Dire ministra costa una fatica che non si sperimenta nello speculare maestra. La difficoltà è, di fatto, concettuale: il linguaggio infatti rivela perfino nella morfologia il persistere della gerarchia di valori ritenuti “oggettivi” anche quando si sono trasformati in pregiudizi che mortificano le donne. L’autorità femminile non abita nemmeno le chiese, dove il nome di dio è inesorabilmente maschile. Oggi non solo Papa Francesco dichiara l’esigenza di recuperare su un passato di discriminazione: anche Giovanni Paolo II aveva reso omaggio al “genio femminile”, ma la Chiesa istituzionale è fin qui apparsa poco interessata a giovarsi dell’intelligenza e della cultura delle donne, nonostante il contributo ormai imponente della “teologia di genere”. Resta il potere del diritto canonico e del canone 767 che riserva l’omelia “al sacerdote o al diacono”, mentre proprio nella lettura del Vangelo la comunità potrebbe ancor più compiutamente crescere in grazia e verità. Le donne debbono dunque permettersi di fare un passo avanti e leggere la parola di dio senza nemmeno assicurare che, tanto, peggio degli preti e dei diaconi non faranno.