È attorno all'inaudito che, senza saperlo, continuano a ruotare e ad avvolgersi le nostre vite. Solo l'in-audito, in fondo, è degno di interesse, in quanto ciò che è già "udito", registrato e assimilato, non ha, in realtà, niente da apportare, se non qualche aggiustamento e sistemazione. Sul punto, forse non è il caso di continuare a ingannarci. Al contempo, visto che l'inaudito è ciò che in sé sfugge, ne consegue che ciò che di esso si lascia normalmente captare e cogliere sia innanzitutto deludente. La radicale estraneità e stranezza, non essendo pienamente liberata, si volge in banalità e familiarità. Quando non sono all'altezza dell'inaudito, mi annoio: mi stanco di quello che ho appreso o, piuttosto, di ciò che non ne ho appreso. Incontrare l'inaudito, al contrario, sbatterci improvvisamente contro, significa spostare in maniera smisurata la frontiera del possibile, sempre troppo stabile, e la morte stessa, commensurata all'incommensurabile e al vertiginoso dell'inaudito, si ritrova all'improvviso sottratta al suo isolamento. L'immaginazione, come la scienza e la fede, fa tanti sforzi per integrare la morte nella vita, per iscriverla nel suo metabolismo, per assimilarla allo scopo di giustificarla. Ma che ne è di quanto essa conserva di "inaccettabile", come si è soliti dire, ossia di non integrabile da parte del soggetto? Non resta che ricorrere alla categoria riferita a ciò che non si integra, a ciò che è fuori categoria: l'inaudito - meglio che l'"Infinito", la categoria spesso invocata per rendere conto di quel debordare - può finalmente mordere quanto di più refrattario risulta per il pensiero.
La metafisica, inaugurata da Platone, secondo Martin Heidegger ha messo in circolazione un'unica forma di pensiero: il pensiero calcolante, che ha trovato nell'economia e nella tecnica l'espressione più alta e organizzata. "Tutto funziona", scrive Heidegger, e "questo è appunto l'inquietante". La tecnica è infatti la realizzazione compiuta dell'intenzione segreta della metafisica, la più idonea a garantire non solo la disponibilità di tutte le cose, ma anche la loro riproducibilità. Eppure, la razionalità imposta dalla tecnica, che esige di raggiungere il massimo degli scopi con l'impiego minimo dei mezzi, finisce per mettere fuori gioco la condizione umana. Ciò che fuoriesce da questa razionalità, per la tecnica è solo un elemento di disturbo e dunque deve essere eliminato. Accade però che l'uomo non sia solo razionalità, ma anche irrazionalità. Infatti irrazionale è la fantasia, l'immaginazione, l'ideazione, il desiderio, il sogno. E se questi aspetti vengono ridotti o soppressi, abbiamo ancora a che fare con l'uomo? Umberto Galimberti ci conduce nella riscoperta del pensiero di Heidegger e fa un fondamentale passo in avanti. Al tempo di Heidegger la tecnica poteva ancora essere considerata uno strumento nelle mani dell'uomo. Oggi non lo è più: è diventata l'ambiente in cui l'uomo vive, e l'uomo stesso è diventato un funzionario della tecnica. "Questo libro", scrive Galimberti, "è una guida alla lettura di Heidegger e, come ogni guida, conduce da un 'primo inizio' a un 'altro inizio', come lo chiama Heidegger, per giungere al quale occorre attraversare l'intero pensiero occidentale, che è stato governato dalla metafisica inaugurata da Platone".
Internet ci rende stupidi? Abituati alla velocità con cui accediamo alle informazioni scivolando, come su una tavola da surf, da un sito all'altro, viene meno in noi la pazienza richiesta da un libro o da un articolo lungo e complicato. Dopo una pagina o due ci innervosiamo, perdiamo il filo, avvertiamo l'esigenza di occuparci d'altro, di cambiare attività. La concentrazione nella lettura ci è divenuta estranea. Oggi l'umanità è totalmente connessa. E quindi: che fare con la novità rappresentata dalla rete, e in generale dalla civiltà digitale? Accettarla o rifiutarla? Per rispondere a questa domanda dobbiamo compiere un viaggio di duemila anni. Ermanno Bencivenga ci accompagna lungo questo cammino nella storia del pensiero occidentale: Platone è la nostra guida, Kant la stella polare. È un tragitto di secoli e millenni di idee e scoperte straordinarie e addirittura scandalose, eppure capaci di conquistare la normalità e tradursi in visioni del mondo universali. Così scopriamo che la nostra identità è stata messa in discussione ad ogni rivoluzione tecnologica. Ciascun cambio di paradigma sconvolge e rinnova la radice delle nostre consuetudini e dei nostri desideri. Ogni giudizio di valore è subordinato a una particolare fase del tempo, del mondo e della Storia. Allora, la domanda va riformulata: la rivoluzione digitale non ci rende più stupidi o più intelligenti, ma cambia profondamente la nostra postura nei confronti di noi stessi e del mondo. E ogni cambiamento radicale è un'occasione preziosa e insostituibile per chiederci chi siamo.
La storia e l'eredità della scuola fondata nel 1919 da Walter Gropius sono inseparabili dalla vicenda della Repubblica di Weimar. "Ma il Bauhaus non si limitò a riflettere gli alti e bassi della realtà: cercò anche di mutarla. Quando si voleva eternare il caos, il Bauhaus rivendicò, con Gropius, l'ordine. Quando più tardi si cercò di eternare l'ordine vacillante e oppressivo della razionalizzazione industriale, il Bauhaus, con Meyer, si adoperò per dare a questa razionalizzazione un contenuto sociale". Nel dopoguerra Tomás Maldonado dovette fare i conti con l'esperienza del Bauhaus quando, con altri, avviò a Ulm la Hochschule für Gestaltung, la nuova scuola di progettazione che ha segnato in modo indelebile la storia del design nel secondo Novecento. E in diverse circostanze prese posizione nei confronti della "tradizione Bauhaus", con un atteggiamento critico e controcorrente che voleva riportarne il lascito culturale dal piano del mito a quello della realtà. La collezione di scritti, lettere e interventi risalenti al lungo periodo tra il 1955 e il 2009 si confronta con uno snodo storiografico decisivo per il design e solleva una serie di questioni ancora attuali: il rapporto tra arte e design, la formazione dei progettisti, l'importanza della scienza per l'attività progettuale e, non per ultimo, il ruolo politico e la responsabilità del designer nei confronti dei grandi problemi sociali e ambientali del nostro tempo. Ogni critica al Bauhaus è in realtà per Maldonado un'occasione per discutere questioni contemporanee e questa raccolta, esplorando la discontinuità fra il passato e la nuova visione pedagogica e sociale di Ulm, ne rivela la straordinaria modernità.
"Le confessioni della carne" è il quarto e ultimo volume della "Storia della sessualità" ed è l'atto conclusivo, quello che ci permette di seguire la direzione del pensiero di Foucault alla fine della sua vita e chiude una delle più grandi riflessioni dell'Occidente. Nella ricerca sulla costituzione del soggetto nel mondo antico, qui l'attenzione si sposta alle regole e alle dottrine elaborate dai Padri della Chiesa, tra il II e il IV secolo. Attraverso una serie di incursioni nella dottrina cristiana, Foucault fa dunque emergere le progressive discontinuità rispetto alla filosofia stoica ed ellenistica, e la creazione di un rapporto del tutto nuovo tra il soggetto e la verità che prevede sofisticate tecnologie del sé. Le trasformazioni del concetto di peccato e di colpa, inscritti ormai nella struttura umana, faranno nascere così un "soggetto del desiderio" che dominerà la morale cristiana dei secoli successivi e poi tutta la storia occidentale.
Per anni le radici cristiane dell'Europa sono state al centro di un dibattito sull'integrazione politica dei popoli che vi abitano. Esiste dunque un modo laico di vedere nel cristianesimo non un fronte di divisione, ma un elemento irrinunciabile della nostra storia e della nostra cultura. Oggi l'Europa è cristiana? E se lo è, in che modo si esprime questa sua identità? Olivier Roy racconta il lungo processo della secolarizzazione, entra nella storia della Chiesa cattolica e di quella protestante per mostrare che il cristianesimo nell'Europa contemporanea non conta più tanto come religione, ma come un'eredità di grande rilevanza civile, perché ha contribuito a costruire il sistema dei valori della società liberale. Eppure, avverte Roy, oggi il cristianesimo sotto forma di identità culturale è anche un facile strumento nelle mani della politica populista, che può usarlo come categoria di esclusione dello straniero. Una delle posture di chi si definisce cristiano è infatti quella nostalgica e autoritaria che ai "valori del cristianesimo" oppone una società troppo laica o un Islam conquistatore. Questo libro spiega in che modo noi europei siamo rimasti orfani del nostro passato cristiano e ci aiuta a riscoprirne la portata, per sottrarlo alla retorica vendicativa e nazionalista della politica contemporanea.
Axel Honneth è uno dei maggiori filosofi europei e dirige l'Istituto per la ricerca sociale fondato da Max Horkheimer e Theodor Adorno. Questo libro racconta una storia del pensiero europeo, che fin dall'inizio della modernità è attraversato dall'idea che i soggetti sociali siano legati da un rapporto di riconoscimento. Con lo sguardo rivolto alle tre principali tradizioni di pensiero del Vecchio continente, Honneth ci conduce lungo un viaggio tra la Francia, l'Inghilterra e la Germania e disegna i percorsi delle diverse declinazioni di questa idea e delle sue interpretazioni, raccontando ogni volta le sfide politiche e sociali che ne hanno dettato l'urgenza. Da Rousseau a Sartre, da Hume a Mill, da Kant a Hegel, la storia dell'idea di riconoscimento ci permette di pensare una società dinamica e conflittuale, capace di ospitare il dissenso e per questo democratica. Queste figure dell'idea di riconoscimento affondano le proprie radici nel diciassettesimo secolo e hanno formato la nostra tradizione culturale, interagendo e contaminandosi tra loro fino a oggi. In una società sempre più divisa, il riconoscimento è una risorsa preziosa e necessaria per difendere un'idea di democrazia che non possiamo più dare per scontata. Perché l'idea di riconoscimento, spiega Honneth, è la coscienza di una reciproca appartenenza.
Negli ultimi decenni le nostre società sono diventate più repressive, le leggi più severe, i giudici più rigidi, e questo senza che ci sia alcun legame diretto con la criminalità. Didier Fassin si sforza di cogliere, con un'analisi genealogica ed etnografica, la posta in gioco di questo momento punitivo. Per farlo, è necessario aggiornare quello che sappiamo sulla stessa "strana pratica, e la singolare pretesa, di rinchiudere per correggere, avanzata dai codici moderni" di cui parlava Foucault. Quella nuova tecnologia chiamata punizione. Che cosa c'è da punire? Perché abbiamo bisogno di imporre punizioni? E contro chi? Queste tre domande disegnano il campo di un dialogo critico tra la filosofia morale e le teorie del diritto. Con un'indagine sulle diverse configurazioni della punizione nella storia e nelle nazioni, Fassin mostra che non sempre il crimine è stato disciplinato da sofferenze inflitte per legge e che non necessariamente la punizione appartiene a logiche razionali, usate per legittimarla. Per di più, l'inasprimento delle pene e la disuguaglianza nella loro distribuzione rendono la società meno sicura e meno giusta. Quello di Fassin è un saggio attualissimo in tempi di trionfo del populismo, perché offre gli strumenti per una revisione delle premesse che alimentano la passione punitiva e invita a ripensare la sua collocazione nel mondo contemporaneo.
Oggi in Europa viviamo in società sempre più disomogenee dal punto di vista etnico, religioso e culturale. Una situazione inedita di tali dimensioni che impone di ripensare le forme della convivenza. Secondo Cinzia Sciuto, la strada da percorrere per una convivenza capace di ospitare la disomogeneità senza violarla è quella di una visione etica e politica radicalmente laica. Ma che cosa significa essere laici? La laicità è l'insieme delle condizioni che consentono alle diverse espressioni religiose (e più in generale alle diverse visioni del mondo) di esprimersi in una società pluralistica. Condizioni che definiscono una cornice entro la quale viene garantita la libertà di religione ma che allo stesso tempo stabiliscono princìpi ai quali non si può derogare in nome di nessun Dio. La laicità dunque non come polo di una simmetria, ma come condizione prepolitica della convivenza civile in una società disomogenea. Un saggio contro le pretese velleitarie del multiculturalismo, che tenta di promuovere il riconoscimento e il rispetto dell'identità linguistica, religiosa e culturale delle diverse componenti etniche di una società, perdendo però di vista che soggetto titolare di diritti è solo ed esclusivamente il singolo individuo e non i gruppi. Sciuto capovolge l'ordine di priorità: è l'individuo a essere portatore d'identità e appartenenze, non è l'appartenenza che definisce l'individuo.
Come può il Sessantotto aiutarci a pensare e ad agire nel 2018? L'anno ribelle capitava in un momento di crescita economica e di espansione del benessere comune. Da allora il mondo è cambiato. Oggi, dopo una crisi finanziaria che ha colpito tutto l'Occidente e di fronte a una pericolosa degenerazione del discorso pubblico, alcuni aspetti di quella rivolta ritornano però attuali. Questo libro non celebra quell'anno, ma ne misura la memoria nella politica contemporanea, nei suoi temi e nei suoi conflitti. La memoria, la crisi e la trasformazione sono le lenti attraverso le quali i grandi pensatori del nostro tempo pesano il lascito del passato nel presente. Nel cinquantesimo anniversario dell'anno della rivolta il Sessantotto esiste infatti come eredità simbolica nei movimenti della politica europea e globale. "Anziché riconsiderare gli effetti dell'anno ribelle, questo volume affronta la sua presenza negli anni dieci di questo secolo, partendo dalla convinzione che la memoria di quegli eventi possa sembrare oggi più vicina." Di quelle vicende che cosa ricordiamo? Ma soprattutto, che cosa abbiamo rimosso? A queste domande rispondono intellettuali e politici da tutto il mondo, da Colin Crouch a Pablo Iglesias, in un dialogo sulle debolezze ma anche sulle opportunità per la sinistra, sulla base sociale necessaria a costruire un discorso politico inclusivo e sulla ricerca di identità collettive.
Il progresso della medicina, come quello di ogni altro campo del sapere attinente all'uomo, sembra affidato allo sviluppo tecnologico. La diagnostica per immagini rende visibile il dettaglio e in chirurgia le conquiste della robotica permettono di intervenire in modo sempre più selettivo. La conoscenza dell'individualità del paziente sarebbe quindi più precisa grazie alla capacità di cogliere aspetti sempre più fini e caratterizzanti. Tuttavia, spiega Giovanni Stanghellini, l'indagine sul paziente nelle sue componenti più minute non ha lo scopo di personalizzare la diagnosi e la cura, ma piuttosto di ridurre ciò che è personale a una categoria generale e dunque astratta. Psichiatra e psicoterapeuta, Stanghellini sa bene che ciascuna persona, con le sue risorse particolari e le sue fragilità, configura la malattia in maniera assolutamente individuale. E dimostra che la medicina ha bisogno di uno sguardo esterno e laico che sappia cogliere la sua idolatria per il cono di luce del proprio sapere. Uno sguardo disposto ad affrontare l'inquietudine di chi rinuncia alla sicurezza dell'astrazione e della classificazione disciplinare per comprendere ogni sofferenza rispettandone la singolarità. Che cosa significa scoprirsi vulnerabili? Che cosa vuol dire attraversare l'esperienza della malattia? È questa la zona d'ombra della medicina, che richiede di essere esplorata per ciascun paziente, ogni volta. Il riconoscimento della persona e della sua unicità non è solo un'opzione etica, ma un vero e proprio vincolo epistemologico per la buona prassi della cura.
Come funziona la circolazione del capitale? Quali sono le regole della sua accumulazione? Ma soprattutto, è vero che l'economia di mercato favorisce un aumento del nostro benessere? Secondo David Harvey, "le analisi di Marx sono ancora più pertinenti oggi di quanto non fossero all'epoca in cui scriveva. Quello che ai suoi tempi era un sistema economico dominante solo in un piccolo angolo del mondo ora si estende su tutta la terra". Harvey si mette sulle tracce del pensiero di Marx per ricostruire l'architettura del capitale e aggiornare all'evoluzione tecnologica e industriale degli ultimi centocinquant'anni le analisi del filosofo tedesco che ha cambiato definitivamente il modo di pensare l'economia, stravolgendo il destino di popoli e Paesi. E va alla ricerca di casi esemplari delle nuove forme di alienazione e di disuguaglianza, per provare che oggi la stessa logica del valore di scambio esplorata da Marx continua a seguire il proprio percorso, la propria "danza folle", senza alcuna considerazione per le esigenze reali delle persone. Dopo L'enigma del capitale e Diciassette contraddizioni e la fine del capitalismo, Harvey propone una nuova lettura del gigante del pensiero economico e del suo classico monumentale, "Il capitale", per rivelarne la straordinaria attualità rispetto alle teorie contemporanee, che con la crisi finanziaria del 2008 si sono rivelate insufficienti. Per mostrare a tutti, lettori più o meno esperti, che l'opera di Marx è il miglior manuale d'interpretazione non solo dell'economia contemporanea, ma anche del mondo in cui viviamo.
Questo libro è un elogio della libertà di esplorare mondi possibili. Essere aperti al mondo significa trovarsi nella condizione di sperimentare costantemente una molteplicità infinita di incontri possibili con il mondo stesso e scoprire, al contempo, il valore inestimabile della sua incompletezza. Sono due le figure che fanno da guida lungo questo percorso alla scoperta del senso della possibilità: l’esploratore di connessioni e il coltivatore di memorie. Il primo va alla ricerca di verità e di validità e s’imbatte in un ventaglio di alternative, mentre il secondo ha lo sguardo rivolto al passato, repertorio sconfinato di possibilità. La tensione tra queste due figure spalanca una consapevolezza: l’utopia è un mondo sociale possibile, costruito con i materiali del mondo attuale. “I frammenti di un discorso utopico ci invitano a esplorare lo spazio delle possibilità, entro i confini che il mondo ci concede.” In un confronto serrato con i più grandi pensatori della filosofia occidentale, Veca dimostra che il senso della possibilità si nutre di incertezza e di incompletezza e si oppone a ogni dittatura del presente, tutelando invece lo spazio per gli esercizi dell’immaginazione, e dunque per la visione politica e per la libertà. Un saggio necessario per riconquistare il futuro senza arrendersi mai nella ricerca incessante della giustizia sociale.
Il continente della sessualità è al centro di questo corso di Michel Foucault. Dopo aver studiato l'età moderna in libri e lezioni memorabili, Foucault fa un passo indietro di alcuni secoli e si rivolge al mondo antico. Lo fa per cogliere alla radice il delinearsi di un intero campo di pratiche e riflessioni che nell'antichità classica investono il corpo, i suoi piaceri, le turbolenze che l'esperienza dell'erotismo impone al soggetto. Foucault studia un ampio spettro di testi e documenti classici: medici, pedagogici, morali, religiosi. Tra il IV secolo a.C. e il II secolo d.C. questo insieme di riflessioni definisce un universo di atti sessuali, gli aphrodisia di cui parlano i greci, i veneria di cui parlano i latini, che si annunciano con precise caratteristiche: la violenza del desiderio, l'intensità del piacere che vi si accompagna, la passività del soggetto a fronte di queste forze intime quanto estranee, la difficoltà e insieme la necessità di governare questo insieme di esperienze soverchianti. Ciò che Foucault mostra, risalendo alla radice di queste riflessioni sulla sessualità, è che nell'evento sconcertante degli "aphrodisia" il mondo antico ha pensato che il soggetto sia chiamato a riconoscere una verità che lo riguarda intimamente, una verità che egli dovrà interrogare e approfondire, una verità preziosa quanto sfuggente, enigmatica quanto pericolosa. Primo lontano annuncio, per Foucault, di quanto verrà ereditato dalla riflessione successiva e dalle forme di vita occidentali, in una sostanziale continuità fatta di lenti slittamenti, trovando ad esempio nella prima morale del cristianesimo e nell'istituzione della confessione, o nell'invenzione moderna della psicoanalisi e del colloquio psicoanalitico, due lontane e sorprendenti riconfigurazioni.
Perché gli adolescenti sono tristi? Da che cosa deriva il loro senso perenne di inadeguatezza nei confronti del mondo che li circonda? Come si articolano, e come si confrontano, esperienze psicopatologiche ed esperienze creative? Quali sono gli orizzonti problematici della psichiatria oggi? Sono inconciliabili tra loro, o sono possibili reciproche influenze? Sappiamo riconoscere il valore umano della malattia? Queste e altre domande articolano una riflessione sulle passioni fragili che appartengono alla nostra vita e alla nostra crescita. Eugenio Borgna percorre il tema del dolore, indaga la malattia dell'anima nell'infanzia e nell'adolescenza, s'inoltra nelle fragilità di ogni comunità e cerca di dare una voce al silenzio del cuore. Certo, è necessario distinguere nell'area sconfinata delle depressioni una condizione depressiva, che sarebbe meglio chiamare malinconia, o tristezza vitale, e fa parte della vita di ogni giorno, da quella che ha dimensioni psicopatologiche radicalmente più profonde; benché ci siano depressioni che sconfinano l'una nell'altra. Borgna ci guida nella consapevolezza della "significazione terapeutica delle parole", e si muove fin sui confini della psichiatria, permeando l'enigma degli intrecci tra malinconia e poesia in una lettura inedita e profondissima delle voci di Emily Dickinson, Georg Trakl, Guido Gozzano e Antonia Pozzi. Ogni ferita che l'anima sopporta, ogni passione fragile, appartiene a pieno titolo alla nostra esperienza e richiede di essere riconosciuta come tale. Un saggio che rompe il monolite del dolore e mostra che le passioni fragili devono emergere nella loro realtà tutta umana. Che non possiamo fare a meno di riconoscere la loro verità psicologica per accedere alla conoscenza di noi stessi.
Non c'è stata alcuna "fine della storia", nessuna affermazione globale della democrazia liberale. Piuttosto, assistiamo a una grande regressione. Mentre lavoro, ricchezza e stabilità si assottigliano pericolosamente nelle società occidentali, la retorica della sicurezza prende il posto della rivendicazione dei diritti umani e civili e i principi di cooperazione transnazionale sono sostituiti da violenti appelli per il rafforzamento della sovranità degli stati, come "Make America Great Again!" e "Les Français d'abord!". I flussi migratori diretti verso i paesi dell'Unione europea aumentano giorno dopo giorno. La crisi economica, forse, non è mai finita. E improvvisamente ci troviamo di fronte alla necessità di misurarci con alcuni fenomeni che credevamo appartenere a un'epoca passata: l'ascesa di partiti nazionalisti come il Front National francese, l'imporsi di una demagogia come quella impersonata da Donald Trump, le tendenze autoritarie che attraversano l'Europa centrale e orientale, un'ondata di xenofobia e odio, la brutalizzazione del discorso pubblico, l'inversione protezionistica della Brexit. Di fronte a questi fenomeni dobbiamo prendere atto che tutti gli strumenti che consideravamo efficienti per affrontare le crisi si sono esauriti. È questa la denuncia di quindici grandi intellettuali da tutto il mondo, da Bauman a Zizek, da Arjun Appadurai a Paul Mason, che ragionano insieme per scoprire e analizzare le radici di questa involuzione, e cercano di inserirla nel suo contesto storico, di tracciare gli scenari possibili e di ideare le strategie per contrastare le tendenze inquietanti che stanno dando forma a un mondo nel quale non vogliamo vivere. Quindici voci diverse e autorevoli, riunite per la prima volta in un libro che fornisce le coordinate necessarie per orientarsi nel nostro tempo.
Questo libro ripercorre la storia del pensiero occidentale con una chiave di lettura forte e originalissima. Le storie della filosofia, in effetti, sono due. Quella che si studia sui manuali è la versione ufficiale, il canone maggiore. I nomi che costellano questa tradizione sono illustri. Eppure, il canone maggiore è anche la vicenda di un lungo allontanamento dalla vocazione autentica della filosofia: "La filosofia sta da una parte sola. Essa scorre sulla linea che abbiamo chiamato minore". Rocco Ronchi tratteggia un percorso più silenzioso, e tuttavia ricchissimo di tesori spesso nascosti, il solo a non aver tradito il compito più urgente della filosofia. È il canone minore, che conta tra le sue fila William James negli Stati Uniti, Henri Bergson in Francia, Giovanni Gentile in Italia, Alfred North Whitehead in Gran Bretagna. Nomi prestigiosi, ma marginali nel dibattito odierno. Pensatori raffinatissimi, che sulla soglia del Novecento hanno pensato non il loro secolo, ma il secolo successivo, il nostro. La rivoluzione del canone minore non mette più al centro l'uomo con i suoi valori, il soggetto con la sua esperienza e i suoi desideri. Al contrario, questa nuova versione della storia della filosofia è profondamente antiumanistica e immoralistica, perché rivolge la sua attenzione alla natura, allo splendore della sua immanenza assoluta, alla sua incomprensibile e infinitamente intelligente processualità. In un dialogo serrato con la scienza contemporanea, Ronchi si chiede che cosa sono il tempo e la vita e dimostra che la filosofia è necessariamente una filosofia della natura.
Nell'Ottocento la sinistra viveva la speranza, la fede nel progresso, la convinzione di dominare le leggi della storia, l'orgoglio di saper combattere lotte giuste e vittoriose. Nel Novecento il panorama cambia radicalmente. La sinistra incarna ormai lo spirito del dubbio, la constatazione che la storia è imprevedibile, la consapevolezza che i totalitarismi possono nascere e rinascere in ogni istante. Essere di sinistra significa ormai abbandonare le speranze false e ideologiche; essere di sinistra significa essere critici, sapersi esporre senza finzioni alla dura prova della realtà, tenere gli occhi bene aperti davanti alla catastrofe. Essere di sinistra diventa sinonimo di essere malinconici. Enzo Traverso rianima quella galassia in tutte le sue sfaccettature; riattraversa il pensiero dei mostri sacri della sinistra, Marx, Lenin, Trockij, Benjamin, Bensaïd; si immerge nel cinema di Theo Angelopoulos e Ken Loach; analizza i murales messicani di Diego Rivera e la statuaria dei regimi sovietici; attinge alla cartellonistica politica e ai ritornelli della propaganda lontana e recente. E riemerge dal suo viaggio dando di quella malinconia di sinistra una nuova lettura, facendone uno stile di pensiero e una forma di vita, uno sguardo che rinuncia a piangere il passato perduto per disporsi a costruire un futuro diverso.
L'Europa del Cinquecento, scoperta l'America, stermina in pochi decenni gran parte dei suoi abitanti. Ma nello stesso periodo l'Europa diventa anche uno straordinario laboratorio di pensiero. Chi sono gli "altri", animali da macello, utili schiavi, buoni selvaggi, nostri simili? La Spagna di Cristoforo Colombo e dell'imperatore Carlo V, di Hernán Cortés e dei missionari offre a questo dibattito un terreno particolarmente fertile. Bartolomé de Las Casas (1484-1566) arriva nelle colonie a diciotto anni. Come cappellano dei conquistadores è testimone delle loro stragi e di infinite crudeltà. Inizia a interrogarsi con temeraria onestà sulla sua presunta missione, gradualmente si converte alla causa degli indigeni e spende il resto dell'esistenza per fermare il massacro. Mettendo a frutto i tesori della sua formazione giuridica e teologica e la sua abilità politica apre spazi di dubbio e introduce novità teoriche prima impensabili. Las Casas arriva a negare la legittimità di tutte le guerre di conquista, a riconoscere il pieno valore delle culture indigene, a teorizzare la necessità di restituire ai nativi la libertà e la terra. È stato dipinto ora come il diabolico traditore della missione evangelizzatrice spagnola, ora come l'apostolo e il cantore degli indios. Oggi alcuni lo ritengono un profeta della decolonizzazione, altri un ambiguo corresponsabile dell'etnocidio culturale degli indigeni. Questo libro indaga la sua straordinaria avventura umana, politica e intellettuale.
Essere o vivere: due grandi prospettive, due modi di abitare il mondo, di accostarsi agli uomini e agli esseri che lo popolano. L'Europa guarda il mondo nella prospettiva dell'Essere, la Cina nella prospettiva del vivere. L'Europa vede cose, la Cina eventi. L'Europa pensa per individui, la Cina per situazioni. Noi pensiamo ad andare al di là, loro si preoccupano di stare "tra". Noi crediamo nella nostra libertà, la riaffermiamo in un confronto accanito con il mondo, loro scommettono sulla disponibilità di un contesto, si dispongono ad accompagnarne le tante trasformazioni possibili. Con questo libro, vera e propria summa di un lavoro trentennale, François Jullien ci accompagna in un viaggio affascinante attraverso venti tappe, venti incontri, venti coppie concettuali che, nella loro dissonanza, riaprono i giochi nelle nostre tranquille abitudini di pensiero. Perché Jullien non mira tanto a comparare e a scegliere, o magari a integrare e ricomporre le differenze tra Oriente e Occidente; mira piuttosto a produrre uno scarto, ad aprire un varco nello spazio grigio del pensiero globalizzato, a interrogare l'Europa dal punto di vista della Cina e la Cina dal punto di vista dell'Europa. A fare dell'una un'occasione e una risorsa per l'altra.