La «Ballata» è la storia di un una sfida mitica, di un'incursione nel profondo e nel mistero dell'animo umano; storia di trasgressione, punizione ed espiazione, di un peccato terribile commesso senza motivo né consapevolezza, e della condanna a raccontarla in eterno a ogni nuovo atterrito impotente ascoltatore. Ma prima di tutto questo, è la storia di un lungo viaggio per mare, che ci arriva nei ritmi ora dolci e incantatori ora allucinanti della ballata, nel rumore frusciante delle onde e nello scricchiolare tormentoso del ghiaccio, in immagini raccapriccianti e improvvise pacificanti distese - del mare, della parola e del senso.
A 45 anni, nel pieno della sua maturità artistica e professionale, Charles Dickens è profondamente insoddisfatto: della famiglia, del lavoro, della propria immagine. Nasce così, contro il parere di tutti, il progetto di reinventarsi come "lettore" delle proprie opere e di portare in scena, in stupefacenti one man shows, alcune pièces tratte dalla sua produzione narrativa: i Readings appunto, o copioni, che qui presentiamo nella prima traduzione italiana. Fu un successo travolgente. Per poco più di dieci anni, prima in tutto il Regno Unito e poi negli Stati Uniti, Dickens compie tournées entusiasmanti, che riempiono le sale di migliaia di spettatori ipnotizzati davanti ai quali egli "recita" il mondo variegato e ricchissimo della sua narrativa, riportando in vita - condensati, riadattati e reinterpretati - i momenti, le scene e i personaggi più amati, da lui e dal suo pubblico. Da grande attore qual era, trasporta nella voce tutta la ricchezza inesauribile del proprio linguaggio, dalle sfrenatezze del comico alle melodrammatiche intensità del patetico, alle oscure pulsioni del tragico, in spettacoli di indimenticabile intensità emotiva di cui rimangono attonite e appassionate testimonianze. Niente, naturalmente, potrà restituire l'incanto di quei momenti; ma questi "copioni", che conservano tutte le tracce del parlato e del processo di drammatizzazione, mostrano intatto l'affascinante percorso di un autore maturo che ritorna su se stesso accogliendo e negando, scegliendo e spostando trame, personaggi e temi di tutta la sua lunga vita creativa. Rivisitazioni trepidanti e anche per lui sconvolgenti che lo sfiniscono, ma che pure continua a mettere in scena, fino all'ultimo tour, pochi mesi prima della morte.
Seppur non manchino spettri e stregate visioni, non è il soprannaturale di per sé il segno forte di questi racconti di Dickens, ma piuttosto il mistero: mistero di passioni devastanti e maniacali ossessioni, oscuri ed enigmatici presagi di un destino incombente o torturanti memorie di un passato lontano. E ancora, mistero di parole che tornano implacabili a scandire i tempi della vita e i percorsi del racconto, mistero di sguardi e gesti indecifrabili - coprirsi gli occhi con un braccio, seguire compulsivamente con la mano le fibre di una stuoia -, di strani anomali personaggi e di ambigue storie in cui si sfuma il confine tra realtà e allucinazione, ragione e follia, vita e morte. Storie tanto più inquietanti quanto più calate in quel contesto, e linguaggio, “realistico”, di cui Dickens è maestro insuperabile, che puntualmente viene smantellato nelle sue labili, illusorie certezze. Alla forza immaginativa di questo contrasto contribuisce il particolare genere di molti dei testi qui presentati, che sono brevi narrazioni in sé compiute inserite nei romanzi (Il Circolo Pickwick, La piccola Dorrit, Un racconto di due città), con la funzione di spezzare il flusso del reale e, quasi inavvertitamente, passare il testimone da personaggi realistici, comici o convenzionali, a cupe, spettrali figure della trasgressione: pazzi, assassini, padri maledetti e crudeli, spose dementi e disperate. Unico racconto autonomo a tutti gli effetti è lo splendido Linea secondaria nr. 1. Il casellante, da molti considerato il più bello di Dickens: il tetro buco nero della galleria ferroviaria sul quale balugina a tratti una tetra luce rossa a segnalare un pericolo sconosciuto e palpabile, fantasmatico e reale, può ben essere assunto a immagine-simbolo dello spazio in cui si muovono questi racconti, e in cui vertiginosamente si confondono le nostre luci e le nostre ombre.
"Il ventaglio di Lady Windermere" va in sceba il 20 febbraio 1892 al St James's Theatre di Londra riscuotendo un immediato successo di pubblico. È la prima delle commedie brillanti di Wilde a portare in scena l'alta società inglese, con le sue divertenti ipocrisie e la paradossale serietà dei suoi protocolli sociali. Sfruttando l'espediente del ventaglio dimenticato da Lady Windermere nel salotto di Lord Darlington, un dandy che la corteggia, la commedia si snoda attraverso una serie di equivoci inquietanti, di memorabili battute umoristiche e di segreti pericolosi, tutti giocati nella cornice di un fraintendimento coniugale. Al centro della vicenda, una Londra mondana fin de siècle che vive di pettegolezzi, e il ritorno in società della scandalosa e affascinante Mrs Erlynne, una donna dall'oscuro passato determinata a rifarsi una vita e a ritrovare dopo vent'anni sua figlia.
Come tutte le grandi storie, "Un canto di Natale" ci accompagna da sempre, e sempre sa ritrovare le parole per parlarci: una fiaba da raccontare ai bambini e da rileggere da grandi, una storia di paura, di morte ma anche di solidarietà umana, di fantasmi grotteschi che si sfumano e si frammentano nel sogno e nell'incubo privato, un grande ritratto di solitudine e di vecchiaia e di una città degradata, e soprattutto un magico regalo di Natale che trasforma il gelo e il buio dell'egoismo e dell'avarizia nel calore di un sorriso e di una festa per tutti. Riprendendo fra le mani "Un canto di Natale" ritroviamo figurine dimenticate, scopriamo luci e colori nuovi, mentre altri inspiegabilmente li abbiamo persi. Ritornano alla memoria, alla rinfusa, il batacchio della porta con il volto di Marley, il tacchino fumante, il carro da morto sulla scala gelida, e perfino lo Zio Paperone di Disney, Uncle Scrooge, diretto discendente dello Scrooge di Dickens. Ma se nessuno può toglierci il piacere di questi frammenti di ricordi, è pur vero che le forme in cui un testo si sedimenta nella memoria ci allontanano dalla sua specificità, dal senso di una origine e di una appartenenza. Questa "edizione speciale" di "Un canto di Natale" vuole aiutarci a ritrovare in noi il senso di tale appartenenza. "Speciale" è la presenza del testo originale inglese, che ci restituisce il dono impagabile di una scrittura che tocca i registri più svariati del grottesco e del comico, del tragico e del sentimentale.
Racconto conclusivo e momento epifanico della raccolta "Gente di Dublino", "I morti" è divenuto un "objet de eulte" a sé stante della narrativa breve novecentesca. Come nei quattordici racconti che lo precedono, è Dublino la veta protagonista, impietosamente e dolorosamente rappresentata nella paralisi culturale e motale dei suoi abitanti e nella fissità claustrofobica dei suoi rituali, dei suoi ideali e dei suoi simboli asfittici. Ed è appunto il più simbolico dei rituali - la tradizionale festa natalizia delle signorine Motkan - che fa da cornice al racconto: una "natura morta" splendidamente dipinta nel dettagliato resoconto degli arrivi e partenze, nell'inventario minuzioso di cibi e bevande, nell'annuncio gridato delle figute della quadriglia e nelle ridondanti formule di benvenuto e commiato che aprono e chiudono la festa. Officiante supremo del rito è Gabriel Conroy, maschera di Joyce, che si muove insofferente e impacciato tra sussiego e disagio, autocompiacimento e insicurezza, alla ricerca di conferme di una identità traballante sul vuoto vertiginoso della propria paralisi e del proprio fallimento interiote. Fino allo struggente e ambiguo finale, quando percepisce nel turbamento improvviso e nella distanza di sua moglie Gretta la presenza di un fantasma del passato e di una frattura tra loro, sempre esistita sotto la superficie dotata del grande amore e della famiglia felice. È il momento di una dolorosa agnizione, e dell'incontro con i morti, i morti che tornano a minacciare il presente...
Secondo dei quattro «Christmas Books» dell'autore, questa «fantasia di Natale» ci offre tutti i caratteri della scrittura dickensiana: l'alternanza di comico e tragico, di momenti di cupa introspezione e di incontenibile allegria, delle figure dell'ombra e di quelle della luce; e l'infanzia, nelle sue componenti più inquietanti e in quelle più tenere. E vi ritroviamo naturalmente la magìa del Natale, con il suo messaggio augurale di dolcezza e benevolenza.