Il successo di trent'anni di riforme economiche cinesi ha posto in discussione l'efficacia delle politiche di sviluppo - note come "Post-Washington consensus" - promosse dalle organizzazioni multilaterali. Partendo dall'assunto che le istituzioni sono importanti per la crescita, il consenso prescriverebbe che i paesi in via di sviluppo si dotino di governi che disciplinino un sistema di diritti di proprietà stabili e definiti e creino istituzioni capaci di rafforzare i mercati: in sostanza la good governance ossia un mix di liberalizzazione, privatizzazione delle proprietà statali, trasparenza della pubblica amministrazione e assenza di corruzione - dovrebbe indurre lo sviluppo economico. Non era così nella Cina di Deng Xiaoping: i diritti di proprietà non erano né stabili né chiari, la corruzione era diffusa, il governo era coinvolto in tutti i settori dell'economia. Ancora oggi le istituzioni cinesi si conformano poco ai paradigmi liberali. Eppure la Cina si è sviluppata con estremo successo. Come si spiega questo esito in apparenza paradossale? Per dare una risposta il volume utilizza gli strumenti della political economy. Quindi la Cina si è sviluppata importando (pur senza ammetterlo) il capitalismo, e da questa esperienza è utile trarre conclusioni che sfidano il consensus, soprattutto ora che la crisi finanziaria del 2008 costringe anche i paesi storicamente industrializzati a rivedere i rapporti tra stato e mercato.