Nuove chiavi di lettura su uno dei massimi filosofi del novecento
Ancora avvolta dall’aura dello scandalo, l’opera di Georges Bataille corre il rischio di vedere oscurata la forza teorica che la sostiene e che continua a provocare una contemporaneità poco incline ad occuparsi di un pensiero scomodo e non addomesticabile. Eretico, sulfureo, maledetto, Bataille incarna le inquietudini vissute dall’Europa delle guerre mondiali, e i suoi legami con Klossowski, Leiris, Blanchot, Kojève e le varie avanguardie artistiche del secolo appaiono oggi come la testimonianza di un’intelligenza fervida, spesso in anticipo sui tempi ma anche capace di sondarne le direzioni e gli esiti e, soprattutto, capace di essere sempre pienamente presente a quanto si veniva annunciando. Se, dunque, è innegabile riconoscere che la prima metà del secolo appena trascorso sia stata inquietata dalle sue analisi ribelli e volutamente eterogenee, lanciate come una sfida verso saperi apparentemente inscalfibili, è altresì difficile trovare unite in una medesima esigenza del pensiero letteratura e politica, filosofia e scienza, etnologia e indagine iconografica: pensatore dell’estremo, fondatore del Collège de Sociologie insieme a Leiris e a Caillois, fondatore di Critique e collaboratore di un imprecisato numero di riviste su cui si esercitarono le menti più acute dell’avanguardia artistica francese, Bataille ha legato il suo nome alla pubblicazione di un’opera narrativa di folgorante bellezza, come pure all’indagine antropologica condotta a partire dai sentieri inaugurati da Marcel Mauss o, ancora, alla partecipazione ai dibattiti politici stretti nella morsa dei totalitarismi. La scrittura febbrile di Bataille esige un’attenzione e un ascolto capaci di accogliere l’impensato da cui scaturisce e verso cui pencola e che, da una parte, assume la forma stessa della dépense, del dispendio delle parole e del pensiero e, dall’altra, si modula come quell’"impossibile" comunità del segreto che ci è stata consegnata sotto il nome di Acéphale: tra dépense e Acéphale, dunque, è possibile individuare la tessitura di una riflessione che scardina gli ordini sociali e politici in nome di una più radicale condivisione di quella finitezza di cui ogni uomo è insieme prigioniero e custode. Finitezza dai confini smarginati, enigmatica mescolanza di riso e tragedia, incessante trapasso in cui restano impigliati frammenti che invocano un infinito e frammentario commento, memore forse dell’unico imperativo della scrittura e della comunità che - come ha scritto Blanchot a proposito dell’amico - consiste nel «darsi senza ritorno all’abbandono senza limite».
Racconta Tacito nelle sue Storie che Pompeo, entrato a Gerusalemme con la forza del vincitore, ne profanasse il Tempio trovandolo vuoto e senza misteri di sorta. Ma è proprio intorno a questo vuoto che la tradizione di pensiero ebraica ha sviluppato - nel corso dei secoli - una riflessione che non smette di inquietare e interrogare chiunque si avvicini ai rotoli che compongono la Torah. Vuoto o assenza massimamente generativi, dunque, perché scaturiti da un'Origine imbrigliata in una scrittura che reclama un'interpretazione inesauribile.