«Decrescita»: che cosa si intende esattamente con questa parola? Un'inversione della curva di crescita del prodotto interno lordo, indice statistico che dovrebbe misurare la ricchezza? La fine dell'ideologia della crescita, ovvero del produttivismo? Se la crescita è una fede nel progresso, allora la decrescita può sembrare la cifra di una perdita. Serge Latouche ci spiega che non è così. Mentre l'idea di una crescita infinita è negata in modo sempre più evidente dai limiti del pianeta, il mito della ricchezza e della produttività svela ogni giorno di più il suo lato oscuro. È infatti sempre più probabile che, al di là di una certa soglia, l'aumento del PIL implichi una diminuzione del benessere. Nella società della produttività illimitata non aumentano solo le disuguaglianze, anche la felicità promessa ai «vincenti» si rivela un'illusione. All'aumento dei consumi corrisponde il degrado della qualità della vita (l'acqua, l'aria, l'ambiente), il ricorso sempre maggiore a strategie di compensazione (medicine per lo stress e altre patologie, i viaggi, lo svago), l'aumento dei prezzi di beni essenziali ogni giorno più scarsi (acqua, energia, spazi verdi). La soluzione per Latouche è la decrescita. Che significa rompere con la società della crescita, con l'economia capitalistica, con il produttivismo e con l'occidentalizzazione del mondo. Ma anche recupero di quanto in questi anni è andato perduto: un senso del sacro che restituisca legittimità alla dimensione spirituale dell'uomo, in forme anche completamente laiche. La decrescita come arte di vivere. Un'arte sobria e dalle forme variegate, di volta in volta da inventare e da costruire, un'arte, soprattutto, volta a vivere bene: in accordo con se stessi e con il mondo.
La sua immagine è dappertutto. Su tazze, magliette, sui muri delle città, su spille e borse; e le sue frasi e i suoi aforismi sulla scienza e sulla vita sono citati ogni giorno. Albert Einstein è il vero scienziato iconico del secolo scorso; il suo nome – anche per chi fatichi a masticare le teorie fisiche – è sinonimo di genio eccentrico (famoso l’aneddoto che vuole il suo guardaroba pieno di completi identici così da non perdere tempo al mattino a pensare come vestirsi); saggezza bonaria; ma anche risolutezza (si pensi a quando scrisse al presidente Roosevelt invitandolo a dare il via a quello che sarebbe stato il programma nucleare americano che portò alla prima bomba atomica). Il suo aspetto in apparenza trasandato ha ispirato decine di trasposizioni cinematografiche con al centro uno scienziato bizzarro (basti pensare al mitico Doc di Ritorno al futuro, il cui cane non a caso si chiama Einstein!). Con la sola forza della sua mente e delle sue idee Einstein ha rivoluzionato il modo in cui concepiamo e interpretiamo il mondo e l’universo, e se basta una sola formula dal potenziale dirompente – E=mc2 – per decretarne l’immensa eredità intellettuale, l’immagine che oggi percepiamo supera quella del semplice scienziato. Einstein è diventato una vera e propria icona pop, sinonimo di genialità assoluta, visionarietà, fonte di ispirazione e modello per milioni di persone. Un simbolo. È proprio da qui che prende le mosse Einstein Forever, il racconto appassionato di come un «semplice» fisico abbia cambiato il mondo e sia diventato un genio iconico e un personaggio universalmente riconosciuto. Con il suo stile personale e coinvolgente Gabriella Greison ci fa rivivere gli anni americani di Einstein, la sua vita e i suoi pensieri, ripercorrendo le tappe che lo hanno portato a stravolgere letteralmente la nostra concezione del mondo e dell’universo. A seguito di ricerche, interviste, incontri sul campo in America, e dopo la consultazione di materiale d’archivio nei centri di ricerca di tutto il mondo, Greison ci restituisce un Einstein quanto mai umano, immerso nel suo tempo, un sognatore instancabile preoccupato del destino dell’uomo e un divulgatore capace di incantare con le sue storie. Einstein Forever è una spudorata dichiarazione d’amore nei confronti di un uomo fuori dall’ordinario che ha insegnato – e continua a insegnare – a tutti noi a superare i limiti dell’immaginazione e del pensiero.
I sei brevi romanzi in cui perdersi in questo libro sono quelli di Marie Curie (1867-1934), Lise Meitner (1878-1968), Emmy Noether (1882-1935), Rosalind Franklin (1920-1958), Hedy Lamarr (1914-2000) e Mileva Mari? (1875-1948). Per molti saranno nomi sconosciuti, eppure queste sei donne sono state delle pioniere. Sono nate tutte nell'arco di cinquant'anni e hanno operato negli anni cruciali e ruggenti del Novecento, che sono stati anni di guerre terribili, ma anche di avanzamenti scientifici epocali. C'è la chimica polacca che non poteva frequentare l'università, la fisica ebrea che era odiata dai nazisti, la matematica tedesca che nessuno amava, la cristallografa inglese alla quale scipparono le scoperte, la diva hollywoodiana che fu anche ingegnere militare e la teorica serba che fu messa in ombra dal marito. Le sei eroine raccontate da Gabriella Greison non sono certo le sole donne della scienza, ma sono quelle che forse hanno aperto la strada alle altre, con la loro volontà, la loro abilità, il talento e la protervia, in un mondo apertamente ostile, fatto di soli uomini. Sono quelle che hanno dato alla scienza e a tutti noi i risultati eclatanti delle loro ricerche e insieme la consapevolezza che era possibile - era necessario - dare accesso alle donne all'impresa scientifica. Non averlo fatto per così tanto tempo è un delitto che è stato pagato a caro prezzo dalla società umana. Sono sei storie magnifiche. Non sempre sono storie allegre e non sempre sono a lieto fine, perché sono racconti veri, di successi e di fallimenti. Ma è grazie a queste icone della scienza novecentesca e al loro esempio che abbiamo avuto poi altre donne, che hanno fatto un po' meno fatica a farsi largo e ci hanno regalato i frutti del loro sapere e della loro immaginazione. Dietro di loro sempre più donne si appassionano alla scienza, e un domani, in numero sempre maggiore, saranno libere di regalarci il frutto delle loro brillanti intelligenze.
Pochissimi azzardano oggi una filosofia della storia. Il garbuglio e l'incertezza dei tempi scoraggiano l'impresa. Per esserne all'altezza occorre una capacità di visione che si spinga molto indietro nel passato, guardi al presente con appassionato realismo e abbia così a cuore il futuro da reclutare senza esitazione l'utopia. Tra i rari intrepidi, il più crepitante è Michel Serres. Ce lo dovevamo aspettare da chi ha attraversato il pensiero di mezzo secolo con la sublime impertinenza dello scompigliatore, sempre intento a spargere il contenuto dei panieri che i concetti astratti etichettano e tengono sigillati. Qui a saltare sono addirittura i sigilli - cronologici, disciplinari, interpretativi - dell'intera vicenda del mondo, il cui Grande Racconto, nella suggestiva narrazione di Serres, dilata la scrittura da invenzione esclusivamente umana a codifica universale comune a rocce, piante e animali, retrodatando gli inizi di tutto e insieme istituendo una continuità tra il primordiale e il digitale. Nella fantasmagoria dei paesaggi macroscopici o invisibili che per millenni si sono generati e offerti alla decifrazione, corrono tre età della storia scandite da altrettante figure emblematiche. Dal regno naturale sotto il segno di Darwin, all'interminabile dominio della violenza mortifera simbolizzato da Napoleone, all'epoca attuale, la più pacifica dall'alba dell'umanità, dove la vita riprende il sopravvento all'insegna empatica del samaritano: ecco la traiettoria che Serres fa culminare nella nostra «età dolce», l'età del dolore alleviato, della negoziazione e del virtuale, che si è lasciata alle spalle l'«età dura» della tanatocrazia insanguinata. Un netto cambio di focale, quello di Serres, se confrontato al dilagante, cupo giudizio sul presente e ai catastrofismi di maniera. Statistiche alla mano, adesso gli uomini, «portatori sani di aggressività», si comportano in modo meno violento rispetto ai loro predecessori, tanto che la sentenza filosofico-politica Homo homini lupus va rovesciata in senso etologico - accudente e solidale come un lupo. Spesso non ce ne accorgiamo, ma il possibile acquista già vigore, perché «il dolce dura più e meglio del duro».
Da un punto di vista rigorosamente laico, Salvador Giner non esita a riconoscere la perdurante esigenza del sacro e la sua valenza evolutiva: Homo sapiens è da sempre anche Homo religiosus. Giner ritiene la necessità di adorazione universalmente umana, indipendentemente dall'oggetto d'elezione, la divinità, una celebrity o un'entità mondana come la nazione. Non entra nel contenzioso tra chi sostiene la natura solo culturale del fatto religioso e chi ne indaga le basi neurali. Gli sembra più promettente una posizione terza, che pur accettando le risultanze neuroscientifiche si concentri sulle determinanti socioculturali dei contenuti di fede.
Prima di vederla, la Shoah era per quasi tutti semplicemente incredibile, non-credibile, troppo oltre l'umana comprensione. Dopo averla vista, oggi, per molti visitatori del Memoriale e Museo di Auschwitz-Birkenau è l'indicibile, non-dicibile, una violenza troppo grande per poter essere espressa a parole. Queste pagine cercano di trovare una soluzione, anche solo approssimativa al dilemma della memoria: Come fare a trasmettere la memoria dell'indicibile e del non-credibile?, per giunta in un tempo nel quale i testimoni diretti, per motivi anagrafici, stanno rapidamente venendo meno? È questo il difficile compito del direttore di un museo tanto particolare come quello di Auschwitz-Birkenau, ed è questo ciò che Cywinski cerca di fare in queste pagine.
Dentro di noi custodiamo un cielo nascosto, uno spazio-tempo altrettanto abissale dell'universo che ci sovrasta. Come è accaduto alla volta stellata, gli interni d'anima hanno attratto cosmografi fin dall'antichità: filosofi, scrittori, teologi e poeti hanno scrutato, contemplato, decifrato, versato in parole "fantasticanti e conoscitive" ogni transito di pensieri, ogni orbita di passioni, ogni ellissi del desiderio. Si è via via affinata una lingua per dire la mobilità dell'io e il teatro degli affetti, e si è scoperto nelle profondità della mente il punto di maggiore consonanza con il ritmo vivente del mondo. Questa pienezza di raffigurazione e il suo stesso oggetto - la vita interiore, concentrata nelle proprie fantasmagorie, ma anche persa in lontananze e silenzi siderali - rischiano oggi di smarrirsi, vittime dello spossessa mento di sé indotto dalla seduzione della vicinanza virtuale e dal frastuono della comunicazione. In controtendenza rispetto ai tempi, Antonio Prete compie qui un prezioso gesto di restituzione. Mette la sua maestria di comparatista al servizio di una materia sconfinata, prelevandovi con levità figure tematiche e passaggi salienti, da Agostino a Joyce, da Montaigne a Proust a Calvino, e cedendo spesso il passo agli amatissimi Leopardi e Baudelaire. Sono tutti loro, insieme con gli artisti che nell'autoritratto hanno sfidato l'irrappresentabile, a costruire idealmente una "grammatica dell'interiorità".
Cinquecento anni fa, il 29 marzo 1516, il Senato della Serenissima Repubblica di Venezia deliberò che gli ebrei di diverse contrade cittadine si trasferissero "uniti" (cioè tutti) nella corte di case site in Ghetto, presso San Girolamo. Nasceva così il primo "recinto degli ebrei". Si trattava in origine del "geto de rame", il luogo in cui venivano riversati ("gettati") gli scarti della lavorazione delle fonderie presenti nella zona. Nel corso dei secoli, e su tutti i continenti, questa parola veneziana sarebbe presto diventata sinonimo di segregazione. Nato come misura di confinamento, il Ghetto diviene in breve un luogo effervescente e cosmopolita, che accoglie gli ebrei provenienti dai luoghi più diversi, oltre a rappresentare uno dei centri di commercio fondamentali della Repubblica veneziana. La struttura architettonica delle sue case, inusuale per Venezia - con i suoi caseggiati stranamente sviluppati in altezza per far posto al numero crescente di abitanti confinati nel luogo -, si intreccia alla vicenda storica del luogo, decisamente centrale per l'Italia e per l'Europa. Qui sorgono i banchi di pegno dai quali passerà buona parte del prestito di denaro della potenza lagunare, ma nel Ghetto non mancano le professioni liberali e la cultura, che fanno di Venezia una delle capitali indiscusse del mondo ebraico e non solo.
Molte persone, anche colte e brillanti, dinanzi alla morte si comportano in maniera inspiegabilmente irrazionale, finendo per causare a sé e agli altri sofferenze inutili e ampiamente evitabili. Da un lato, è una questione di ignoranza: sulla morte scrivono molto i filosofi, i bioeticisti o i religiosi, ma raramente si sente la voce dei medici, che senza dubbio sono coloro che la conoscono meglio. Dall'altro lato, è una questione di paura, di invincibile paura, e si sa che la paura è una cattiva consigliera. Alla paura di non esistere più, si aggiunge spesso, anche più forte, la paura di soffrire, ed è questo che rende il libro che tenete tra le mani un rassicurante e necessario testo di riferimento, speciale, utile e unico. Gian Domenico Borasio è uno dei maggiori esperti europei di cure palliative e ha un messaggio importante per tutti noi: sapendola gestire, nella grande maggioranza dei casi la morte non è dolorosa, e per i casi in cui lo sarebbe, ci sono risorse mediche adeguate che possono essere usate con successo. Solo, bisogna conoscerle, ma purtroppo non è sempre così. Ci sono manuali di medicina che ancora riportano concezioni ormai tramontate sulla presunta dannosità di certe sostanze e di certe pratiche palliative, e nelle università si insegna poco su questo tema, o addirittura si insegnano cose sbagliate. Anche ai medici, dunque, è dedicato questo libro, perché apprendano una parte tanto fondamentale del loro lavoro, a beneficio di tutti.
Pietro Lombardo, richiamandosi a Girolamo, scriveva che esiste "una scintilla superiore della ragione, che neppure in Caino poté estinguersi, che vuole sempre il bene e odia sempre il male". La scintilla della coscienza avrebbe dunque il ruolo di giudice interiore delle nostre azioni. Nel corso dei secoli, tuttavia, il concetto stesso di coscienza ha subito metamorfosi che ne hanno cambiato sensibilmente il significato. Carlo Augusto Viano intreccia in questo libro molte di queste storie, in contesti, tempi e luoghi differenti, tutte incentrate sulla coscienza e sugli usi pubblici di questo concetto ambiguo e duttile. La narrazione inizia con il rifiuto di imbracciare le armi da parte dei quaccheri americani e finisce con l'obiezione di coscienza di quei medici che negano alle donne l'assistenza che esse richiedono. Sono due estremi che evidenziano due accezioni radicalmente diverse del termine: gli obiettori quaccheri rivendicavano il diritto di sottrarsi all'obbligo di prevalere sugli altri, mentre i medici obiettori pretendono di imporre alle donne ciò che solo essi ritengono giusto. L'obiezione "di coscienza" alle armi e alle pratiche mediche non è nuova, e ha permeato il dibattito pubblico per secoli; questo libro ne ripercorre il cammino evidenziando i paradossi impliciti di questa parola abusata.
Certi trionfi sono peggiori delle eclissi. È accaduto anche alla bellezza. Proscritta come imbarazzante anticaglia dal sussiego postmodernista, ha poi riguadagnato terreno nella vita quotidiana attraverso un'idea artefatta di naturalezza e il culto della prestanza corporea, che promette a chiunque una facile elusione del proprio "ricettacolo di fango". Stefano Zecchi non si compiace affatto di un simile rientro in scena della bellezza. Se oltre vent'anni fa la riscattava dal limbo di irrilevanza in cui l'aveva confinata l'intero Novecento, avanguardista e "post", adesso la difende dalla sua versione cosmetica, domenicale. Nella nuova edizione di quel saggio controcorrente, accolto con successo, Zecchi torna a essere felicemente inattuale. Ai suoi occhi rimozione estetica ed esaltazione sociale appartengono allo stesso orizzonte isterilito, in cui ancora una volta viene aggirata la domanda di senso che è racchiusa nella rappresentazione di una forma sensibile e che costituisce la vera dimensione utopica dell'esistenza. Più che salvare il mondo, secondo l'auspicio di Dostoevskij, oggi la bellezza deve essere messa in salvo dal mondo.
"Cambiare aria" rende bene l'idea del viaggiare. Per quanto breve sia il viaggio, significa altri spazi, altro ritmo temporale, altri volti prima ignoti, e le loro vite appena sfiorate. Vuol dire anche dislocarsi altrimenti nei confronti della stessa attualità, percepirne i rimbalzi locali, relativizzarne gli effetti. L'attrattiva del "diario di bordo" di Marc Augé è tutta nel nuovo respiro che ogni volta quel cambiamento d'aria produce. Perché nonostante il nontempo e i nonluoghi che inghiottiscono la nostra sfiatata modernità - e che proprio Augé con acutezza di antropologo ha ravvisato per primo -, l'esperienza non è preclusa a chi sappia distogliersi dall'ordine abituale del mondo sotto casa. Viaggiatore implicato e reattivo, Augé prende nota mese dopo mese di andate e ritorni, del loro "ineguagliabile sapore dolce-amaro", dei resti fantasmatici che essi depositano nella memoria. L'altrove di tre continenti, dalle geometrie arroventate di Mexicali alle suggestioni cordiali dell'Emilia, filtra gli echi della Grande Storia, ma insieme aiuta a rimuovere gli stereotipi mediatici che ombreggiano la crisi planetaria o le vittime di Gaza, il neoeletto Obama o la rivolta dei giovani iraniani. Ritroviamo, in "Per strada e fuori rotta", l'intreccio di vicinanza e lontananza che ha sempre tramato i grandi taccuini di viaggio, e che riesce ancora a comunicarci, nell'orizzonte globale, i sussulti e le vertigini dello spaesamento.
Nella storia del pensiero non è infrequente il caso di opere capitali circolate mutile. Di una simile vicenda "Individuo e cosmo nella filosofia del Rinascimento" offre un esempio paradigmatico. Alla sua pubblicazione nel 1927, al culmine della elaborazione teoretica di Ernst Cassirer maturata nella cerchia amburghese di Aby Warburg, fu subito chiaro come il Rinascimento assumesse una fisionomia nuova, plurivoca e tutt'altro che pacificata. Attraverso le nozioni di individuo e cosmo venivano alla luce i nuclei etici e conoscitivi della modernità, quali i rapporti tra libertà e necessità e tra soggetto e oggetto. Dalla ricchissima trama di idee, riflessioni e congetture che Cassirer riusciva a intessere attingendo non solo a filosofi, ma anche a scienziati, poeti e retori, si distaccavano per rilievo peculiare i contributi di pensiero di due figure, il tedesco Niccolò Cusano e il francese Charles de Bovelles. A sottolineare la loro centralità, Cassirer poneva in appendice il dialogo "Della mente" del primo e "Il sapiente" del secondo. Entrambi gli scritti risultavano però espunti nella traduzione italiana apparsa nel 1935. Oggi, recuperare l'interpretazione cosmopolita di un'epoca fondante della storia culturale europea ha una valenza che esorbita dal puro ambito storiografico. La prima traduzione integrale, e completamente rifatta, del testo di Cassirer risponde a un'esigenza del nostro tempo: rompere con le prospettive unilaterali.
Un commento in genere chiosa, espone, chiarisce. Accompagna la lettura dischiudendo ciò che appariva serrato e impenetrabile, interpretando passi così densi da risultare cifrati, stabilendo correlazioni intertestuali con opere prossime o con altre che a stento si sarebbero indovinate affini. Lo studioso di Jung Bernardo Nante conosce l'arte di prendere per mano il lettore e la mette al servizio del "Libro rosso" junghiano, per il quale non esistono termini di paragone se non nelle narrazioni profetiche o nei racconti mitici arcaici. Nante ne allestisce l'unica guida integrale, indispensabile per chiunque voglia addentrarsi nel magma di visioni portentose, affidate allo splendore delle tavole dipinte e alla mercurialità della parola scritta. Ogni movimento con cui l'Io sprofonda nelle proprie tenebre per conoscere infine la realtà piena, ogni personaggio che dà voce alla fondamentale polifonia della psiche, ogni immagine che amplifica lo sgomento e la fascinazione del lungo viaggio sono messi qui nella giusta luce. Non quella troppo cruda della ragione critica, che si limita a spiegare, né quella troppo complice dell'abbandono, che fa solo balenare i significati e lascia storditi, ma quella che illumina l'assurdo senza perdere l'ancoraggio del senso e delle sue numerose valenze. L'impresa di rendere comprensibile il libro più enigmatico del Novecento ora può dirsi compiuta.
Il paranoico spesso è convincente, addirittura carismatico. In lui il delirio non è direttamente riconoscibile. Incapace di sguardo interiore, parte dalla certezza granitica che ogni male vada attribuito agli altri. La sua logica nascosta procede invertendo le cause, senza smarrire però l'apparenza della ragione. Questa follia "lucida" - così la definivano i vecchi manuali di psichiatria - è uno stile di pensiero privo di dimensione morale, ma con una preoccupante contagiosità sociale. Raggiunge infatti un'intensità esplosiva quando fuoriesce dalla patologia individuale e infetta la massa. Al punto da imprimere il proprio marchio sulla storia, dall'olocausto dei nativi americani alla Grande Guerra ai pogrom, dai mostruosi totalitarismi del Novecento alle recenti guerre preventive delle democrazie mature. Finora mancava uno studio d'insieme sulla paranoia collettiva, rimasta terra di nessuno tra le discipline psichiatriche e quelle storiche. Per primo lo psicoanalista Luigi Zoja ricostruisce la dinamica, la perversità e insieme il fascino, l'assurdità ma anche la potenza del contagio psichico pandemico, in un saggio innovativo che attinge a vastissime competenze pluridisciplinari. Improvvisamente, vediamo con occhi diversi eventi che credevamo di conoscere, e comprendiamo quanto i paranoici di successo, Hitler o Stalin, fossero tali per la loro capacità di risvegliare la paranoia dormiente nell'uomo comune...
Il contenuto
Da cinquant’anni diari attribuiti a Mussolini compaiono e scompaiono, in scenari che coniugano affarismo e sconsiderato revisionismo storico. Il punto di svolta è segnato nel novembre 2010 dalla pubblicazione dei Diari di Mussolini [veri o presunti] 1939: cinque agende rinvenute dal senatore Marcello Dell’Utri in Svizzera sono presentate come la rivelazione del «volto umano» del duce, pacifista e amico degli ebrei, intimamente avverso a Hitler e preoccupato soltanto della «sua» Italia. Un testo, insomma, che costringerebbe gli storici a riscrivere la biografia di Mussolini e a reinterpretare le vicende del Novecento. Se fosse vero. Mimmo Franzinelli lo smonta con gli strumenti dell’analisi testuale e della ricerca storiografica e svela che si tratta di un manufatto fabbricato da specialisti in apocrifi mussoliniani. Un’indagine avvincente e rigorosa mette in evidenza incongruenze, anacronismi ed errori che caratterizzano i presunti diari e ne dimostra l’assoluta inverosimiglianza. Il lettore apprenderà, tra l’altro, quali sono le fonti – dai diari di Galeazzo Ciano ai quotidiani del regime – cui i falsari hanno generosamente attinto per la stesura di quelle pagine. Autopsia di un falso raffronta inoltre l’agenda 1939 con i falsi diari di Hitler lanciati nel 1983 dal gruppo editoriale Stern, e illustra caratteri e modalità della massiccia operazione mediatica che ha accompagnato la pubblicazione dei Diari mussoliniani.
Il libro di Mimmo Franzinelli è anche una riflessione più ampia sulla falsificazione della storia e la manipolazione dell’opinione pubblica, sul divario tra gli eventi storici e la loro rappresentazione mistificante: un saggio rivelatore di una fase della vita pubblica italiana in cui – dalla cultura alla politica – il verosimile e la finzione tendono a sostituirsi al reale.
L'autore
Mimmo Franzinelli, studioso dell’Italia del Novecento, si è occupato dell’epurazione (L’amnistia Togliatti, 2006), della crisi politica del 1946 (Il Piano Solo, 2010) e della strategia della tensione (La sottile linea nera. Neofascismo e servizi segreti da piazza Fontana a piazza della Loggia, 2008). Per Bollati Boringhieri ha pubblicato I tentacoli dell’Ovra (1999, Premio Viareggio 2000), sui servizi segreti del regime fascista, Rock & servizi segreti. Musicisti sotto tiro: da Pete Seeger a Jimi Hendrix a Fabrizio De André (2010) e ha curato scritti inediti di Gaetano Salvemini, Ernesto Rossi e Leopoldo Gasparotto.
La storia ha un andamento tortuoso, a volte incomprensibile. Eppure alcuni intravedono in quel groviglio di eventi una sensatezza, addirittura un vettore unificante. Ritengono che nella storia agisca una razionalità potente e che il pensiero sia chiamato a comprenderla attraverso una tessitura concettuale priva di smagliature. Della storia sarebbe dunque possibile una scienza. Tra coloro che lo sostengono c'è chi individua nello svolgersi degli eventi un principio immanente, e chi invece lo riferisce alla trascendenza di Dio. Prospettiva filosofica la prima, teologica la seconda. Spesso però sono meno distanti di quanto ci si immagini, anzi attingono l'una all'altra. Lo dimostra il filosofo e teologo Gianluigi Pasquale, in un saggio stringente che si apre con un quesito radicale: esiste nella storia la ragione che io mi possa salvare? La sua argomentazione fa perno sull'accostamento di due figure centrali, Hegel, il teorico dell'assoluto inteso come processo dialettico e storico, e un suo grande lettore di oggi, il teologo protestante Wolfhart Pannenberg. Sia per la dialettica hegeliana sia per il pensiero cristologico di Pannenberg la storia non si dispiega dal passato verso il futuro, piuttosto dal futuro corre incontro al passato, così che la verità nella storia è ricostruibile solo retrospettivamente, nella totalità dell'accadere. Ed è proprio il primato del futuro, secondo Pasquale, a costituire il fondamento su cui poggiano insieme la logica interna alla storia è la speranza di salvezza.
Dai lavori dei tardi anni sessanta all’ultimo, decisivo contributo sulla biolinguistica, qui sono presenti tutti i capisaldi del Chomsky teorico. «Il contributo maggiore allo studio del linguaggio risiederà nella conoscenza che esso può fornire quanto al carattere dei processi mentali e alle strutture che essi formano e manipolano»: la sua affermazione, datata 1967, si è rivelata profetica. Partendo dal presupposto che compito di una teoria generale della struttura linguistica sia esplicitare le regole grammaticali che consentono di generare infinite frasi, Chomsky ha indagato i princìpi di una «grammatica universale» anche alla luce di una prospettiva biolinguistica che si misura con le nuove acquisizioni del cognitivismo e delle neuroscienze, e affronta inediti, radicali interrogativi.
Esistono vicende, nella storia umana, che hanno una dirompenza più inappariscente dei grandi sconvolgimenti, ma un rilievo e una durata ben maggiori. Per comprenderne le vere dimensioni sono d’ostacolo gli specialismi non dialoganti e gli arroccamenti sugli spalti identitari. Ce lo insegna in modo esemplare l’invenzione della prospettiva, argomento tra i più studiati di una storia dell’arte che nel Rinascimento fiorentino di Ghiberti, Brunelleschi e Alberti celebra insieme gli atti costitutivi di una rivoluzionaria tecnica culturale e i propri solitari fasti disciplinari. Con mossa felicissima, Hans Belting spariglia le carte e mette in prospettiva la prospettiva stessa. Grazie alla sua indagine si chiariscono fino in fondo le alleanze tra pratiche pittoriche, dottrine artistiche, conoscenze scientifiche, e soprattutto si svela la fecondità di un paradosso: all’apice della sua fioritura, l’Occidente definì il canone percettivo, attraverso il quale ci appropriamo del mondo sotto forma di immagine, attingendo a una teoria della visione concepita quattro secoli prima da un matematico arabo nativo di Bassora, Alhazen, in un contesto religioso islamico che bandiva le immagini perché giudicate contraffazioni blasfeme della creazione di Dio. Lo scarto temporale e i travisamenti dei traduttori propiziarono inopinatamente, sulla questione nevralgica delle consuetudini visive, il cortocircuito tra due civiltà che avrebbero poi acuito la reciproca lontananza. Civiltà dello sguardo, quella occidentale, fondata sul primato dell’occhio e sulla sovranità del soggetto osservatore. Civiltà che privilegia la luce, quella araba, fedele al grafismo non iconico dell’ornamento. Belting riesce a intrecciare le loro differenze, così da renderle vivide per contrasto, come nell’emblema della finestra, che nella nostra tradizione è soglia da cui lasciare spaziare lo sguardo all’esterno, mentre nella cultura islamica è grata rivolta all’interno, dove il chiarore del giorno filtra in geometriche dissolvenze decorative. Che cosa implichi vedere, quanto sia necessario che i dissimili si scambino gli sguardi e vengano guardati nelle loro talora irriducibili peculiarità, poteva mostrarcelo solo un ingegnoso frontaliere degli studi, l’ideatore di un’antropologia delle immagini.
l'autore
Hans Belting, è professore emerito di Storia dell’arte e teoria dei media presso la Hochschule für Gestaltung di Karlsruhe, dove ha fondato il corso interdisciplinare «Immagine-corpo-medium: una prospettiva antropologica». Tra le sue opere tradotte in italiano: Il Medio Oriente e l’Occidente nell’arte del xiii secolo (1982), L’arte e il suo pubblico. Funzione e forme delle antiche immagini della Passione (1986), La fine della storia dell’arte o la libertà dell’arte (1990), Il culto delle immagini. Storia dell’icona dall’età imperiale al tardo Medioevo (2001) e I tedeschi e la loro arte. Un’eredità difficile (2005). Presso Bollati Boringhieri ha pubblicato La vera immagine di Cristo (2007).
Simbolo di spazi selvaggi e inviolati, ma anche dei più teneri giochi infantili, l’orso ha stregato l’uomo sin dalla preistoria. Bernd Brunner ci porta attraverso il tempo e lo spazio per farci scoprire i risvolti inattesi di un rapporto burrascoso, fatto di cacce, inseguimenti, fughe, ma anche di rarissimi e preziosi momenti di condivisione. Uomini e orsi, con le sue ricche illustrazioni, introduce il lettore alla nostalgia per una vita libera e brada, che proprio come gli orsi non si lascia addomesticare o costringere nei limiti angusti della cosiddetta civiltà. Molti sono stati gli uomini preda di una vera e propria «orsessione», come recita uno dei capitoli del libro, di un’attrazione, talvolta fatale, che li ha spinti a sfidare i propri limiti. Brunner ci racconta le loro e altre storie, in un caleidoscopio di fiabe, miti e credenze che cattura dalla prima all’ultima pagina.
l'autore
Bernd Brunner, studioso e scrittore eclettico, si è occupato soprattutto di storia delle idee e della cultura in rapporto al sapere scientifico. Ha studiato a Berlino e Seattle e ha collaborato con il Bard Graduate Center for Studies in Decorative Arts and Culture di New York, con la Bancroft Library della University of California a Berkeley e con il Goethe Institut di San Francisco. I suoi libri sono stati tradotti in numerose lingue.