Josep Maria Esquirol è il filosofo della prossimità. Contro il narcisismo e il solipsismo di questi nostri tempi disorientati e confusi, costruisce una riflessione sull'uomo e il mondo utilizzando, come gli è consueto, una metafora efficace: siamo tutti piccole verticalità che restano in piedi l'una grazie all'altra e nel calore della prossimità e della non-indifferenza riusciamo ad avvertire l'infinito che ci attraversa e a trovare la maniera di rispondergli generando legami e senso. Una cosa può avere un ruolo fondamentale nel coltivare questa attitudine alla risposta, nel sostenere ognuno nel proprio cammino verso una vita matura e feconda: è la scuola, intesa non solo come istituzione, ma, nel suo registro più ampio, come luogo in cui si allena l'attenzione alle cose del mondo e agli altri, un luogo dedicato all'insegnare e all'educare nel loro senso originario di indicare, mostrare e aiutare qualcuno a trovare in sé risorse e modi. È questa la 'scuola dell'anima', un'educazione alla cura che può esercitarsi nel luogo concreto di un edificio scolastico, ma che può anche durare tutta la vita, con la porta aperta per tutti e per ogni età. «Andare a scuola. Trovarvi qualcuno che ti aiuta a vedere che puoi, che sei origine. Prestare attenzione alle cose e cominciare a scorgere la profondità del mondo. Diventare manovale del mondo. Sostenere gli altri. Persistere e rispondere alla rivelazione del mondo e della vita. E trovare, così, la buona maniera di vivere».
Domande all'apparenza semplici quali «come va?» o «da dove vieni?» o «come ti chiami?», se colte nel loro senso più profondo, ci conducono al centro della nostra anima, là dove - ci spiega il filosofo catalano Josep Maria Esquirol nel saggio Umano più umano - siamo toccati da quattro realtà fondamentali con cui abbiamo a che fare per tutta la nostra esistenza: la vita, la morte, il tu e il mondo. L'incontro con questi «infiniti essenziali» segna una «ferita», un'apertura inesauribile che sottrae a ogni pretesa di autosufficienza e che ci costituisce nella nostra umanità. Imparare a vivere è imparare ad accompagnare queste ferite, non a suturarle. Esse infatti sempre ci sorpassano con il loro eccesso e chiedono la pazienza di continue risposte. Risposte da cercare non nell'oltre postulato dalle odierne tendenze transumanistiche, ma restando dentro questa condizione, intessuta di vulnerabilità e debolezza.
Penultima bontà: perché quell'aggettivo? Perché 'penultima'? Domanda legittima, persino scontata, di fronte al titolo di questo libro del filosofo catalano Esquirol, la cui risposta si snoda lungo pagine di parole semplici e dense insieme, calde e profondamente vere, scritte con finezza di tessitura letteraria e originalità di pensiero. Abbiamo davvero bisogno di uscire da quell'orizzonte di senso che ingabbia la vita umana tra un inizio perfetto e perduto e una fine ineluttabile e definitiva, perché quello che avvertiamo, con la certezza di un'esperienza che ci percorre continuamente dalla pelle al cuore mentre viviamo qui e ora, è che il mistero della vita non risiede in un paradiso impossibile da cui siamo stati cacciati né nell'ultimità della morte, ma nella penultimità, appunto, della vita che vive e si sente vivere. Questa, ci dice qui Esquirol dialogando con il libro della Genesi, con Platone, con san Francesco e Zarathustra/Nietzsche, con Heidegger, Simone Weil e tante altre voci del pensiero filosofico, è la caratteristica propria dell'umano: sentirsi vivere, essere coscienti di un'esperienza vitale che non si fa rinchiudere, ma vibra e pensa e ama scoprendosi imperfetta, spesso ferita, mai compiuta e sempre penultima, eppure proprio per questo capace di riconoscere la stessa condizione negli altri e di creare comunità. Una comunità fraterna che vive ai 'margini', per usare la bella espressione con cui Esquirol indica il quotidiano, fatto di crepe, di deserto, di fatica, ma anche di prossimità, di resistenza, e soprattutto di cura e di gratitudine.