Nella raccolta "Maternalia", opera a due voci di Brunella Pelizza e Susanna Piano, che indaga il tema della maternità in tutto il suo farsi, dall'attesa al divenire madre, con incursioni nel passato e nel futuro, a prevalere è sempre la grazia della semplicità, dato che accomuna le due autrici, pur nel loro tangenziale e non sempre congruente accordo sul significato dell'essere madre. Le due voci si intrecciano, si sfiorano, si accordano e si distanziano, giungendo a conclusioni ed esiti diversi nella loro ricerca di senso, riuscendo tuttavia a non perdere mai l'aspirazione ad una (ardua) semplicità di parola, che le porta ad esplorare attraverso uno stile limpido e musicale, una condizione che alla fine appare tutt'altro che trasparente ed univoca.
"Paolina, adesso ti spiego cos'è successo", azzarda a un certo punto Ennio Cavalli. Ed è il racconto di un istante, il "precipitato" insolubile di una morte improvvisa. Da lì inizia una nuova dimensione, la vita incrocia l'indomabile assenza dell'amata. Ma nulla è asimmetrico o cauterizzato. "Il poeta non si permetta di saltare un risveglio e un assopimento senza un pensiero a lei", scrive Erri De Luca nella postfazione, "senza l'ascolto teso che vuole cogliere un cenno di presenza, una sillaba di Paola, staccata a goccia dalla tenuta stagna della morte. È lui Euridice che va dietro a Orfeo, al suono che la estrae dagli assenti, solo per la sua musica e non per nostalgia di vita. Non è poeta Orfeo, ma Euridice". "Trattativa con l'ombra" diventa così un canzoniere d'amore sottratto al lutto e l'ombra non è un abito fatto con scampoli di memoria, ma il misterioso e costante riflesso del nostro esistere. "Per un lettore, per chiunque abbia conti in sospeso con un'assenza mai giustificata", conclude Erri De Luca, "queste pagine fanno da supplenza. Gli offrono le parole, il tono e la tenacia di una resistenza".
In questi versi, che talora s'allungano a mo' di pseudo alessandrini imprimendo ritmo di narrazione distesa, le voci e gli stilemi alti della poesia italiana e inglese si mischiano a toni e timbri "familiari", ai lemmi i più umili di lingue maggiori e minori, ricomponendo a suo modo una "linea lombarda" di ascendenza, riconoscibile nelle sequenze di un diario poetico trasfigurato in purgatorio dell'anima, con l'idea che la "proprietà letteraria" sia forma prima dell'universo personale di luoghi, immagini, ricordi.
"C'è un filo elettrico che percorre i versi di Franca Mancinelli, uno stato d'allarme, qualcosa che ci costringe all'attenzione. Sono stati scritti alla finestra, in una zona di frontiera e di dogana. E sono stati scritti dopo un difficile cammino tra le parole, con pagine lasciate bianche e silenziose. Di tale cammino portano il peso, la ferita e la tensione, ma anche il sapere. [...] Tutto il libro è un sottrarre e un levigare, uno sforzo di purificarsi, di giungere a una nudità che è conoscenza." (Milo De Angelis)
Se dovessi indicare il protagonista maggiore di questo libro dalla così vasta ricchezza di toni, non avrei dubbi: il Monviso. La montagna. La sua presenza incombente e leggera, austera e magica, corre per tutte le pagine e le inarca. Ed è il Monviso che guida Beppe Mariano verso il mito. Pavese, certo. Ma Mariano va oltre. I tempi che censuravano ideologicamente ogni rincorsa verso il mito (e che inflissero censure e sofferenze a Pavese, e anche a Pasolini) sono finiti. In Mariano il mito si sprigiona in testi come quelli di 'Monvisana', di 'Mòria', di 'Mistà' con una potenza rara nella poesia di oggi. Quando la vacca Mòria vola su un bastimento in mezzo alla tempesta, la suggestione visionaria è così forte che io ho pensato all'Ulisse di Dante, alle pagine finali del Gordon Pym di Edgar Allan Poe. E anche la vicenda di Mistà, che dopo i suoi mille mestieri vola appeso al suo ombrello sino a confondersi con le costellazioni ricorda il paradigma di ogni mito, che è la ricongiunzione finale al cosmo, alle origini, alle lontananze siderali. Cosa dire, in conclusione, di un libro così, che è capace di dare sostanza mitica alla montagna, di fare del Monviso un nuovo, indimenticabile luogo dello spirito, dell'energia dello spirito?
Il nuovo libro di poesie di Alberto Bertoni, il settimo di una storia compositiva cominciata negli anni Ottanta (e il secondo pubblicato da Aragno, a nove anni di distanza da "Le cose dopo"), prende le mosse dall'esperienza diretta degli anni di demenza vissuti dalla madre dell'io narrante. Ma poi si allarga ad altri, meno chiusi, orizzonti, attraverso i modi del viaggio nel tempo e nello spazio, aggiungendo alla voce poetica propria dell'autore, che riconosce i suoi modelli di scrittura nelle opere in versi di Sereni, di Giudici, di Bevilacqua e di Cucchi, un approdo nuovo alla scrittura in prosa: vero e proprio contrappunto ai testi più tradizionali.
I poli del libro sono la sezione "Quota madre", che ne è baricentro strutturale ed emotivo, e quella eponima, che ne sigla la cadenza d'inganno. Da un lato dunque - dal punto di vista dei "sopravvivi" - una poesia del lutto e dell'assenza dell'Altro (secondo la tradizione "madre", è il caso di dire, della nostra lirica: talché non suonano di maniera certi echi di Montale). Di contro, una poesia dell'assenza - e quasi del lutto - di Sé. Non stupirà, nel drammaturgo e critico teatrale, la frequenza di ambientazioni e metafore prese dalla scena.
Filastrocche incantevoli, filastrocche incantate, filastrocche incantatrici. Riso e pianto in questo caso vanno a braccetto e arrivano direttamente dal produttore (uomo) al consumatore (uomo). E senza passare dal via.