Agnese e Pino, nati nel 1893, appartengono a quella generazione sfortunata che ha attraversato entrambe le Guerre Mondiali, che hanno scavato voragini nelle loro vite. Lei è una ragazza pratica e riservata con una madre svampita e un fratello minore da accudire; lui è il rampollo di una nobile famiglia siciliana. Si incontrano a Milano all'inizio del secolo scorso, si innamorano, hanno una figlia. Ma il destino non li vuole insieme. Pino intraprende la carriera militare e la famiglia non solo gli vieta di riconoscere il figlio avuto da Agnese, ma lo spinge a un matrimonio di convenienza con una cugina. Agnese trova lavoro come sarta, va a vivere insieme alla figlia in una casa di ringhiera in corso Buenos Aires e lì, giorno dopo giorno, tesse la trama minima della propria esistenza, accettando le cose come vengono, lavorando. Mentre la sanguinosa storia del secolo breve si snoda spietata, Agnese e Pino tornano di tanto in tanto a incontrarsi, senza mai deviare il corso del proprio destino. Si vogliono bene, ma non arrivano mai a credere che questo possa essere sufficiente. Finché nel 1941, dopo anni che non si vedono e a chilometri e chilometri di distanza, muoiono di malattia, a pochi mesi l'uno dall'altro.
Il titolo viene da un'usanza sette-ottocentesca di cui parla lo scrittore Giuseppe Rovani nel romanzo “Cento anni”: uomini di mondo si facevano dipingere la maschera di un noto personaggio del tempo, poi se la applicavano sul volto per stupire, infastidire o impaurire la gente per strada o nei salotti. Il protagonista, vissuto nella convinzione di assomigliare all'amato padre, scoprirà, alla fine, di essere identico al detestato nonno. Almeno nei tratti del volto. Le due figure del padre e del nonno sono l'oggetto di una doppia indagine da parte del narratore. Entrambi sono legati a un mistero: il padre a un inspiegabile suicidio, il nonno a una colpevole sparizione che ha generato sofferenza e senso d'abbandono. Entrambi sono legati a una figura femminile assente: il primo ne è il marito, il secondo il padre.
Maurizio Cucchi svolge, fin dagli anni Settanta, un lavoro di osservatore e critico della poesia contemporanea, promuovendo iniziative, tracciando percorsi antologici. Nel corso di quasi quarant'anni, Cucchi ha studiato e scritto di poesia forse più di ogni altro autore della sua generazione, pubblicando saggi in riviste letterarie, accademiche o militanti, introducendo opere di autori di generazioni e tendenze diverse, recensendo un gran numero di novità importanti su vari quotidiani e settimanali. In questo libro viene raccolta per la prima volta un'ampia scelta dei suoi interventi, che coinvolgono i protagonisti della poesia italiana del Novecento e dell'inizio del nuovo secolo. Ne esce una sorta di resoconto, di vera e propria cronaca condotta da vicino, attraverso le opere di figure di primissimo piano come Zanzotto, Giudici, Raboni, Risi - ai quali sono dedicati i giovanili ma consistenti saggi di apertura - per arrivare al lavoro delle generazioni successive e dunque fino a poeti, ormai divenuti presenze centrali, come Magrelli o Valduga. Tutto questo, peraltro, mettendo in risalto la grandezza dei maestri nati negli anni Dieci: Bertolucci, Caproni, Luzi, Sereni, non senza aver condotto una personale rilettura di grandi del primo Novecento come Saba, Ungaretti, Rebora.