Nei settant'anni che ci separano dalla fine della seconda guerra mondiale sono stati pubblicati innumerevoli studi sull'evento che ha segnato e condizionato le dinamiche politiche, i sistemi di valori, le ideologie, le aspirazioni individuali e le utopie collettive del nostro tempo. Ma finora nessuno aveva scelto come angolo visuale per osservare le rovine di quella catastrofe - e i semi di rinascita che ne germogliarono - l'"anno zero", cioè i pochi mesi d'intervallo tra la resa delle potenze dell'Asse e l'alba del "dopo". Ian Buruma restituisce appieno il clima di quella "illuminata e fiduciosa mattina" che seguì il silenzio delle armi, animato dal cortocircuito psicologico di un'umanità divisa tra euforia e fame, tra desiderio di vendetta e voglia di dimenticare, tra ansia di riscatto sociale e faticoso superamento di antichi odi - culturali, etnici, di classe. La ricostruzione di Buruma tocca tutti gli aspetti di quel breve e decisivo periodo: il destino dei sopravvissuti ai lager nazisti, la formazione dello Stato di Israele, la tragedia del popolo polacco passato da una schiavitù a un'altra, il sacrificio degli ideali della resistenza antifascista (in Francia come in Italia) sull'altare dei nuovi equilibri geopolitici, il contraddittorio processo di epurazione dei "collaborazionisti", il futuro riassetto del Vicino Oriente, l'inizio della guerra civile in Cina e l'occupazione alleata del Giappone.
"Spinoza, che non era un uomo religioso, credeva che la religione andasse bene, ma solo a condizioni rigorose. La fede doveva indurre le persone a un comportamento amorevole e pacifico, non doveva mai immischiarsi nell'indagine razionale e doveva sempre sottostare al controllo dei governanti dello Stato laico. Non sono sicuro di concordare sull'ultimo punto, ma i primi due sono ineccepibili." Il nuovo millennio si è aperto con un ritorno aggressivo della religione sulla scena pubblica, più in Europa che altrove. Basti pensare alle forti ingerenze del Vaticano sui temi della bioetica o ai movimenti fondamentalisti arabi che hanno seguito anche nel vecchio continente, Ian Buruma, saggista e giornalista di fama internazionale, si interroga sul rapporto fra religione e democrazia e sul modo in cui le società multiculturali e i regimi politici - in Europa, in America, in Asia - sono stati condizionati, nel bene e nel male, da tensioni fra autorità laiche e religiose. Per concludere che la verità rivelata può influenzare le opinioni di un individuo, nel bene e nel male, ma non le si dovrebbe concedere alcuna autorità politica. "Confucio, il buon vecchio saggio cinese, non aveva mai udito parlare di democrazia, ma quando il suo discepolo gli chiese come servire gli spiriti e gli dei rispose: lasciamo gli spiriti da parte, finché non conosceremo il modo migliore per servire gli uomini".
Il 2 novembre 2004 un olandese di origine marocchina uccide nel pieno centro di Amsterdam con un coltello e in nome del Corano il regista Theo Van Gogh. Era "colpevole" - lui e la sceneggiatrice somala Ayaan Hirsi Ali - di aver girato un film ritenuto blasfemo per l'Islam. Per Buruma è un brutale punto di svolta che segna la crisi di un modello di integrazione - il multiculturalismo - in un Paese che vantava di essere un bastione della tolleranza, che aveva accolto turchi, marocchini, siriani, iraniani, egiziani, cinesi. Dopo quel gesto la crisi politica e identitaria è stata gravissima e ha dato voce a chi urlava che l'Islam è "una religione arretrata", i musulmani "un popolo di bruti", e che non è tollerabile accettare una cultura che tramanda pratiche inaccettabili e violenze. Ma è possibile azzerare le culture di provenienza costringendo gli immigrati ad adeguarsi agli standard culturali occidentali in una sorta di integrazione forzata? Secondo Ian Buruma, tutto ciò è impossibile. E questa presa di posizione è all'origine di uno scontro tra intellettuali di diversa estrazione che ha preso toni di dimenticata durezza. Ma che la lettura di questo libro può collocare nella giusta prospettiva.