Torino, 28 aprile 1945. Un uomo scende da un'auto che arriva dal palazzo della prefettura e si ferma davanti alla questura. È il nuovo questore di Torino, nominato dal Comitato di Liberazione nazionale. Quell'uomo è Giorgio Agosti. Fino al giorno prima, Agosti è stato giudice al Tribunale di Torino. Ma negli ultimi venti mesi non ha avuto modo di scrivere molte sentenze. In compenso, ha svaligiato l'armamento di una caserma della guardia di frontiera. È sfuggito a un arresto. Ha diretto la Resistenza in Piemonte, come commissario politico di Giustizia e Libertà. Si è occupato di trovare materiali di ogni tipo: dalle armi alle maglie di lana, dai camion alle calze e alle scarpe. Ha preparato volantini e giornali clandestini e li ha diffusi. Ha fatto fuggire prigionieri alleati. Bandito e latitante, ha pensato e scritto come organizzare la polizia nella futura Italia democratica. Ha saputo comandare, come richiedeva "il tempo del furore", e farsi amare, con la devozione che soltanto i grandi capi sanno suscitare. Questo libro racconta la sua storia e, con lui, la storia di quella parte d'Italia intellettualmente impegnata che rimase fuori da ogni convento, politico e culturale, fedele solo all'imperativo morale e civile del "fai quel che devi" non solo al tempo degli eroismi di guerra ma, soprattutto, durante il faticoso processo di ritorno alla normalità democratica.
Un fenomeno epocale come le nuove migrazioni verso l'Europa poteva essere l'occasione per una scommessa straordinaria: ragionare su una cultura della legalità, coniugata con il principio di solidarietà, collegare i comuni doveri con la capacità di estendere i diritti e di includere nuove popolazioni. Si poteva fare, di questa scommessa, l'orizzonte dell'Europa del futuro. Si poteva fare ma non si è fatto. La nostra ampia e confusa normativa sugli stranieri è sbagliata. È inefficace, non raggiunge gli obiettivi che si propone. Produce ingiustizia. È forte con i deboli e debole con i forti. Basta leggere cosa è accaduto ad Angela, moldava che voleva fare la badante; Hamid, marocchino, baby pusher; Abdel, egiziano e giardiniere clandestino.
Siamo ancora in tempo per cambiare rotta?
Magistrati e avvocati sono, da sempre, come quelle vecchie coppie di coniugi che mal si sopportano ma sono assolutamente incapaci di vivere l'uno senza l'altro. Rappresentano infatti momenti distinti della funzione del rendere giustizia e portano il loro contributo da posizioni e con ruoli che non devono mai essere confusi, ma restano inseparabili. Sotto forma di lettera idealmente indirizzata al proprio allievo, Paolo Borgna riflette sugli avvocati. Sulla funzione pubblica del rendere giustizia a cui l'avvocato contribuisce con il suo "ruolo partigiano". Sul ruolo di "mediatore sociale" dell'avvocato.
"La vita ci è stata data per servire - diceva Galante Garrone - per mostrarci solidali con l'umanità intera battendoci, pur nel nostro piccolo, per gli ideali eterni di giustizia, di libertà, di pace, di progresso." Era questa la morale laica di un uomo che credeva fermamente che lo Stato siamo noi, e che lo ha servito con coerenza prima come magistrato, poi come giurista e storico all'università, scrivendo libri e intervenendo sulla stampa per quasi mezzo secolo, lavorando per un Paese migliore. Attraverso la biografia di Galante Garrone, ripercorriamo le fasi più tormentate della storia italiana del Novecento e le grandi discussioni connesse.
Due magistrati, diversi per età e opinioni, riflettono sul loro mestiere senza pregiudizi e senza reticenze. Un libro coraggioso, per discutere in pubblico di una funzione essenziale per tutti, decisiva per lo Stato di diritto.