Santo Stefano è un geco sollevato sulle zampe posteriori, una piccola iguana, Barretti e Barrettini due mosche di pietra, Spargi un ragno e le tre isole più lontane, Santa Maria, Razzoli e Budelli, una stella marina con tre punte sfrangiate che potrebbero anche ricordare un anemone. Un arcipelago d'insetti. Le luci si riaccendono, stiamo per attraccare. Chi ha la macchina accende il motore. La Maddalena scintilla, si fa sempre più reale. Sulla mappa ha la forma di una fiamma pietrificata con le lingue del fuoco diramate verso l'alto.
Dai labirinti sotterranei di una memoria legata a un passato anche remoto, o addirittura pre-natale, affiorano brandelli di messaggi, volti e nomi di figure parentali, eventi di presenze ormai inghiottite dal tempo e dai paesaggi che li videro agire e soffrire, nella irredimibile solitudine dei loro destini. Antonella Anedda in "Salva con nome" ci conduce, con fermezza di voce asciutta e tagliente - cucendo con pazienza le proprie parole, come su un ramo il comporsi delle foglie - in una dimensione inquieta tra l'atemporale e l'onirico, dove le immagini si affacciano, quasi spettrali, pronte a dissolversi a contatto con l'aria. Solo il nome, solo la forza della parola riesce a salvarle: una parola, peraltro, sempre fortemente radicata nelle cose, nella realtà, nell'origine, come vediamo anche dall'uso, pur molto controllato, della lingua sarda. Una realtà che riesce a evidenziarsi attraverso i numerosi frammenti sparsi di una minuta quotidianità domestica, dai particolari di una condizione di precarietà ineludibile dove l'idea della morte - o la sua presenza condotta dal ricordo o dall'ansia - coesiste stabilmente, compenetrata nelle cose e negli esseri su cui gli occhi della poesia vengono a posarsi