Il termine "idioti" del titolo non è un insulto gratuito. È da intendersi nel senso etimologico di "circoscritti", "localizzati", "irretiti", "prigionieri nel web". È sempre più tardi di quanto si crede. Ora anche i periodici a grande tiratura (si veda "Newsweek" del 13 luglio 2012) i fini dicitori del giornalismo salottiero e i compunti maggiordomi del potere quale che sia, i vati dell'ovvio e gli specialisti dell'aria fritta se ne vanno accorgendo. Un'intera generazione - come da almeno trent'anni vado documentando - appare nello stesso tempo informatissima di tutto, comunica tutto a tutti in tempo reale, ma non capisce quasi nulla e non ha niente di significativo da comunicare. È una generazione al macero, appesa agli schermi opachi di TV, Internet, Facebook, Youtube, destinata all'obesità catatonica e alla lordosi sedentaria. La stessa molteplicità e eterogenea abbondanza delle informazioni la deforma, la fagocita, le impedisce di stabilire una propria tavola di priorità.
I giovani sono fotogenici. Tutti ne parlano. Nessuno li conosce. Tuttavia, anche là dove è ammessa e da tutti riconosciuta l’esistenza di una “questione giovanile”, i giovani non sono ascoltati. Il semplice fatto è che oggi ascoltare i giovani richiede una libertà di spirito che è di pochi, si pensa che sia inutile, che comunque abbiano poco da dire, che sarebbe tutto sommato una perdita di tempo. F. Ferrarotti, in questo lavoro, prende in esame ciò che ruota intorno ai giovani e che genera la loro emarginazione, come l’“invecchiamento” della classe politica, la mistificazione psicologistica, la democrazia “truccata”, l’affermazione della realtà virtuale, il precariato lavorativo, focalizzando le peculiarità italiane in merito ai processi sociali e produttivi, che sempre meno vedono coinvolti i giovani.
Dopo quarant'anni l'autore ha ripreso il tema della periferia cittadina e della marginalità urbana per analizzarne le profonde modificazioni,nonché la perdita di contatto con quella sinistra che poneva il sociale come priorità assoluta. Come mai la vecchia "cintura rossa "ha ceduto il posto ad una concezione piccolo-borghese, secondo la quale si teme di perdere il benessere conquistato? Perché le vecchie classi subalterne tentano di sfruttare i nuovi immigrati così come un tempo è stato fatto con loro? Il volume si propone di rispondere a tali rinnovati quesiti, ponendo al centro dello studio il fatto per cui non esiste più una periferia marginale e poco abitata, ma essa è ormai parte integrante e fondamentale della città. "La conseguenza logica è intuibile: bisogna portare il centro in periferia" e tener presente che la periferia non è più periferica.
Qual è la matrice specifica del capitalismo? Dove poggia, come è avvenuta e si è quindi diffusa l'accumulazione primitiva di capitale che ha consentito lo sviluppo di questa nuova fase della storia umana, ben lontana, a quanto è dato prevedere, dalla sua fine? Le risposte sono varie e contraddittorie. Storicamente, due di esse tengono il campo. La prima è quella di Max Weber, che fa perno sull'etica vissuta e la vita metodica dei puritani di Calvino, portati a garantirsi la prosperità in questo mondo, non per goderne, ma per assicurarsi la salvezza nell'altro; la propensione al risparmio sarebbe, secondo questa prima tesi, la vera molla dell'accumulazione capitalistica. Contraria e simmetrica è la risposta del conterraneo di Weber, il "professore rosso" Werner Sombart. Sarebbero state le classi agiate, attraverso il perseguimento di un dominio simbolico della razionalità tecnica, a favorire la crescita del modello della produzione capitalistica. Per dirla con Mumford, non la macchina a vapore, bensì l'orologio sarebbe stata la "macchina rivoluzionaria" per eccellenza. Dunque: lusso o risparmio? Il fondamento dell'accumulazione capitalistica è stato il lusso delle grandi corti europee oppure il risparmio, la vita metodica e "santa", l'ascetismo dei puritani, ossessionati dalla "certitudo salutis" nell'aldilà e, intanto, sobri, risparmiatori in questo mondo?
Questo libro racconta una delle quattro carriere dell'autore, divenuto diplomatico "per caso" a Parigi alla fine degli anni Cinquanta; "carte verte", immunità e altri privilegi, membro di una élite sopranazionale sulla base di regole, per l'Europa, risalenti al Congresso di Vienna del 1815 e di Aix-la-Chapelle del 1818, estese poi a tutti i Paesi. Ma il libro non si occupa, naturalmente, della storia e neppure delle norme internazionali che governano questa illustre istituzione, stranamente quasi mai chiamata in causa per il lamentevole stato degli attuali rapporti internazionali. Si dice "Ambasciator non porta pena", d'accordo. Ma qual è l'apporto positivo specifico della diplomazia? Nell'epoca della comunicazione elettronicamente assistita è ancora necessaria? Non disdegnando minimi aneddoti, il libro si occupa della vita quotidiana delle grandi organizzazioni diplomatiche e cerca di offrire al lettore curioso un'idea realistica di ciò che accade dietro la facciata, nei sontuosi uffici e nei palazzi, gettando un'occhiata, talvolta indiscreta, all'interno della quotidianità di queste istituzioni.
Ogni identità nasce dal gesto di un "noi" che si distingue da un "loro", che si oppone ai volti e alle voci degli "altri". Violenza originaria dell'identità e del suo inaugurale monologo, si direbbe. Violenza che l'epoca della cosiddetta globalizzazione rilancia e moltiplica senza sosta. È possibile pensare l'identità altrimenti che come monologo, gesto di esclusione, implicita o esplicita aggressione? Le pagine di un maestro della sociologia italiana, come Franco Ferrarotti, ci introducono passo passo in questa diversa prospettiva, e la declinano nei termini suggestivi di un'identità dialogica. Di un'identità, cioè, che fa dell'alterità non una minaccia ma una risorsa, non un buco nero ma uno specchio necessario, e a suo modo positivo. Gli "altri" non sono di fronte a noi, come nemici, ma in noi, come nostra condizione di possibilità. Il dialogo è più antico del monologo. L'ospitalità più antica di ogni frontiera. Posta in gioco affascinante ed urgente di ogni ricerca filosofia, psicologica, sociologica, ma anche di ogni concreto e fattivo progetto politico a venire.