli studi occidentali, una delle poche all'altezza di una tale fondamentale questione. Ciò è evidente quando si leggano i testi a carattere ecclesiologico del teologo di Lione in raffronto con gli altri suoi studi, soprattutto quelli sul soprannaturale: cosa assolutamente legittima e forse doverosa dal momento che, come ha notato un autorevole commentatore come Balthasar, in 'Cattolicismo' c'era già in nuce tutto quanto si sarebbe sviluppato nella monumentale opera di de Lubac. In un tale orizzonte appare infatti evidente come esista, per così dire, un 'aspetto sociale del soprannaturale': tanto più visibile quanto più si passi da una sua considerazione in termini formali a una sua lettura che ne rifletta la concretezza cristologica. L'uomo è creato non solo in una generica immagine di Dio, ma porta impressa in sé l'immagine del Figlio fatto uomo, dell'Unigenito che si è fatto il 'primogenito di molti fratelli' (Rm 8,29): per questo non esiste altra vocazione umana che non sia quella alla filiazione divina e, dunque, alla fraternità con gli altri uomini. Il senso per il quale la Chiesa sia la forma incipiente della salvezza è rinvenibile quando si consideri che non esiste uomo se non in Cristo e, dunque, vocato alla filiazione divina e alla fraternità inter-umana. Per l'uomo essere è partecipare dell'essere di Cristo e dunque, co-essere con gli altri uomini, suoi fratelli. Si tratta di dimensioni fondamentali e in certo senso previe a qualunque altra riflessione ecclesiologica, su cui l'opera delubachiana può ancora beneficamente indirizzare.» (dall'introduzione di Roberto Repole)
«I due volumi di de Lubac mantengono tutto l’interesse per la storia della ricezione e degli effetti del pensiero di Gioacchino da Fiore. Anche in tutte queste pagine, appare l’erudizione prodigiosa del gesuita francese. Quella che egli delinea è una straordinaria storia del pensiero e della nostra tradizione. […] Il gesuita teologo non ha fatto però soltanto opera di storico erudito. È stato teologo e uomo di Chiesa, e non ha nascosto le sue carte. Egli medesimo ci dà la chiave di lettura, il suo punto di vista, e riconosce la sua come una lettura non neutra della storia (ma esiste una lettura totalmente neutra, distaccata?). Per capire, ricordiamo che egli pubblica negli anni dopo il concilio Vaticano II, e dopo quel sommovimento della società occidentale che è indicato (simbolicamente) come il ‘sessantotto’. […] Gioacchino da Fiore ha lasciato un’eredità importante, forse anche ingombrante. Ma ha anche trasmesso in determinati momenti storici e per una parte della sua posterità una certa speranza, a volte diventata utopia, a volte suscitatrice di apertura allo Spirito di Dio, che è sempre Spirito creatore». (Dall’Introduzione di Azzolino Chiappini)
La separazione tra Medioevo e Rinascimento è il risultato del mancato adempimento delle possibilità culturali del movimento rinascimentale.