Un classico della spiritualità cristiana.
Volume curato da L. Alici, per un testo considerato come l'opera della maturità filosofica, biblica e pastorale di Agostino. In esso si esprime l'incontro fra l'esigenza personale di pensare la fede e quella pastorale di ricavarne un cammino formativo per al comunità cristiana. Agostino propone come affrontare i testi più difficili della Scrittura, affermando il primato del senso spirituale su quello allegorico e chiarendo come il fine principale del lavoro di interpretazione sia costruire la carità.
Scritto verso la metà del II secolo, questo testo di S. Giustino, è il primo diretto confronto fra cristianesimo e filosofia e tra cristianesimo e giudaismo. Il terreno di confronto è costituito dall'Antico Testamento, ma il vero tema dello scontro è Cristo. S. Giustino tenta di interpretare alla luce di Cristo tutta la vicenda umana, situando nel mistero cristiano sia la sapienza pagana sia la tradizione religiosa giudaica, giungendo così ad affermare che il cristianesimo è l'unica vera filosofia e l'unico vero Israele, da sempre.
La Filotea è l'opera che dà al laicato cattolico i primi lineamenti della sua spiritualità e del suo apostolato. "Quasi tutti coloro che hanno trattato della devozione si sono interessati di istruire persone separate dal mondo, o perlomeno, hanno insegnato un tipo di devozione che porta a questo isolamento. Io intendo offrire i miei insegnamenti a quelli che vivono nelle città, in famiglia, a corte, e che, in forza del loro stato, sono costretti dalle convenienze sociali, a vivere in mezzo agli altri". Questo scriveva Francesco di Sales nel 1608. Con la concretezza di un esperto direttore spirituale, con lo stile confidenziale di un padre, con la dolcezza dell'asceta che crede nella forza dell'agostiniano "ama e fa ciò che vuoi", l'autore conduce alla perfezione dell'amore con amore.
Questo terzo volume del Cristo, a cura di Claudio Leonardi, disegna, con i testi latini dal IV al XII secolo, un panorama forse filosoficamente più incerto ma anche più sconvolto, tragico e commovente.
Tramontati l'impero e la filosofia greca, Cristo diventa la figura centrale della mente occidentale, attorno alla quale precipitano tutti i pensieri e le immagini. La civiltà crolla, i barbari travolgono gli imperi, e i filosofi (e i barbari) non pensano che al Dio-uomo e al suo significato per noi. Se la filosofia greca aveva sottolineato la natura divina del Cristo e proposto all'uomo la divinizzazione, la cultura latina mette in rilievo la natura umana del Cristo, che soffre sulla croce, e propone all'uomo la redenzione.
Da Agostino ad Anselmo di Canterbury, un interrogativo drammatico percorre questi testi: Dio non aveva altro modo per liberare gli uomini dalla loro condizione mortale? Era necessario che il suo Figlio, Dio eterno come Lui, divenisse uomo e morisse? Terribile interrogativo, che mette in dubbio la necessità dell'incarnazione. Agostino risponde: «[Cristo] si è fatto mortale senza abbassare la dignità del Verbo, ma avendo assunto la debolezza della carne; non è però rimasto neppure mortale nella carne, ma anzi l'ha risuscitata dalla morte». Fulgenzio commenta: «La divinità di Cristo [...] sta dappertutto compiutamente, ma senza volume, in modo che nessun luogo sia senza divinità, e insieme nessun luogo possa tuttavia contenerla come in un luogo». Gregorio Magno legge il Cantico, Giobbe, Ezechiele, e dovunque scorge il Cristo, con un ardore interpretativo e visionario che rende folgoranti le sue immagini. Giovanni Scoto esprime la doppiezza del Verbo: incomprensibile ad ogni creatura visibile e invisibile; e figura infinitamente molteplice, che corre attraverso le cose e spinge l'uomo e la natura verso la divinizzazione totale. Guitmondo d'Aversa esalta la presenza fisica di Cristo nell'ostia, di cui il fedele si nutre in una specie di cannibalismo sacro. Infine Anselmo di Canterbury inneggia all'ordine dell'universo, di cui anche il peccato fa parte, e conclude la sua opera con una preghiera: «O Signore, fa' che io possa assaporare con l'amore quello che assaporo con la conoscenza; che io possa sentire con l'affetto ciò che sento con l'intelletto»: preghiera che racchiude il senso ultimo di questo libro e di qualsiasi libro umano.
Questo "Commento ai Salmi" è il cuore di un'opera sterminata, che Agostino compose per tutta la vita, e che contiene le sue pagine più luminose dopo le "Confessioni". Durante la celebrazione della Messa, al termine della lettura delle Scritture, i fedeli cantavano un salmo; e Agostino lo interpretava davanti al pubblico raccolto nella chiesa. Qualcuno stenografava l'omelia: Agostino rivedeva e trascriveva il testo; così che questo "Commento", sebbene stilisticamente sapientissimo, ci tramanda la viva voce di Agostino - le sue domande, le sue risposte, le sue pause, il ritmo ansioso di chi vuoi persuadere ed essere persuaso. Tutti i grandi temi di Agostino confluiscono in queste orazioni. Il mistero di Dio e del cuore umano: due abissi che si attraggono. Cristo come luce, che illumina gli angeli e l'uomo, e come corpo, come debolezza, come ferita. Il tempo che scorre e trascina via i nostri pensieri, i nostri sentimenti e tutte le cose. Il sogno di quando usciremo fuori dal tempo nel non-tempo, davanti al Cristo non-incarnato, di cui il Cristo incarnato è solo l'ombra. La mescolanza, nelle stesse persone, della città terrena e della città celeste. E - tema che si insinua in tutti gli altri e avvolge tutti gli altri - il desiderio di Dio, della dolcezza di Dio, del Dio onnipresente e introvabile : "Si arriva a Dio come seguendo qualcosa di dolce, non so quale diletto interno e nascosto, quasi che dalla Sua casa risonasse dolcemente uno strumento musicale".
Ciò che distingue questo "Commento", tra le opere di Agostino, è il ricamo delle citazioni bibliche e della prosa latina: mai l'arte della citazione e della tarsia giunse a questa sublimità. E la rappresentazione della corposità metaforica della vita dello spirito. È il principio che tutte le immagini possono significare Dio. È il procedimento mai rettilineo: il procedimento a onde, a variazioni, a domande, a ripetizioni, a echi, a risonanze infinite: una rete ansiosa, avvolgente, mobile di interrogazioni - verso un punto che ci sfugge e ci sfuggirà sempre, come, diceva Baudelaire, "cet ardent sanglot qui roule d'âge en âge / Et vient à mourir au bord de votre éternité!".
Indice - Sommario
Introduzione
TESTO E TRADUZIONE
- Conspectus siglorum
- Salmo 25
- Salmo 29
- Salmo 41
- Salmo 51
- Salmo 64
- Salmo 76
- Salmo 86
- Salmo 89
- Salmo 92
- Salmo 109
- Salmo 132
- Salmo 133
- Salmo 136
- Salmo 143
COMMENTO
Indice dei passi della Sacra Scrittura
Indice dei nomi e di alcune cose notevoli
Prefazione / Introduzione
Dall'Introduzione
I "Salmi" e la loro interpretazione nella chiesa antica
I. I "Salmi". Il libro dei "Salmi" è una collezione di poemi lirici, d'ispirazione religiosa, composti in epoche diverse della storia d'Israele, sia come formule ufficiali per le cerimonie del culto, sia anche per uso privato dei devoti di Jahweh, i quali ricevettero poi, presto o tardi, una destinazione liturgica. Uno dei tipi più comuni di salmo è l'inno, il canto di lode a Jahweh, in frequente connessione col tempio di Gerusalemme, dove la comunità esprime la sua gratitudine per i benefici di cui è stata oggetto da parte del suo Dio, dalla creazione alla liberazione dall'Egitto e dagli altri nemici. Altri salmi sono di lamentazione: sia privata da parte di chi, nel travaglio e nel dolore, chiede a Dio conforto e liberazione; sia pubblica da parte del popolo che, radunato nel santuario in occasione di qualche sciagura nazionale, cerca in Dio conforto e salvezza. Altri salmi esprimono la fiducia, addirittura la certezza che la preghiera del salmista a Dio sia stata esaudita.
I singoli salmi sono preceduti da una breve rubrica relativa all'autore del salmo, al genere letterario, all'uso liturgico, alle modalità dell'esecuzione, a fatti della vita di Davide. Si tratta d'indicazioni tutt'altro che sistematiche, sempre presenti, a volte in forma brevissima, nel testo greco, assenti in trentaquattro salmi nell'attuale testo ebraico, e con divergenze in gran numero fra testo ebraico e testo greco. Gli studiosi moderni non considerano affidabili i dati delle rubriche: soprattutto quelli relativi all'autore e a fatti della vita di Davide; in effetti la cronologia dei singoli salmi risulta, alla loro indagine, molto incerta: tuttora c'è chi considera parecchi salmi composti al tempo della monarchia; ma è preminente la proposta di considerare i salmi composti, tranne qualche eccezione, in età esiliaca e postesiliaca. Ma intorno all'era volgare in ambiente giudaico era opinione comune che Davide fosse stato l'autore almeno di buona parte dei salmi: il contrasto fra Gesù e i farisei sull'origine davidica del Messia è impostato sulla comune convinzione che il salmo 109 fosse stato composto da Davide.
In ambito cristiano, non solo l'origine davidica di molti salmi non è contestata, ma si dà anche, tranne poche eccezioni, la massima fiducia ai dati storici contenuti nelle rubriche, che perciò forniscono spesso all'interprete lo spunto di base su cui egli sviluppa la sua esegesi del testo.
2. I "Salmi" nel Nuovo Testamento. Intorno all'era volgare i "Salmi" erano parte importante della liturgia del tempio e della sinagoga e perciò fondamento della pietà del giudeo. Ciò spiega perché la loro conoscenza fosse incomparabilmente maggiore di quella degli altri libri poetici dell'Antico Testamento, anche e soprattutto a livello popolare, dove alcuni di essi, per esempio i salmi 2.44.109, contribuivano ad alimentare l'attesa messianica. Non meraviglia perciò incontrare alcuni passi di salmi nelle polemiche che, sin dai primordi della chiesa, si ebbero fra giudei e cristiani intorno alla messianicità di Gesù, mentre di essi faceva uso anche l'incipiente organizzazione liturgica della comunità cristiana.
Per inquadrare adeguatamente la più antica interpretazione cristiana dei "Salmi", dobbiamo rifarci proprio a queste prime polemiche. La messianicità di Gesù, che i cristiani sostenevano contro i giudei, doveva essere suffragata dall'autorità dei testi veterotestamentari considerati d'indiscusso significato profetico e messianico, la cui applicazione a Gesù i cristiani appunto difendevano contro il rifiuto degli avversari. In questo più antico dossier di passi veterotestamentari, i "Salmi" erano ben rappresentati: basti rilevare il molteplice impiego di passi dei salmi 2 e 109 nei più arcaici testi cristiani. Ma passione morte risurrezione di Cristo si situavano al di fuori dell'usuale modulo messianico: se ne cercò pertanto il fondamento scritturistico in testi fino allora non considerati messianici e che ora invece si caricavano di nuovi insospettati significati alla luce dell'evento pasquale. Nell'ambito dei salmi basti pensare al 21 e al 68.
Questa rilettura in chiave cristologica dei vecchi testi si allargò ben presto oltre l'ambito specifico della polemica con i giudei riguardo alla realizzazione, o meno, delle profezie messianiche nella persona e nell'opera di Cristo: gli occhi della fede ormai scoprivano l'annuncio profetico di Cristo nell'Antico Testamento anche là dove il giudeo scettico non era disposto a riconoscerlo. E infatti difficile pensare che costui abbia potuto accettare Ps. 15,10 "Non abbandonerai nell'inferno l'anima mia né permetterai che il tuo santo veda la corruzione" come profezia della risurrezione, com'è invece in Act. Ap. 2,31; o Ps. 40,10 "Uno che mangia il mio pane ha levato contro di me il suo calcagno" come profezia del tradimento di Giuda (cfr. Ev. Matth. 26,23; Ev. Io. 13,18). Ne erano invece ben convinti i cristiani, perché ormai per loro Cristo era diventato la chiave di lettura dell'Antico Testamento: la chiave finalmente capace di rimuovere il velo che offuscava la vista dei giudei (2 Ep. Cor. 3,13), e perciò di aprire alla loro mente il significato più autentico del libro sacro, rimasto fino allora incompreso.
Nel 1941 furono scoperti a Tura, in Egitto, alcuni papiri contenenti scritti cristiani per la maggior parte non ancora conosciuti. Tra questi, il presente papiro. Contiene due trattati sulla Pasqua recanti il nome di Origene, il grande esegeta alessandrino del III secolo. Sulla Pasqua I è un commento, in dettaglio, a Esodo 12,1-11, che si distingue per l'originalità dell'esegesi: l'accento è posto su come il cristiano deve mangiare le carni dell'agnello, che sono le Scritture, corpo del Cristo. Sulla Pasqua II, più breve, interpreta la Pasqua come ritorno a Dio del mondo caduto nell'errore. La traduzione, l'introduzione e le note a cura di G. Sgherri.
La Vita di Cipriano, di Ponzio, ci fa conoscere l'Africa quando la Chiesa nascente era ancora perseguitata, la Vita di Ambrogio, di Paolino, è la storia della città di Milano nel IV secolo. Nella Vita di Agostino, opera di Possidio, che comincia nel punto in cui le Confessioni si arrestano, la maturità e la vecchiaia del più grande scrittore cristiano sono raccontate da chi per anni gli fu vicino.
L'esposizione piana e avvincente si prefigge di non lasciare nell'oblio l'operatro di una donna che raggiunse il piu alto grado di virtu.